Garowe – Bosaaso: la strada dei misteri
Quando viene commesso un delitto, raccontano i giornalisti Francesco Cavalli, Alessandro Rocca e Luciano Scalettari, nel libro “Carte false” di Roberto Scardova, la prima cosa che si cercano sono le prove, il movente, il corpo del reato. Nel caso del duplice omicidio Alpi – Hrovatin, le prove sono piuttosto difficili da trovare, perchè sono nascoste bene, non si sa da chi, non si sa bene dove. Ma è così. E anche Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3, uccisa insieme all’operatore Miran Hrovatin il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, lo sapeva. Ilaria le notizie di quel traffico di armi in luogo di rifiuti tossici che coinvolgeva uomini d’affari, politici e faccendieri somali, le aveva avute da tempo, anche grazie alla sua grande conoscenza della Somalia e del mondo arabo. A Bosaaso fra il 14 al 20 marzo, la giornalista del Tg3 si era recata proprio per trovare “prove” e “testimoni” di questo traffico invisibile di rifiuti tossici sotterrati sotto strade e porti. Proprio a Bosaaso, intervistò, fra gli altri, il cosiddetto sultano, Abdullahi Mussa Bogor, per parlare delle navi Shifco, oggetto di un sequestro in quelle settimane e sospettate del traffico di rifiuti nei mari fra Italia e Somalia. Quell’intervista arrivò in Italia con tagli e manomissioni, ancora oggi non si sa ad opera di chi e perchè. A continuare il lavoro di Ilaria, alcuni anni dopo al sua morte, altri colleghi, appassionati d’Africa, del mondo arabo, e interessati a portare avanti quell’inchiesta. Su tutti, Maurizio Torrealta, oggi giornalista di Rainews24 e preziosa fonte di inchiesta sui misteri di questo caso irrisolto. Nel maggio scorso il libro “Carte False” curato da Roberto Scardova, vicecaporedattore e inviato del Tg3, raccoglie alcune preziose testimonianze dei giornalisti, Francesco Cavalli, Alessandro Rocca e Luciano Scalettari, che sono tornati in Somalia, per cercare le prove di un’inchiesta ancora oggi avvolta da coperture e da molti “omissis”, nonchè depistaggi e furti di documenti relativi al duplice delitto Alpi – Hrovatin.
La Garowe – Bosaaso
“460 chilometri d’asfalto costruiti dalla cooperazione italiana, fra il 1987 e il 1991, questa è la Garowe – Bosaaso, la strada dei misteri, in Somalia; 460 chilometri d’ asfalto che iniziano nel nulla per finire nel nulla, ma che sono stati realizzati con i fondi del Fai, Fondo aiuti italiano, messo in piedi e gestito dall’entourage di Bettino Craxi e del Psi italiano. Un’indagine, quella sui rifiuti tossici trasportati illegalmente in Somalia e impastati con cemento e sabbia per farli scomparire, che ha cozzato in questi anni con “l’inaccessibilità di una Somalia in guerra” – dichiarano i giornalisti che hanno provato ad occuparsene dopo la morte di Ilaria Alpi. E’ solo nel 2005 e poi nel 2007 che i tre giornalisti, insieme al consulente dimissionario della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpi, l’onorevole Mauro Bulgarella, si sono potuti recare in Somalia per proseguire questa inchiesta. Farnesina e intelligence, per molti anni, hanno negato il via a questi sopralluoghi. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul Caso Alpi, guidata dall’avvocato Taormina, ne ha screditato, infine, il risultato, bollandolo come “ricostruzione artificiale dei fatti”. Eppure i quattro giornalisti, analizzando documenti e ascoltando testimoni, anche in veste di consulenti della suddetta commissione, di prove ne hanno trovate e non poche. Nessuna da sola è in grado, però, di risolvere i misteri di quel traffico di rifiuti in cambio, si presume, di armi. I giornalisti, giunti a Bosaaso, come raccontano nelle pagine del libro, portano avanti da un lato un’analisi scientifica, con magnetometro e altri strumenti ( i cui dati saranno poi inviati per l’analisi al laboratorio del dottor Marco Marchetti, per l’analisi) e dall’altro quella d’inchiesta attraverso le testimonianze e documenti. I testimoni sono molti: dai somali che hanno lavorato per le ditte incaricate della costruzione della strada, sino ai cittadini che a causa di quei rifiuti si sono ammalati. Però manca la prova principale per accertare l’esistenza di quei rifiuti sotto terra e manca poichè, sotto quella strada, non si può scavare; “per farlo servono mezzi ben diversi da quelli in dotazione – scrivono i giornalisti – ma la missione è servita ad arricchire il numero di testimoni e di siti nei quali viene indacato il seppellimenti di fusti, contenitori, sacchi dal contenuto ignoto”. Rientrati in Italia dopo al seconda missione del 2007, i giornalisti, scoprono che non solo il mondo istituzionale è stato sordo nei confronti della loro inchiesta ma che a nessuno sarà affidato il compito di andare a verificare, con adeguati mezzi, cosa c’è sotto quella “via dei misteri”.
Affari, politica e un’inchiesta che ancora oggi non si deve fare…
E’ il nome di Omar Said Mugne ad emergere con chiarezza anche dall’inchiesta dei giornalisti: Mugne, il direttore generale dell’Enfais (una sorta di controparte somala del Fai); Mugne ingengere italo – somalo titolare della Shifco, la ditta proprietaria di navi sulle quali aveva concentrato la sua attenzione Ilaria Alpi e Mugne, infine, titolare della Edilter, società di uno dei sei consorzi appaltatori dei lavori costruzione della strada Garowe – Bosaaso. Proprio nell’ultima intervista al cosiddetto, sultano di Bosaaso, Abdullahi Mussa Bogor, Ilaria Alpi, rivolge domande specifiche circa il traffico d’armi e rifiuti, fa il nome di Mugne e chiede notizie più dettagliate su dove possano essere sotterrati i rifiuti tossici. Quell’intervista che secondo il sultano – ascoltato poi dalla commissione d’inchiesta – sarebbe durata alcune ore, in Italia arriverà condensata in soli 20 minuti e presentando vistosi tagli. Com ‘è stato possibile che qualcuno manomettesse quel materiale che dalla Somalia era stato imbarcato, con cura, in un aereo diretto a Ciampino? Se lo chiedono i giornalisti che hanno intervistato nuovamente il sultano che ha confermato il contenuto “mancante” dell’intervista. Ilaria Alpi fece domande precise sulla Garowe – Bosaaso, ricorda il sultano, “cui risposi confermando i sospetti della giornalista ma senza dare indicazioni precise di possibili testimoni o della localizzazione dei rifiuti stessi”. “I due giornalisti – scrivono i giornalisti nel libro di Scardova – avrebbe dovuto imbarcarsi su un aereo per Mogadiscio proprio il 16 marzo. Ilaria e Miran invece, persero il volo e partirono solo il 20 marzo. Cosa sia accaduto in quei giorni è un mistero. ” Ilaria e Miran – raccontano i colleghi – trovarono altri elementi sul seppellimento dei rifiuti? non lo sappiamo. Ma se l’intervista al sultano è incompleta, altre immagini potrebbero essere state sottratte. Ad esempio – continuano – quelle di un viaggio a Gardo. “Il girato che conosciamo su questo viaggio – concludono – ci dice soltanto che questa trasferta sembra inutile e immotivata: non c’è nulla nelle immagini che giustifichi la fatica e il rischio che hanno portato i due giornalisti a recarsi in questa località, per cercare altre prove di questo interramento di rifiuti. A Gardo, fra l’altro, ci si poteva andare solo scortati ed era molto rischioso. Il dubbio è lecito – chiosano i giornalisti – “oltre ai pezzi dell’intervista al sultano, cos’altro è stato tolto dal girato di Miran”?. Quest’anno in particolare, 16 anni dopo, un pentito della ‘ndrangheta, Francesco Fonti, che dal 2005 collabora con la giustizia, ha raccontato del ruolo che le mafie avevano nel traffico di rifiuti fra Italia e Somalia, di navi lasciate affondare nei mari, e nelle sue deposizioni, ha messo in correlazione la morte dei due giornalisti a Mogadiscio alle notizie scoperte su questo traffico di rifiuti tossici e armi fra i due Paesi”.
Guarda qui la puntata di Blu notte sul Caso Alpi
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