‘Ndrangheta a Rho, le parole del dottor Messina sono l’ultimo campanello d’allarme per il potere
Le parole del dott. Francesco Messina, direttore centrale dell’Anticrimine della Polizia, investigatore caparbio e preparatissimo, sono l’ultimo (in ordine di tempo) campanello d’allarme per Governo e Parlamento.
L’occasione per queste parole è la maxi operazione contro la ‘ndrangheta nel milanese che ha portato a smantellare (di nuovo) la locale di Rho.
“La narrazione, talvolta sostenuta, di una ‘ndrangheta evolutasi al punto da abbandonare l’aspetto militare in favore di strategie criminali più sofisticate non è del tutto precisa – ha proseguito Messina – A Milano la Polizia di Stato e la magistratura continuano ad affrontare la minaccia mafiosa ben consapevoli che il contrasto dell’ala militare della ‘ndrangheta deve continuare ancora a lungo e deve essere affiancato da una sistematica aggressione all’accumulo dei patrimoni illeciti, che ne costituiscono la linfa vitale. Peraltro, gli esiti investigativi odierni attestano ancora una volta come sovente la detenzione carceraria non riesca a recidere il legame tra affiliato e struttura mafiosa di appartenenza”.
Per comprendere la portata di queste affermazioni bisogna considerare almeno un elemento fattuale, cioè che il presunto “bandolo” della ricostruzione della locale di Rho sarebbe niente meno che il vecchio capo, già condannato in via definitiva per mafia con l’inchiesta Infinito nel 2010 e tornato libero dopo aver scontato la condanna inflittagli.
1. Il primo punto che mi preme sottolineare: ottenere ubbidienza, facendo paura attraverso la minaccia (che può trasformarsi in violenza) resta il biglietto da visita delle organizzazioni di stampo mafioso al Nord come al Sud. Tradotto: c’è in Italia una umanità vasta che vive quotidianamente nella morsa del terrore mafioso, una umanità fatta di tante donne e giovanissimi soffocati dalla mafia che hanno in casa, fatta di commercianti e imprenditori che cadono nella trappola del denaro dato in prestito, fatta di giocatori d’azzardo (più o meno patologici) stritolati dal più fiorente dei nuovi business mafiosi (come riportato ancora nell’ultima semestrale della Dia), fatta da amministratori locali che tentano di impedire l’assalto alle risorse pubbliche, spesso a rischio della vita, come ogni anno documenta il rapporto di Avviso Pubblico.
Cosa sanno dire a questa umanità il Governo e il Parlamento? L’istituzione della Commissione parlamentare Antimafia slitterà al 2023?
2. Secondo punto: la resilienza del vincolo mafioso. Sospendiamo pure, come è giusto che sia, il giudizio nel caso concreto, ma la cronaca giudiziaria è piena di esempi che dimostrano quanto il vincolo mafioso sia duro a morire e che non basti una buona condotta in carcere per ritenere che il detenuto mafioso abbia compreso la lezione e deciso di cambiare vita. Torna alla mente, inevitabilmente, il dibattito sulla riforma del cosiddetto ergastolo ostativo e in particolare sugli argomenti posti alla base della trasformazione della presunzione assoluta di pericolosità sociale del mafioso condannato che non collabori con la Giustizia (al netto della collaborazione “impossibile”!) in presunzione relativa.
Relativa a cosa? Alla dimostrazione di non avere tenuto rapporti con l’organizzazione, né che si possa in qualche modo riattivarli. Dimostrazione che, secondo il testo approvato dalla Camera, dovrebbe almeno essere a carico del mafioso stesso, ma quale giudice di sorveglianza si assumerà l’onere di entrare nel merito di tali dimostrazioni, per avallarle?
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