Via D’Amelio: non è storia, è ancora attualità
Trent’anni dalla strage mafiosa di via D’Amelio e inseguiamo i misteri mentre nulla cambia
L’ottimo e attento Salvo Palazzolo lo ha scritto nel suo ultimo libro, quello dedicato ai famigerati fratelli Graviano, “la cappa di Brancaccio” come li indicava pubblicamente quel sacerdote, don Pino Puglisi, fatto Santo dalla stessa Chiesa che però al processo per il suo delitto evitò di costituirsi parte civile.
Salvo ha sottolineato come in tutti questi anni e ancora prima dall’insanguinato 1992 noi cronisti spesso ci siamo distratti e abbiamo continuato a distrarci mentre Carabinieri, Polizia e magistratura ci consegnavano gli autori delle stragi. Ci siamo per decenni occupati di Riina e Provenzano, dimenticando altri che perché non considerati intanto facevano carriera dentro Cosa nostra: i Graviano, per esempio, ma anche Matteo Messina Denaro, il latitante che viene ricercato da 29 anni, e che intanto lo scorso 26 aprile ha tagliato il traguardo dei suoi 60 anni.
Salvo Palazzolo ha indicato la via da percorrere, quella di non distrarsi mai più. Ecco noi ci proviamo a non distrarci. Non distrarsi significa raccontare senza omissioni tutto quello che vediamo, che ascoltiamo, che leggiamo.
Il depistaggio per esempio. È diventata la notizia del giorno da quando un pool di attenti magistrati arrivati a Caltanissetta alcuni anni addietro guidati dal procuratore Sergio Lari, hanno scoperto il laboratorio dove Polizia e Servizi Segreti avevano creato il mostro del pentito Vincenzo Scarantino, il moderno Frankestein entrato sulla scena delle stragi del 1992.
Ne avevano messo assieme i pezzi prendendoli da un po’ tutte le parti della Palermo di quegli anni, c’era da consegnare subito all’opinione pubblica la reazione di quello Stato che passata la strage di Capaci, eletto il presidente della Repubblica, si era quasi nuovamente appisolato. I politici, i ministri, andavano in tv a parlare di carcere duro, della super procura antimafia, ma di fatto in Parlamento si erano messi a discutere di altro. Mentre la mafia pensava di continuare la sua stagione di vendetta contro chi l’aveva messa al muro con il maxi processo di Palermo, per l’appunto Borsellino dopo Falcone.
Poliziotti che hanno sporcato la loro divisa, tradendo l’obbligo di ricercare la verità, e invece hanno creato la verità di comodo. Ma se ci guardiamo un po’ interno scopriamo che da decenni, da Portella della Ginestra in poi, il nostro Stato è cresciuto con i depistaggi, sono stati pasciuti i mafiosi, sono cresciute le clientele della politica, si sono sporcate con le bugie le tombe di tanti morti ammazzati.
La mafia è maestra nei depistaggi, in gergo mafioso vengono chiamate “tragedie”. Qualcuno fuori dalla mafia ha presto imparato.
Non ci siamo accorti che delitti come quello del magistrato Ciaccio Montalto ha avuto il suo depistaggio, il pm trapanese che sul suo tavolo, quando l’ammazzarono a Valderice il 25 gennaio del 1983, teneva allineati gli assegni che la mafia riciclava nelle banche, i soldi guadagnati con la raffinazione dell’eroina, e invece di guardare a quegli assegni circolò addirittura la notizia che era stato ucciso per una presunta relazione extraconiugale (cosa che trovate scritta nella sentenza di condanna dei boss Riina e Agate e quindi significa che qualcuno indagò su questo versante).
Stessa cosa per Mauro Rostagno, questione di corna disse a tamburo battente il boss Mariano Agate e qualche anno dopo andarono ad arrestare anche la sua compagna, mentre i carabinieri nascondevano i verbali dove Rostagno riferiva delle sue inchieste giornalistiche sulla massoneria segreta.
E l’elenco è lungo, davvero lungo.
A Trapani da qualche tempo è in corso un processo, denominato “Artemisia”, dentro gli affari riservati di un manipolo di politici di Castelvetrano e dintorni, che si sarebbero fatti una loggia massonica segreta tutta per loro. Tra gli imputati spuntano un paio di poliziotti, uno arrestato mentre era in servizio alla Dia. Non c’è il depistaggio ma lo spifferare notizie forse si.
È certo che il più importante dei politici sotto processo, l’ex deputato Giovanni Lo Sciuto, ad un certo punto viene a sapere che due procure, quella di Palermo e quella di Trapani stavano indagando sul suo conto. Lo Sciuto non è uno qualsiasi, di lui circola la foto giovanissimo assieme ad un altrettanto giovane Matteo Messina Denaro. Eppure accade che su questo processo non tutti i cronisti sono adeguatamente attenti, ci si è distratti.
Non distrarsi significa comprendere cos’è la mafia oggi.
Un esempio. Accedendo alla banca dati delle Camere di Commercio possiamo scoprire quante aziende in questi anni hanno chiuso e riaperto con nuovi proprietari. Quanti progetti si sono realizzati o sono in corso per costruire centri commerciali.
A Capaci, per esempio, da oramai quasi 10 anni non si riesce a bocciare un progetto proposto da uomini del cerchio magico di Antonello Montante. Cambiano i sindaci, cambiano le Giunta, ma il progetto è lì a un tiro di schioppo pronto per essere realizzato.
Le aree industriali di mezza Sicilia sono diventate aree commerciali e in qualche caso non hanno nemmeno cambiato le destinazioni d’uso. Per non parlare dei centri scommesse. Ne chiudono uno e se ne aprono altri cinque.
Celebriamo Falcone e Borsellino e però nei Palazzi di Giustizia c’è sempre un ventre molle. Ricordiamo Falcone e Borsellino e intanto oggi come allora dentro i tribunali scorrono guerre sotterranee, a Falcone e Borsellino rimproveravano le inchieste che mettevano in crisi il sistema economico, stessa cosa accade oggi e si utilizza il malaffare che fu del giudice Saguto per sostenere che le confische sono tutto un malaffare, e accade che Tribunali una volta severi su sequestri e confische oggi hanno scelto vie opposte.
Oggi dentro la magistratura c’è chi sostiene e c’è chi pretende, che le nomine per gli incarichi direttivi vanno fatte dal Csm secondo l’anzianità di servizio, e c’è chi applaude a questa scelta scellerata che rischia di vedere messi a capo delle procure chi ha tanta anzianità ma poco o nulla da raccontare sul versante della Giustizia, anzi potrebbe raccontare qualcosa su come si archiviano le indagini o su come far sparire le prove in un processo.
Lo diciamo chiaramente: non ci piace affatto la sentenza del Tar di Roma che ha bocciato la nomina a capo della Procura di Trapani del dottor Gabriele Paci, il pm delle indagini nissene sulle stragi del 1992, sulla strage di Pizzolungo, su Antonello Montante, preferito dal Csm al trapanese Massimo Palmeri, procuratore di Enna.
Non ci piace perché questa decisione, se divenisse generalizzata e la regola, rischierebbe di riportarci indietro a quegli anni ’80, durante i quali qualcuno pensava a manovrare dall’esterno il lavoro di pm e giudici istruttori.
Non distraiamoci, allora se vogliamo davvero ricordare i nostri morti. Non distraiamoci per evitare che in questo nostro Stato i segreti servano a nutrire poteri che con la Democrazia non hanno nulla a che spartire.
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