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Quaranticinque anni fa lo Stato iniziò a cedere ai boss mafiosi. La violenta ascesa dei ‘corleonesi’

Luca Tescaroli * il . Criminalità, Diritti, Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Il 21 novembre 1977, intorno alle 7,45, un’autovettura Fiat 127, mentre transitava nel tratto di strada Riesi-Sommatino, in contrada Palladio, simulava un incidente, speronando frontalmente una BMW, sulla quale viaggiavano Giuseppe Di Fede e Carlo Napolitano, così costringendola a fermarsi.

Subito dopo l’urto violento, scendevano dalla 127, Antonino Marchese e Leoluca Bagarella, i quali esplodevano numerosi colpi di fucile da caccia caricati a pallettoni e di rivoltella calibro 38, contro i malcapitati Di Fede e Napolitano. L’obiettivo reale era il boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina, rappresentante provinciale di cosa nostra della provincia di Caltanissetta, dal 1975 membro dell’organo di vertice di cosa nostra la “Commissione regionale”.

Quel mattino, dopo essere salito sulla BMW, Di Cristina era sceso per trattenersi nella propria abitazione. Giuseppe Di Cristina apparteneva alla mafia per tradizione familiare, aveva stretto patti e alleanze, era conosciuto come “l’elettore” di Calogero Volpe della Democrazia Cristiana; il fratello del boss, Antonio Di Cristina, era sindaco di Riesi. Egli sfuggì all’agguato – voluto da Salvatore Riina e da Bernardo Brusca, d’intesa con Giuseppe Ferro, Giuseppe Di Caro e Bernardo Provenzano, che agirono all’insaputa dei componenti di vertice di cosa nostra – ma capì di essere un uomo morto.

Iniziò così l’ascesa dei corleonesi che vide la progressiva eliminazione fisica o, comunque, l’emarginazione dei rivali (il gruppo dei mafiosi dell’ala moderata, riconducibile ai palermitani Salvatore Inzerillo, Stefano Bontate, Rosario Riccobono e Gaetano Badalamenti, al catanese Giuseppe Calderone, al nisseno Di Cristina, all’ennese Giovanni Mungiovino e all’agrigentino Nicola Di Giovanni) e l’esplosione della c. d. ultima guerra di mafia, nel corso dei primi anni Ottanta, che portò Riina a controllare la Cupola mafiosa, da dove mosse guerra allo Stato.

Una lunga scia di sangue, con migliaia di vittime e l’abbattimento di numerosissimi esponenti delle istituzioni, iniziato il 20 agosto 1977 con il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, alla cui uccisione Giuseppe di Cristina si era fortemente opposto. Un sanguinoso crescendo, sottovalutato da uno Stato che troppe connivenze ha tollerato e, forse, favorito.

Sono trascorsi 45 anni da quell’evento delittuoso, che ha segnato la storia di cosa nostra, non ancora conclusa. I mandanti e gli esecutori sono stati individuati. Dopo quasi un quarto di secolo, l’11 aprile 2002 la I sezione della Corte di Cassazione ha definito la vicenda giudiziaria, con il passaggio in giudicato dell’ultima condanna, quella nei confronti di Riina, grazie soprattutto al contributo di più collaboratori di giustizia.

La relativa vicenda giudiziaria, di cui mi occupai quale pubblico ministero, fu caratterizzata dalla peculiare sorte processuale di Giovanni Brusca, il quale non è stato creduto quando ha confessato di avere fatto parte del commando che aveva assassinato Di Fede e Napolitano. A seguito della pronuncia della Corte d’Assise di Caltanissetta del 20 aprile 1999, che lo assolse per non aver commesso il fatto, aderendo alla richiesta che avevo formulato al termine della requisitoria, Giovanni Brusca iniziò una autentica collaborazione con la giustizia, comprendendo che quella era l’unica via che poteva percorrere.

A seguito del duplice omicidio, Di Cristina si vendicò, rivolgendosi ai Carabinieri, al fine di salvarsi la vita. Come ha ricordato l’allora capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato, durante la sua deposizione nel processo di I grado, egli iniziò a fornire al brigadiere Pietro De Salvo – comandante della stazione dei carabinieri di Riesi, a far data dall’ultima domenica del mese di febbraio del 1978, tre mesi dopo il progetto di attentato nei suoi confronti – una serie di confidenze di straordinaria importanza, mostrando di essere impaurito, dirette a svelare responsabilità e basi di appoggio del gruppo dei corleonesi o, comunque, a fornire indicazioni utili per orientare in tal senso le indagini e per catturare latitanti appartenenti a quel gruppo. Un gruppo riconducibile a Luciano Liggio (l’uomo che aveva voluto e saputo rompere gli schemi, con l’aggressione agli uomini dello Stato, che prima era considerata un gravissimo errore da evitare), di cui facevano parte, fra gli altri, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, padre di Giovanni e Leoluca Bagarella.

Di Cristina spiegò che era stato Luciano Liggio a uccidere il Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione, assassinato il 5 maggio 1971, e si dilungò sui progetti futuri delle cosche, sottolineando, fra l’altro, che sarebbe stato ucciso Cesare Terranova, che puntualmente si verificò l’anno seguente, il 25 settembre 1979.

Il rapporto contenente le confidenze di Di Cristina venne depositato negli uffici giudiziari di Palermo il 25 agosto 1978. Le sue indicazioni furono sottovalutate dagli inquirenti, nonostante l’assassinio di Cesare Terranova e, il 30 maggio 1978, fosse stato ucciso lo stesso Di Cristina, a Palermo, alla fermata di un autobus, in via Leonardo da Vinci. Un omicidio che appariva come il frutto di una vendetta e della necessità di eliminare un componente dell’associazione divenuto scomodo.

L’avvio di un’articolata investigazione (e, ancor più, l’inizio di una sua formale collaborazione con la giustizia, ove si fosse concretizzata) avrebbe prodotto effetti dirompenti in seno a cosa nostra. Le sue indicazioni vennero, poi, nel 1984, in larga parte convalidate, nei limiti delle loro conoscenze, da Tommaso Buscetta e da Salvatore Contorno, che possedevano un rango mafioso decisamente inferiore rispetto a Di Cristina in seno a cosa nostra.

Se le sue indicazioni non fossero state accantonate e le piste indicate verificate tutta la storia successiva sarebbe stata diversa e, forse, non avremmo assistito alle stragi che nel corso degli anni Ottanta e Novanta si sono verificate a opera dei corleonesi, guidati da Salvatore Riina.

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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