Il 5 novembre e i giornalisti
Sabato prossimo, 5 novembre, migliaia di cittadini italiani daranno vita ad una grande manifestazione per la pace. Ci saranno persone e organizzazioni, gruppi e istituzioni molto diverse ma unite dalla volontà di fare l’impossibile per fermare la guerra. Chi darà conto del loro sforzo? Chi ascolterà le loro voci? Cosa racconteranno le televisioni? A chi daranno la parola? Cosa scriveranno i giornali? Come si comporterà il nostro servizio pubblico radiotelevisivo?
La buona comunicazione, in una società democratica, vorrebbe che si ascoltassero le preoccupazioni e le proposte di questi cittadini che, con intelligenza e coraggio, mettono in gioco i propri corpi per una causa così importante. Ma siamo in guerra e di pace non si deve parlare.
Chi fa la guerra vuole vincere e non vuole sentir ragioni. Abbiamo visto cosa è successo nella Federazione Russa a chi ha osato dire che non era d’accordo con l’invasione dell’Ucraina. Da noi, i metodi sono stati fino ad ora diversi ma il risultato è molto simile. Chi, come Papa Francesco, osa dire che c’è un altro modo per difendere gli ucraini, che dobbiamo ricostruire le condizioni per un negoziato politico, viene silenziato, disprezzato, insultato.
La preoccupazione dei signori della “guerra unica risposta” è mantenere alto il sostegno mediatico per evitare che la contrarietà dei cittadini possa incrinare i loro piani di battaglia. Per questo, da più di otto mesi, con pochissime ammirevoli eccezioni, assistiamo alla messa in onda, a reti unificate, del pensiero unico della guerra. È così che, ancora una volta, stanno cercando di formattare il mondo attorno a noi: con la propaganda, la censura, la distorsione e la manomissione della realtà e del pensiero.
Non importa se tutto questo aggrava la crisi di credibilità, fiducia e affidabilità nei confronti dell’informazione “ufficiale”. Non importa se una riduzione così marcata dello spazio politico del confronto pubblico e del pluralismo mortifica la nostra democrazia.
La manifestazione per la pace del 5 novembre è una importante occasione per tentare un bilanciamento. L’adesione e la partecipazione attiva di Articolo 21 sono un prezioso, inossidabile, punto di riferimento. Come tutte le donne e gli uomini che vogliono la pace, anche le giornaliste e i giornalisti sono chiamati a mettere in campo i propri corpi e a costruire una comunicazione non ostile, libera, onesta, aperta all’ascolto di tutte le voci, preoccupata di costruire pace e non di fomentare guerre.
C’è bisogno innanzitutto di raccontare la manifestazione e di dar conto delle sue ragioni senza le solite manipolazioni e distorsioni politiciste, dando la parola non a propagandisti travestiti da pacifisti ma a chi ha competenze, credibilità e impegno decennale. Ma poi c’è da forzare l’apertura di un dibattito pubblico attorno alla domanda più importante: giunti a questo punto, cosa vogliamo fare? Continuare a sostenere la guerra o cercare di fermarla? Continuare a subire gli eventi o cercare di modificarne il corso?
Dopo 8 mesi di guerra alla guerra di Putin, mentre assistiamo impotenti alle sue catastrofiche conseguenze e temiamo la sua drammatica escalation, queste domande non sono solo legittime ma doverose. Possiamo rompere lo schema della guerra e affrontarle assieme, in modo serio e responsabile?
* Coordinatore della Marcia PerugiAssisi
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