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Finisce davvero il “fine pena mai”? Riflessioni e interrogativi sul dl che riscrive il 4-bis

Riccardo De Vito * il . Criminalità, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Società

Una prima analisi delle disposizioni del decreto-legge 162/2022 in materia di ergastolo ostativo. Superarlo effettivamente sarà un compito dell’interprete.

L’avvio della legislatura

L’esordio del governo Meloni nel campo della produzione legislativa è imperniato su giustizia penale e sicurezza. Ad eccezione della disposizione che anticipa al 1° novembre la fine dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario, tutte le disposizioni del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, ruotano attorno alla penalità sostanziale, processuale e penitenziaria: differiscono dal 1° novembre al 30 dicembre 2022 il termine di entrata in vigore del decreto legislativo 150/2022 – attuativo della “riforma Cartabia” in punto di efficienza del processo penale e giustizia riparativa –, configurano la nuova fattispecie penale relativa al contrasto dei rave party (ma sono davvero i rave l’oggetto dell’incriminazione?) e, soprattutto, “affrontano la materia” dell’ergastolo ostativo.

Nulla di nuovo sotto il sole: con i binari delle politiche economiche e monetarie tracciate e difficilmente modificabili, a sinistra come a destra la politica criminale è diventata il terreno d’elezione per conquistare consenso, creare egemonia, dare forma alle visioni del mondo. Lo ha evidenziato con grande chiarezza Francisco Muñoz Conde: la politica criminale «è in realtà lo strumento preferito dal potere per convertire il suo programma politico o la sua ideologia in norme giuridiche di grande impatto sulla regolazione della vita sociale dei cittadini» [1].

Il punto è che programmi politici e ideologie delle sinistre e destre istituzionali, quando arrivano a lambire la penalità e soprattutto il carcere, si assomigliano nei contenuti. Questo intervento legislativo in tema di ergastolo ostativo costituisce l’ennesima conferma.

Il decreto-legge, salvo modifiche minime, riproduce per intero il contenuto del disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati nella scorsa legislatura, il 31 marzo 2022. In quell’occasione il testo ottenne i voti favorevoli di gran parte delle attuali opposizioni – in quanto, a loro avviso, equilibrata composizione di finalismo rieducativo ed esigenze di sicurezza sociale – e l’astensione della forza politica di attuale maggioranza relativa, che lo riteneva troppo permissivo e aperturista.

Ora gli argomenti si ribaltano: per la maggioranza il decreto è importante strumento di contrasto alla criminalità organizzata (fatta naturalmente salva la strada delle modifiche in sede di conversione), mentre i grandi quotidiani orientati sul versante liberal si meravigliano solo ora di una riforma che, contrariamente a quanto richiesto dalla Corte costituzionale, appare per alcuni versi peggiorativa della disciplina attuale [2].

Lo stato dell’arte prima del decreto

Per addentrarsi nella materia occorre rifare il punto della situazione.

Cosa significhi ergastolo ostativo lo sappiamo: all’indomani della strage di Capaci del 23 maggio 1992, l’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazione nella legge 7 agosto 1992, n. 356, dà forma definitiva all’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario (d’ora in poi: ord. penit.) e stabilisce che ai condannati per reati di associazione mafiosa, o comunque di contesto mafioso, non possano essere concesse misure alternative alla detenzione se non in caso di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit.

Per i condannati all’ergastolo (in forza del richiamo di cui all’art. 2 del precedente decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modifiche nella legge 12 luglio 1991, n. 203) esiste solo la via della collaborazione per conseguire la liberazione condizionale, altrimenti si resta in carcere per sempre, il fine pena è davvero “mai”, non esiste spazio per alcuna riducibilità della pena perpetua. Inutile affannarsi al banco del magistrato di sorveglianza: ogni altra prova di compiuta rieducazione non è sufficiente, la presunzione assoluta di pericolosità collegata alla mancata collaborazione ‘osta’ a una valutazione in concreto del percorso di esecuzione della pena da parte del giudice.

Residuano, come sole possibilità alternative alla collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit. e sempre che siano acquisiti elementi probatori tali da escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, le vie della collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante: il condannato vuole collaborare, ma l’utilità di quest’ultima condotta è divenuta impossibile in ragione dell’avvenuto integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, inesigibile per via della limitata partecipazione al fatto criminoso, irrilevante nei casi di minima partecipazione al reato e di altre ipotesi consimili accertate dal giudice di cognizione.

Al “tragico elenco” dell’art. 4-bis si aggiungeranno man mano altri reati, peraltro spesso non incentrati, a livello di fattispecie, sull’operatività di un sodalizio criminoso con il quale recidere o mantenere i collegamenti. Non c’è emergenza criminale italiana – dall’associazione finalizzata al contrabbando allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, dal terrorismo alla violenza sessuale e alla produzione di materiale pornografico – che non induca il legislatore a riempire il calderone del comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit. Da ultimo (legge 9 gennaio 2019, n.3, c.d. “Spazzacorrotti”) entrano a far parte della nutrita schiera alcuni dei più gravi reati contro la pubblica amministrazione.

Che la pena sia temporanea o perpetua, dunque, dal carcere non si esce se non attraverso la collaborazione, unica prova effettiva della rescissione del legame con la criminalità organizzata e di un recuperato diritto a rientrare nel consesso umano. Chiaro che la questione, tuttavia, si ponga in termini drammatici per circa 1.259 ergastolani condannati per reati di criminalità organizzata e, in minima parte, di terrorismo. Ed è su questa particolare condizione – il fine pena davvero mai – che è intervenuta, dopo la Corte Edu [3], la Corte costituzionale.

Il tempo della Corte e il tempo del Parlamento

Non è necessario, in questa sede, ripercorrere la strada e le ragioni che hanno condotto all’erosione dell’ergastolo ostativo sia in sede convenzionale sia in sede di giurisprudenza costituzionale [4].

È sufficiente ricordare che la Consulta – chiamata a pronunciarsi sul contrasto con gli artt. 3, 27, comma 3, e 117, comma 1, Cost. delle disposizioni sopra citate che precludono l’ammissione alla liberazione condizionale del condannato per delitti di contesto mafioso che non abbia collaborato con la giustizia –, con la celebre ordinanza 15 aprile 2021, n. 97, aveva accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo, ma non l’aveva dichiarata, lasciando al Parlamento un anno di tempo per “affrontare la materia” ed elaborare una modifica delle disposizioni di ordinamento penitenziario coerente con le censure della Corte al meccanismo e idonea a evitare le conseguenze di un intervento meramente “demolitorio”, tale da poter mettere a rischio, nell’ottica di quegli stessi giudici costituzionali, «il complessivo equilibrio della disciplina in esame e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa».

La Consulta, allora, si era riservata di valutare ex post la conformità a Costituzione delle scelte assunte del Parlamento, rinviando a tal fine all’udienza del 10 maggio 2022. In quell’udienza, tuttavia, preso atto dell’approvazione alla Camera di una proposta di legge, la Corte aveva disposto ulteriore rinvio all’8 novembre 2022 al fine di consentire al Parlamento di completare i lavori.

Quello che è successo dopo è noto: la discussione nell’aula del Senato non è stata calendarizzata e la legislatura è terminata con lo scioglimento anticipato delle Camere. Inaugurata la nuova legislatura, quell’intervento legislativo approvato dalla Camera il 31 marzo 2022 è stato trasposto nel decreto-legge 161/2022.

Un caso straordinario di necessità e urgenza?

Una prima domanda riguarda i presupposti di cui all’art. 77 Cost. per l’adozione dello strumento normativo del decreto-legge, vale a dire la sussistenza di quei «casi straordinari di necessità e urgenza» che legittimano il Governo a adottare provvedimenti provvisori con forza di legge. Nel preambolo del decreto si legge che «la straordinaria necessità e urgenza di apportare modifiche alla disciplina prevista dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354” è correlata ai “moniti rivolti dalla Corte costituzionale al legislatore per l’adozione di una regolamentazione dell’istituto al fine di ricondurlo a conformità con la Costituzione« e alla «imminenza della data dell’8 novembre 2022, fissata dalla Corte costituzionale per adottare la propria decisione in assenza di un intervento del legislatore».

Si può ragionevolmente dubitare che il ritardo accumulato dal Parlamento nel rispondere alle due ordinanze con le quale la Corte, ormai da circa un anno e mezzo, ha sospeso il giudizio per valutare il lavoro delle Camere costituisca straordinaria ragione di urgenza.

Soprattutto, un tale intervento d’urgenza non consentirà alla Corte di pronunciarsi l’8 novembre 2022, stante la verosimile necessità di aspettare almeno la scadenza del termine di sessanta giorni per la conversione del decreto e la conseguente stabilizzazione normativa. Tanto premesso, la disquisizione sui presupposti del decreto-legge, almeno in questa materia, rischia di assumere connotati di astrattezza. Meglio confrontarsi con i contenuti dell’intervento normativo.

L’aumento del perimetro delle ostatività

La novella, in primo luogo (art. 1, lett. a, n. 1), esordisce aumentando il catalogo dei reati ostativi. Già qui, in fondo, si misura la cifra di un intervento normativo che in alcuni punti pare travalicare le indicazioni della Corte.

Ad essere sottoposti al nuovo regime differenziato per l’ammissione ai benefici penitenziari, infatti, a saranno anche tutti i condannati in espiazione di pene inflitte «per delitti diversi da quelli ivi indicati, in relazione ai quali il giudice della cognizione o dell’esecuzione ha accertato che sono stati commessi per eseguire od occultare uno dei reati di cui al medesimo primo periodo ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati».

La disciplina, in forza di una norma transitoria che si analizzerà in seguito, opererà in relazione ai reati commessi dopo il 1° novembre 2022.

Rispetto al disegno di legge approvato alla Camera il 31 marzo 2022 sparisce il riferimento all’esecuzione di pene concorrenti, ma rimane saldo il riferimento al giudice di cognizione (al quale si aggiunge quello dell’esecuzione) nell’accertamento del nesso teleologico.

In concreto la nuova disposizione allarga il perimetro dell’ostatività, consentendo di riconoscerla anche in capo a chi abbia commesso un reato che il giudice di cognizione, anche in funzione di giudice dell’esecuzione, abbia riconosciuto aggravato ai sensi dell’art. 61n. 2, cod. pen. o collegato ai sensi dell’art. 371 cod. proc. pen., indipendentemente dal fatto che tale pena sia finita in un cumulo riguardante anche i reati elencati nel comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit., che tale cumulo possa essere sciolto con accertamento dell’avvenuta espiazione di questi ultimi reati o che un cumulo vero e proprio ci sia.

La disposizione, contrastante con quanto da tempo precisato dalla giurisprudenza costituzionale in materia di scioglimento virtuale dei provvedimenti di esecuzione di pene concorrenti, pone seri problemi in relazione agli elementi che i condannati per reati ostativi, come si vedrà, sono tenuti ad allegare o provare per essere ammessi ai benefici penitenziari.

Un conto, infatti, è chiedere di allegare elementi tesi a escludere l’attualità di collegamenti e l’assenza di un pericolo di ripristino dei medesimi a chi è intraneo a un’associazione, un altro conto è chiedere tale sforzo probatorio a chi, nonostante il riconoscimento della detta aggravante, può essere rimasto del tutto estraneo anche ai margini esterni del sodalizio ed essere stato coinvolto nei fatti di reato del tutto occasionalmente.

Si tratta di questione, quella del profilo criminale del condannato e della sua posizione nei confronti dell’associazione, che è già stata posta da autorevole dottrina con riferimento al concorrente esterno e al responsabile di reati commessi con metodo mafioso o al fine di agevolare l’associazione mafiosa [5] e che, a maggiore ragione, si pone nell’evenienza del responsabile di delitti aggravati dall’art. 61 n. 2. cod. pen.

Non vi è dubbio che gli effetti negativi di questa parte della novella si riverbereranno sugli ultimi anelli della catena criminale, sui delinquenti di piccolo cabotaggio condannati a pene temporanee e non certo all’ergastolo.

Pare indubitabile, dunque, che il decreto-legge, invece di riportare il contenitore del 4-bis alla sua ratio originaria di strumento finalizzato al contrasto dei più gravi delitti di criminalità organizzata e restringere il catalogo dei reati in esso contenuti, vada ostinatamente in direzione contraria, aumentando ulteriormente il raggio delle ostatività.

La nuova configurazione dell’art. 4-bis

La lettera a) n. 2 del medesimo art. 1 del decreto in commento riconfigura completamente l’art. 4-bis e sostituisce il comma 1-bis con tre nuovi commi (1-bis 1, 1-bis 2 e 1-bis 3), i quali contengono il fulcro della novella e individuano i presupposti per essere ammessi a tutti i benefici penitenziari esterni – dal permesso premio alla liberazione condizionale – in assenza di collaborazione.

Per superare la presunzione di pericolosità correlata alla mancata collaborazione, non più assoluta, i richiedenti misure alternative dovranno dimostrare di avere adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, ovvero l’assoluta impossibilità di tale adempimento, e allegare elementi specifici che consentano di escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi. Non basta: l’onere di allegazione dovrà essere parametrato alle circostanze personali e ambientali, alle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, alla revisione critica della condotta criminosa e a ogni altra informazione disponibile. Gli elementi specifici da allegare, inoltre, dovranno essere diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’associazione di eventuale appartenenza.

Il complesso disposto normativo, con riferimento all’onere di allegazione di elementi atti a escludere l’attualità di collegamenti e il pericolo di un loro ripristino, si colloca sulla scia di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 253 del 2019 in tema di permessi premio per i condannati a reati ostativi.

Il tessuto della norma, tuttavia, è a tal punto carico di aggettivi, frasi, concetti elastici (ad esempio, il «contesto nel quale il reato è stato commesso» o i «collegamenti indiretti»), privi di riferimenti a una materialità dimostrabile, da far sorgere il legittimo sospetto che il legislatore iperfasico (Franco Cordero docet) abbia inteso sostituire l’ergastolo ostativo con una corsa a ostacoli difficilmente percorribile sino al traguardo.

Insomma, che si sia passati dalla presunzione assoluta di pericolosità sociale alla prova impossibile di non pericolosità. Ai presupposti anzi detti, del resto, deve aggiungersi ciò che si dirà a proposito della soglia edittale di pena che il non collaborante deve espiare per accedere alla liberazione condizionale: trenta anni in luogo degli attuali ventisei.

Una valutazione meno precipitosa, tuttavia, consente di non perdere la speranza, nel vero senso di right to hope, di diritto a sperare in quella fine della pena al quale ambisce il condannato ormai rieducato: quanto più le norme sono formulate in maniera generica, tanto più spetterà all’interprete riempirle di concreto significato. Inutile nascondersi l’ennesimo vizio di scarsa tipicità delle norme, ma almeno qui non siamo nel campo di nuove incriminazioni.

Vi sono consistenti orientamenti della magistratura di sorveglianza, fatto proprio anche dalla giurisprudenza di legittimità, che hanno già scrutinato il concetto di rieducazione con riferimento al condannato, anche a pena perpetua, per reati di criminalità organizzata (o altri reati ostativi).

Si tratta, in particolar modo, di tutta quell’elaborazione inerente alla collaborazione impossibile o inesigibile e, soprattutto, relativa all’ammissione ai permessi premio dei detenuti non collaboranti a seguito della già citata sentenza della Corte costituzionale 253 del 2019. I magistrati di sorveglianza hanno messo a punto metodi di indagine e ragionamenti probatori che hanno permesso, sul versante interno al carcere, una approfondita stima della revisione critica del reato e del trattamento penitenziario (calibrata sul ruolo rivestito all’interno dell’associazione) e, con riferimento al profilo extramurario, una accurata stima della perdurante operatività del sodalizio criminoso, delle nuove sopravvenienze investigative o processuali, dell’effettivo stato di immunità del contesto di reinserimento, del tenore di vita e reddituale dei familiari.

Il bagaglio interpretativo accumulatosi in questi anni ha dato luogo a un numero ristrettissimo di ammissioni ai permessi premio: da un lato, le prognosi positive sono state poche, dall’altro non sono state smentite dalla sperimentazione successiva. Il filtro ha funzionato, contemperando finalità rieducative ed esigenze di sicurezza collettiva; sempre pretendendo dal detenuto istante il distacco definitivo dal sodalizio criminoso.

È auspicabile, dunque, che quel sapere ermeneutico plasmi e dia concretezza a norme che, altrimenti, rischiano di trasformare l’abolizione dell’ergastolo ostativo in una chimera.

Reati associativi e reati non associativi

Il decreto, nel delineare i presupposti alternativi alla collaborazione, distingue tra reati associativi e reati non associativi (in particolare quelli contro la pubblica amministrazione). Per questi ultimi, stante la frequente assenza di un sodalizio criminoso, il peculiare meccanismo probatorio imporrà di allegare, oltre all’adempimento delle obbligazioni civili, elementi specifici idonei ad attestare l’assenza di attualità di collegamenti con il contesto nel quale il reato è stato commesso. Nessun riferimento all’ambito associativo, chiaramente, e nessun riferimento all’onere di allegazione di elementi atti a dimostrare l’inesistenza di un pericolo di ripristino dei collegamenti.

Rimane configurato, comunque, un onere di allegazione piuttosto arduo, soprattutto se confrontato con la casistica spesso unipersonale di molti reati (si pensi al peculato e alla concussione). Definire «il contesto» – termine che evoca sullo sfondo lo scenario della costruzione giurisprudenziale della concussione ambientale -, dargli un contorno definito sarà il principale compito degli interpreti.

Lo svilimento della gradualità

Come appare evidente, la novella richiede ai detenuti non collaboranti, al fine di dimostrare la cessata pericolosità sociale correlata al distacco dal clan, di rispettare il medesimo standard probatorio indipendentemente dalla misura richiesta. Scaturito da un pronuncia della Corte relativa all’ergastolo ostativo e alla liberazione condizionale, l’intervento legislativo ha previsto una disciplina uniforme sia nel caso in cui il condannato debba iniziare la sperimentazione all’esterno, con la richiesta di permesso premio, sia nel caso in cui il medesimo debba dimostrare il ravvedimento al fine di ottenere la misura finale della liberazione condizionale.

Suona incongruente questa uniformità. L’assottigliamento delle differenze, in realtà, emerge con maggior problematicità in caso di espiazione di pene temporanee, posto che, a fronte dell’impegno processuale richiesto e dei conseguenti tempi lunghi dell’istruttoria, il condannato preferirà orientarsi, a seconda del tempo della propria pena, verso misure finali anziché sulle tappe intermedie dei permessi.

A cascata, questa previsione che schiaccia tutto verso l’alto e delinea uguali presupposti per dimostrare la cessata pericolosità sociale in relazione a misure diverse (si pensi all’adempimento delle obbligazioni civili, sinora richiesto inderogabilmente soltanto per la misura finale della liberazione condizionale), rischia di svilire il principio di gradualità della sperimentazione all’esterno e di impedire gli effetti benefici di tale principio sui giudizi prognostici relativi alla definitiva fuoriuscita dal circuito penitenziario.

Procedure

La novella (art. 1, lett. a, n. 3) introduce anche una disciplina dettagliata del procedimento per la concessione dei benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti, specificando gli adempimenti istruttori dell’organo decidente (come si vedrà, non sempre il magistrato di sorveglianza).

In particolare il giudice dovrà chiedere il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di condanna di primo grado o, se si tratta, di condanna per i delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Si tratta di norma che, anche in questo caso, ricalca alcuni spunti della sentenza 253 del 2019 e amplifica il contenuto delle disposizioni della normativa emergenziale (decreto-legge 28/2020) in materia di ammissione ai permessi di necessità e alla detenzione domiciliare in surroga durante la pandemia da Sars-CoV-2.

Il giudice, inoltre, dovrà acquisire informazioni dalla direzione dove l’istante è detenuto e disporre nei confronti del medesimo, degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate, accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali.

È altresì previsto che pareri e informazioni pervengano nel termine di sessanta giorni, prorogabili di ulteriori trenta giorni in caso di complessità degli accertamenti. Decorso inutilmente tale termine il giudice decide.

Qualora pareri e informazioni pervengano, viceversa, potrebbe capitare che dal compendio istruttorio così acquisito emergano indizi dell’attuale sussistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero ancora del pericolo del loro ripristino. In questo caso, quello che era un mero onere di allegazione si trasforma per il condannato istante in un onere di «fornire, entro un congruo termine, elementi di prova contraria».

È un punctum pruriens della riforma, instillato dalla pronuncia 253/2019 della Corte costituzionale, che deve fare i conti con la limitata facoltà di accesso alla prova da parte dei ristretti. Il notevole apparato istruttorio richiesto dalla novella – al quale corrisponde un preciso onere motivazionale dell’organo decidente -, unito alla previsione di prova contraria a carico del detenuto, appare anche in questo caso eccessivamente rigido, articolato e farraginoso.

Va detto tuttavia che spetterà alla magistratura, che voglia far vivere in concreto la fuoriuscita dalla presunzione assoluta di pericolosità, amministrare con coerenza il sistema. In quest’ottica, dunque, sembra necessaria, oltre all’avvio di protocolli istruttori completi (tesi ad acquisire informazioni concrete, aggiornate e non riedizioni di vecchie informazioni di polizia), una valorizzazione degli adempimenti in termini di cooperazione istruttoria d’ufficio, doverosa non solo per pervenire a un risultato attendibile sotto il profilo prognostico, ma anche al fine di sopperire alla debolezza della parte, il detenuto, chiamato ad allegare e provare.

In questo senso, anche l’onere di prova contraria – fatto salvo il massimo del contraddittorio possibile sulle informazioni e pareri acquisiti – potrà essere valutato più sul piano del rischio dei risultati probatori che non su quello dell’attività istruttoria richiesta al detenuto. Su questo punto, la giurisprudenza di legittimità, formatasi a seguito della più volte richiamata pronuncia 253/2019 della Corte costituzionale, ha già chiarito che non c’è spazio per pronunce di inammissibilità laddove l’onere di allegazione, pur esistente, sia rimasto generico: scatta comunque il dovere istruttorio del magistrato di sorveglianza che, nell’esercizio della giurisdizione rieducativa, non può abbandonare a se stesso il condannato.

Naturalmente, con riferimento ai pareri delle procure coinvolte e ai materiali in essi compresi, i giudici dovranno evidenziare particolare cautela nel distinguere ipotesi investigative non riscontrate dai giudici da elementi di conoscenza già passati al vaglio del giudice (e, in questo caso, previa analisi dell’intensità e definitività del vaglio).

Competenze

La disciplina procedimentale, come anticipato, è completata da una modifica relativa alla competenza a decidere sui permessi premio e sull’ammissione al lavoro all’esterno provenienti esclusivamente dai detenuti condannati per delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, eversione o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare le associazioni in esso previste.

Cambiando quanto stabilito dall’art. 30-ter e 21 ord. penit., il nuovo dispositivo normativo (art. 1 n. 6, lett. b e c) stabilisce che in tali casi a decidere sia non più il magistrato di sorveglianza, ma il tribunale di sorveglianza. Chiara l’intenzione di sostituire alla decisione monocratica la maggior ponderatezza della decisione del Tribunale di Sorveglianza.

Si tratta di una scelta che, nel corrispondere a quella preferenza per il maggior peso della decisione collegiale, non pare confrontarsi con il fatto che, in tal modo, si sottrae un grado di giudizio al condannato, vale a dire quello del reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza della decisione del magistrato di sorveglianza. Grado, peraltro, utilmente sfruttabile dal pubblico ministero in caso di decisione monocratica favorevole al detenuto, non esecutiva in pendenza di reclamo.

Deve preoccupare, in questo caso, la circostanza che la competenza collegiale non sia limitata soltanto alla concessione del primo permesso premio o al provvedimento di autorizzazione all’ammissione al lavoro – vere e proprie decisioni angolari -, ma si estenda a ogni successiva concessione di permessi premio e a ogni modifica del programma del lavoro all’esterno. Si tratta di decisioni che, avendo il detenuto ormai assunto lo status meno pericoloso di permessante e ammesso al lavoro esterno ed essendosi sperimentato all’esterno, il magistrato di sorveglianza assumeva con frequenza quasi quotidiana, al fine di modellare l’esecuzione della pena al mutamento delle esigenze del condannato, dei suoi familiari, del datore di lavoro, dei luoghi capaci di ospitarlo.

Caricare di queste incombenze sempre l’organo collegiale significa rallentare questa doverosa attività di modellamento, farla adattare alle scansioni di un organo sovraccarico; togliere, infine, a questo organo tempo e spazio per decidere le più impegnative domande relative alla concessione delle misure alternative.

Va aggiunto che alle udienze del tribunale – sia finalizzate alla concessione dei permessi premio e del lavoro all’esterno sia volte all’ammissione a tutte le misure alternative –, nel caso in cui vengano in gioco condanne per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., le funzioni di pubblico ministero potranno essere svolte dal pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado. Si crea così un parallelismo tra l’adempimento istruttorio dei pareri e la possibilità di coltivare questi ultimi direttamente in udienza.

La norma – prima facie sospettabile di sfiducia nei confronti delle Procure generali e dei meccanismi di collegamento e transito informativo tra organi del pubblico ministero – porrà problemi organizzativi e di calendario delle udienze, da risolvere attraverso il metodo della massima collaborazione legittimamente esigibile.

Da ventisei a trenta

È stato fugacemente accennato che la novella, oltre a tutti i presupposti sostanziali e i meccanismi procedimentali, impone agli ergastolani non collaboranti una nuova soglia di pena per accedere alla liberazione condizionale: non più i ventisei anni di pena richiesti dall’art. 176 cod. pen. a seguito della modifica introdotta con la legge Gozzini (l. 663/1986), ma trenta anni (due terzi della pena in caso di condanna a pena temporanea).

La pena, inoltre, si potrà estinguere solo decorsi dieci anni dal provvedimento di liberazione condizionale e di applicazione di una libertà vigilata; quest’ultima, appunto, durerà per un decennio e comporterà sempre il divieto di incontrare o mantenere contatti con condannati per reati di grave allarme sociale (ancora una volta quelli di cui all’art. 51 cod. proc. pen.) e con persone sottoposte in determinati casi a misure di prevenzione personali o patrimoniali.

Anche in questo caso il sospetto di una sterilizzazione della pronuncia della Corte sull’ergastolo ostativo è dietro l’angolo, soprattutto a fronte di una giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che è propensa a riconoscere tendenzialmente nel termine di venticinque anni dall’inizio dell’espiazione il momento in cui rivalutare la pretesa punitiva dello Stato e vagliare le effettive possibilità di rilascio [6].

Si deve rilevare, inoltre, anticipando quanto si dirà a proposito delle norme transitorie, che la nuova soglia edittale si applicherà immediatamente a tutti i condannati, anche per reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto-legge.

La ratio legis risponde al monito della Corte costituzionale di tracciare una differenziazione, da un punto di vista di pena espiata, tra chi accede alla liberazione condizionale per aver collaborato e chi vi accede attraverso i presupposti alternativi iscritti nel nuovo decreto. Una tale differenziazione è già prevista con riferimento agli altri benefici – in tema di permessi premio, ad esempio, l’ergastolano collaborante accede indipendentemente dalla soglia di pena espiata, mentre il non collaborante deve attendere almeno dieci anni –, ma non è sancita in riferimento alla misura finale della liberazione condizionale, dove il termine di ventisei anni è valido per la generalità dei condannati.

Al riguardo, tuttavia, va ricordato che con un arresto altrettanto fondamentale – la pronuncia 2020, n. 32 – la Corte costituzionale ha ripensato il tradizionale orientamento secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena e ha affermato che, anche a livello di ordinamento penitenziario, quando le disposizioni abbiamo a che fare con modifiche dell’alternativa dentro/fuori e con consistenti interventi sulla qualità e quantità della pena, si applicano i principi di cui all’art. 2 cod. pen.

La nuova disposizione, sottratta a ogni disciplina transitoria che ne disponga l’applicazione ai soli condannati per reati commessi dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, entrerà in tensione con i principi della sentenza appena menzionata?

Da un lato si può affermare che la novella, pur aumentando la soglia di pena da espiare, offre al detenuto non collaborante una possibilità che non era prevista dalla disposizione in vigore al momento della commissione del fatto: fruire comunque della liberazione condizionale. Non potendosi operare un collage tra gli aspetti più favorevoli della norma sostituita (la soglia edittale a ventisei anni) e quelli più favorevoli della nuova disposizione (la possibilità di ottenere la liberazione condizionale anche in assenza di collaborazione), pena il rischio di creare una nuova norma al banco del giudice, una frizione con i principi della sentenza 32/2020 e dell’art. 25 Cost e 2 cod. pen. sembra esclusa.

Tuttavia, non è da trascurare la valutazione dei singoli casi concreti: in relazione ad essi, e in particolare allo scrutinio delle ragioni dedotte a fondamento della mancata collaborazione, non può obliterarsi a priori la necessità di una applicazione irretroattiva della nuova norma.

Del resto, può ritenersi che in riferimento all’accesso alla liberazione condizionale una differenziazione tra detenuti collaboranti e non collaboranti per reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto operi con riferimento alle stringenti forche caudine sostanziali e procedurali poste davanti ai secondi, ma non debba poi trasformarsi anche in una consistente soglia di pena in più da espiare. All’esito della valutazione del tribunale, infatti, entrambe le categorie di condannati dovranno essere ritenute ravvedute e non socialmente pericolose.

Silente per scelta e silente suo malgrado: fine di una distinzione. Norme transitorie

L’argomento appena trattato conduce a occuparsi delle norme transitorie e del correlato problema della abrogazione degli istituti della collaborazione impossibile e inesigibile.

Come detto, la norma che allarga il perimetro dell’ostatività ai reati aggravati dall’art. 61 n. 2 cod. pen. si applicherà soltanto ai reati commessi dopo l’entrata in vigore del decreto in commento (1° novembre 2022), mentre, per coloro che abbiano commesso i reati di cui al comma 1 dell’art. 4-bis prima di tale soglia temporale, varrà l’ultrattività della disposizione che consente di fruire della liberazione condizionale (con soglia di pena a ventisei anni) e di misure alternative a condizione di dimostrare l’impossibilità e/o inesigibilità della collaborazione e la sussistenza di elementi idonei a escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Tale possibilità, per chi commette un reato ostativo a decorrere dal 1° novembre 2022, scomparirà in ragione dell’abrogazione della vecchia formulazione dell’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit.

La norma transitoria sembra escludere dal perimetro dell’ultrattività l’utilità della collaborazione impossibile e quella inesigibile ai fini della concessione dei permessi premio e del lavoro all’esterno. La disposizione (art. 3), infatti, fa riferimento alla persistente validità dei meccanismi surrogatori in relazione soltanto possibilità di ottenere le misure alternative di cui al capo VI del titolo I dell’ordinamento penitenziario e non tutti i benefici di cui al comma 1 dell’art. 4-bis.

Rimane, dunque, salvo non ritenere la disposizione il portato di un mero errore di coordinazione, il problema di una collaborazione impossibile e inesigibile ancora buona per ottenere le misure finale, ma da subito inutile per conseguire i permessi premio e l’affidamento al lavoro all’esterno.

Si tratta di contraddizione alla quale andrà posto rimedio in sede di conversione, al fine di salvaguardare, se non il principio di irretroattività (escluso dalla sentenza 32/2020 con riferimento ai permessi premio e il lavoro all’esterno) un principio di ragionevolezza tutelato dall’art. 3 della Costituzione. Difficile pensare di istruire le domande dei permessi premio dei collaboratori impossibili con le nuove regole del decreto e le domande di misure alternative con i meno gravosi adempimenti richiesti dall’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit. Di sicuro, per chi già fruisce di permessi e lavoro all’esterno, si porrà un problema di tutela dei progressi trattamentali conseguiti.

L’abrogazione del meccanismo della collaborazione impossibile e inesigibile pare entrare in conflitto con quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale nella recente pronuncia 25 gennaio 2022, n. 20. Con questa decisione la Consulta, tornando sull’intervento manipolativo effettuato in materia di permessi premio con la precedente sentenza 253 del 2019, ha escluso l’abrogazione tacita dei meccanismi della collaborazione impossibile, salvaguardano una differenza di sostanza criminologica e penologica tra chi rimane “silente per scelta”, vale a dire chi oggettivamente può ma soggettivamente non vuole collaborare, e il “silente suo malgrado”, ossia chi soggettivamente vorrebbe, ma oggettivamente non può collaborare.

A tale distinzione – ha aggiunto la Corte – è logico che corrispondano standard probatori diversi e differenti procedure volte ad accertarli. Per i reati commessi a decorrere dal 1° novembre 2022, viceversa, le opzioni in campo saranno due: o si collabora o non si collabora, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di presupposti sostanziali e processuali per l’ammissione alle misure. Lo scandaglio dell’atteggiamento soggettivo troverà spazio soltanto nella valutazione delle ragioni della mancata collaborazione, valutazione a cui parametrare l’onere di allegazione.

Un’indebita sovrapposizione: 4-bis e 41-bis

Un’ultima riflessione riguarda la disciplina inerente al divieto di concessione di benefici penitenziari ai detenuti sottoposti al regime 41-bis ord. penit. Come noto, un dibattito pubblico confuso – sostenuto anche da fonti qualificate – ha alimentato la convinzione, contraria a verità, che gli ergastolani ostativi fossero da identificarsi soltanto con i boss mafiosi detenuti in regime qualificato. In altri termini, si è creata una sovrapposizione indebita tra 4-bis e 41-bis ord. penit.

Da tale arbitraria mescolanza è scaturito l’inserimento nel decreto in oggetto di una disposizione che, allacciandosi a un passaggio dell’ordinanza 97 del 2021 della Corte, esclude i condannati 41-bis finanche dalla possibilità di chiedere un permesso o una misura alternativa.

L’opzione normativa pare eccessivamente categorica e in contrasto con differenti approdi della giurisprudenza costituzionale, la quale ha sempre ritenuto che il regime comportasse limitazioni intramurali, ma non escludesse ex se la possibilità di chiedere benefici extramurali (corte cost 349/1993).

Ora, va considerato che è fin troppo ovvio che la sottoposizione a regime differenziato scaturisca direttamente dalla permanenza di attualità di collegamenti con l’associazione criminosa di appartenenza e dalla necessità di impedire tali collegamenti; a normativa vigente, pertanto, era di fatto impossibile concedere un beneficio extramurale a un detenuto soggetto al regime 41-bis.

Diverso, tuttavia, è fare scaturire da questo principio una pronuncia di inammissibilità in limine dell’istanza di beneficio del detenuto soggetto al regime 41-bis, che, peraltro, può benissimo essere condannato a una pena temporanea.

***

Note

[1] F. Muñoz Conde, La relazione conflittuale tra politica criminale e diritto penale, reperibile on line in criminaljusticenetwork.eu, 6 dicembre 2019.

[2] Per avere contezza delle diverse e opposte valutazioni sul medesimo testo si può consultare, a titolo esemplificativo, V. Stella, Ergastolo ostativo, alla Camera passa la linea dura “anti Consulta”, ne Il Dubbio, 1° aprile 2022, nel quale sono riportate tutte le reazioni delle forze politiche che compongono l’arco parlamentare.

[3] È la nota Corte EDU, 13 giugno 2019, Viola c. Italia.

[4] Per il punto sulle recenti vicende dell’ergastolo ostativo, condotto anche da opposte prospettive, si cfr., in questa Rivista, M. Passione, M. Brucale, L’insostenibile pesantezza dell’essere, 22 novembre 2021; L. Tescaroli, La Corte costituzionale e le scelte del legislatore sull’ergastolo ostativo, 1° ottobre 2021; O. Sferlazza, Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 97/2021 sull’ergastolo ostativo: molti dubbi e poche certezze, 24 giugno 2021; F. Gianfilippi, Ergastolo ostativo: incostituzionalità esibita e ritardi del legislatore. Prime note all’ordinanza 97/2021, 27 maggio 2021; H. J. Woodcock, Qualche recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di ergastolo ostativo, 26 maggio 2021; G. Fiandaca, Ergastolo ostativo, carcere duro e dintorni, 9 marzo 2021; D. Galliani, Un dialogo (immaginario) fra un ergastolano ostativo e un giudice costituzionale, 21 ottobre 2020; M. Bortolato, La libertà di interpretazione dei giudici alla prova dell’ergastolo ostativo, 13 novembre 2019.

[5] Sul punto si confronti M. Ruotolo, Riflessioni sul possibile “seguito” dell’ord. n. 97 del 2021 della Corte costituzionale, in Sistema Penale, 28 febbraio 2022.

[6] Si veda da ultimo, Corte EDU, Sez. IV, 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. c. Ungheria e il commento di P. Bernardoni, Ancora in tema di ergastolo ostativo e art. 3 CEDU: la Corte di Strasburgo pone un limite al margine di apprezzamento degli Stati?, in Diritto Penale Contemporaneo, 28 novembre 2016.

* Giudice del Tribunale di Nuoro

Fonte: Questione Giustizia

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Ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione ma occorre un intervento legislativo. Un anno di tempo al Parlamento

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