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Falcone e Borsellino così lontani, così vicini

Rossella Guadagnini il . Giustizia, Interviste e persone, Mafie, Memoria, Politica, Società

Da “la mafia non esiste” alla fine dell’impunità di Cosa nostra con il Maxiprocesso. Dalla delegittimazione dei magistrati alle stragi del 1992, fino alla nuova mafia degli affari.

A 30 anni da Capaci e via D’Amelio, il presidente onorario di Libera ripercorre la storia dell’antimafia.

Chissà cosa avrebbero appuntato nelle proprie carte o nelle loro agende Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dovendo descrivere questo 2022 fitto di ricorrenze. Trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, quaranta dall’uccisione del sindacalista Pio La Torre e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Si contano i decenni e si contano anche i morti: l’elenco dei soli magistrati assassinati è lungo. A ricordarlo con MicroMega è Gian Carlo Caselli, presidente onorario di Libera, che attualmente dirige l’Osservatorio della Coldiretti sulle agromafie. Dopo essere stato giudice istruttore a Torino e aver guidato la Procura della Repubblica di Palermo, è stato Procuratore Generale e Procuratore della Repubblica di Torino.

L’elenco di magistrati assassinati è una lunga scia di sangue.

Comprende Pietro Scaglione, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Alberto Giacomelli, Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Antonino Saetta, Giovani Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino. Tutti uccisi da Cosa Nostra, tutti uccisi in Sicilia. Salvatore Lupo, tra i principali storici di mafia, si è interrogato su quale significato abbiano queste vittime e ne ha desunto che suscita un sentimento di sorpresa il fatto che – in un’Italia senza senso della patria e dello Stato – ci siano funzionari disposti a morire per compiere il loro dovere per questa patria, per questo Stato. A ogni commemorazione prende forma l’idea – di per sé contraddittoria – dei magistrati come rivoluzionari in quanto portatori di legalità. Così essi restituiscono al Paese un po’ di fiducia, in modo che i cittadini possano pronunciare le parole di Piero Calamandrei “lo Stato siamo noi” come qualcosa di realmente sentito.

Lei è arrivato a Palermo subito dopo le stragi del 1992 e ci è rimasto per sette anni. Che esperienza ne ha tratto?

Provo a tracciare una breve storia di Cosa nostra, a partire dalla stagione in cui la mafia ancora non esiste, nel senso che fior di notabili, cardinali, procuratori generali e politici hanno fatto a gara nel negarne l’esistenza. È evidente che, se qualcosa non esiste, nessuno la cerca; e, se qualcuno la cerca lo stesso, difficilmente la trova; e, se la trova, facilmente gli sfuggirà di mano. In effetti questa è la stagione in cui i pochi processi che si fanno si concludono con un’assoluzione per insufficienza di prove.

Del resto se una condotta non è prevista come vietata, e di conseguenza punita in quel libro dei delitti e delle pene che è il codice penale, quella condotta non esiste.

Se noi cerchiamo la mafia nel codice penale oggi ce la troviamo come reato previsto dal 416 bis, che riguarda l’associazione di stampo mafioso. Ma la mafia – quella siciliana come le altre – esiste da circa due secoli, mentre bisogna arrivare al 1982 perché sia effettivamente presente nel codice penale.

Cosa successe per far risvegliare il nostro Stato all’improvviso?

Una strage, quella di via Carini a Palermo, che causò la morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, allora Prefetto antimafia di Palermo, della moglie e del loro autista. Eccidio verificatosi sei mesi dopo l’assassinio di Pio La Torre, l’uomo politico ideatore di una normativa che però, con la sua morte (dovuta probabilmente proprio a quel progetto), venne relegata in un cassetto. E lì sarebbe rimasta al chiuso per sempre se, dopo la scomparsa di dalla Chiesa, non fosse esplosa nel Paese un’ondata di rabbia incontenibile e di indignazione collettiva che costrinse chi era parte delle istituzioni a tirar fuori dal cassetto il disegno di legge La Torre, trasformandolo nella legge Rognoni-La Torre dai nomi del ministro degli Interni dell’epoca e del sindacalista che la creò.

Quasi tutta la legislazione antimafia appare come una sequela di bis, ter, quater…

Una legislazione del giorno dopo. Raramente si interviene per prevenire, quasi sempre invece quando non se ne può più fare a meno, poiché si è verificato un fattaccio che scuote le coscienze. Il 416 bis non è una qualunque norma che con la sua genericità non serve a niente e a nessuno. È un articolo specifico, attinente alla realtà della mafia, uno strumento di intervento concreto che prima non esisteva. Falcone sostenne che senza il 416 bis sperare di fermare la mafia era come “illudersi di poter fermare un carro armato con una cerbottana”.

Quali altri cambiamenti avvennero?

A questa novità se ne aggiunse un’altra: il metodo di lavoro del pool palermitano che, usando con intelligenza lo strumento del 416 bis, riuscì a conseguire un risultato straordinario: segnò la fine dell’impunità di Cosa nostra, grazie al Maxiprocesso iniziato nel 1986 e concluso dalla sentenza 30 gennaio 1992. Creato da Rocco Chinnici, poi sviluppato e perfezionato da Nino Caponnetto, il pool di Falcone e Borsellino promuoveva una nuova organizzazione del lavoro della magistratura, basata su due parametri, rivoluzionari per quel tempo, abituali oggi: la specializzazione e la centralizzazione.
I magistrati che facevano antimafia dovevano occuparsi soltanto di questo, in modo che la loro sensibilità e la loro capacità di approfondire il fenomeno si sviluppassero sempre più. La centralizzazione significava inchieste non più parcellizzate in mille rivoli, ma confluenti – quanto a esiti – in un unico motore di raccolta, una prima rudimentale banca dati. Così da non dover partire ogni volta da zero, ma poter contare su conoscenze già acquisite.

Un metodo che ha pagato?

Da esso proviene quel capolavoro investigativo-giudiziario, che è il Maxiprocesso. Maxi non perché, come è stato detto più volte malignamente, Falcone, Borsellino e altre toghe coinvolte volessero finire sotto i riflettori in quanto ammalati di protagonismo. Ma poiché altrettanto grande era stata l’impunità di cui Cosa nostra (che prima non esisteva) aveva goduto. E difatti segnò la fine del mito dell’invulnerabilità della sua forza. Si dimostra, nel rispetto delle regole, che Falcone aveva ragione quando diceva che la mafia è “una vicenda umana come tutte le altre e che, come ogni altra, ha un inizio, uno sviluppo e può benissimo avere anche una fine”.

Tutto va posto dunque?

A dispetto del Maxiprocesso, successe una cosa che – se non fosse vera – nessuno crederebbe. Quando vado a parlare nelle scuole, mi capita a volte di fare questo discorso: ragazzi, abbiamo visto che la mafia è una brutta cosa; abbiamo visto che Falcone e Borsellino riescono a sconfiggerla (nell’interesse di tutti, considerato che non è un problema esclusivamente siciliano). Secondo voi, a questo punto, cos’è accaduto? C’è sempre un ragazzo che mi guarda con occhi spalancati, come stesse pensando: cosa vuoi che sia successo? Gli avranno dato una mano ad andare avanti! E io dico al ragazzo che ha risposto bene, secondo logica e buon senso, ma che storicamente ha sbagliato.
Perché a Falcone e Borsellino non hanno dato nessuna mano per andare avanti. Anzi, dal punto di vista professionale, li hanno spazzati via. Uno scandalo che molte volte dimentichiamo.

Come sarebbe ‘spazzati via’?

Sommersi da una serie infinita di polemiche: una tempesta di accuse vergognose, ingiuste, diffamatorie, ma efficacissime, che riuscirono a sortire quanto si proponevano. Si comincia con i “professionisti dell’antimafia” dal titolo di un articolo di Sciascia sul Correrie della sera – lo scrittore in seguito corresse il tiro (ndr.) – a significare che Falcone, Borsellino e gli altri erano gente che faceva antimafia per fare carriera, scavalcando coloro che non avevano avuto la fortuna di fare processi antimafia.
Si prosegue con “l’uso spregiudicato dei pentiti” (Falcone, ancora sul Corriere della sera, che portava i cannoli a Buscetta, per sottintendere che cercava un rapporto personale con i pentiti affinché dicessero ciò che voleva lui, non la verità). E poi con l’“uso distorto della giustizia per fini politici di parte”. Non è ancora di moda l’espressione toghe rosse, ma la sostanza era la stessa.
Il pool fu considerato come un centro di potere, tanto che alla fine fu cancellato e con esso quel metodo di lavoro vincente. Il contrasto alla mafia subisce in questo modo “un arretramento di una trentina d’anni”, secondo la valutazione di Paolo Borsellino.

Che ruolo ebbe il Consiglio Superiore della Magistratura?

Dovendo nominare il successore di Caponnetto, il Csm non sceglie il campione dell’antimafia, cioè Giovanni Falcone. Nomina invece un magistrato, Antonino Meli, digiuno di mafia, che rispetto a Falcone aveva il vantaggio di essere una trentina d’anni di carriera più anziano.
Dirà ancora Borsellino, dopo la strage di Capaci, che “Falcone cominciò a morire” proprio quando gli venne negato quello che era un suo diritto – dirigere l’Ufficio Istruzione dopo Caponnetto – quando venne umiliato col preferirgli un magistrato senza titoli antimafia in una situazione che invece ne esigeva al massimo livello.

La vicenda di Falcone non si conclude con l’umiliazione del Csm.

Di mortificazioni ne arrivano altre. Tutte le porte, anche quelle degli uffici giudiziari, si chiudono in faccia a Falcone che alla fine viene di fatto espulso da Palermo. Nessuno lo vuole più. Per il grande (ma solo dopo morto) Falcone non c’è più posto in città.
Deve trovare una sorta di asilo politico-giudiziario a Roma al ministero di via Arenula. Dove (coraggioso e “testa dura” nel senso più alto del termine) persevera nel suo impegno creando l’antimafia moderna, quella che funziona bene ancora oggi.

In che modo operò il promotore della Dia?

Recuperando a livello nazionale quei valori (specializzazione e centralizzazione) che erano stati sperimentati con successo in Sicilia. Crea così la Procura nazionale antimafia, le Procure distrettuali antimafia, la Dia (una specie di Fbi italiana antimafia).
E mette in cantiere una serie di norme, anche il quattro bis, di cui tanto si è parlato in questi giorni a proposito dell’ergastolo ostativo, che ancora adesso sono l’architettura legislativa antimafia e non vanno toccate.
La Cassazione, intanto, conferma in via definitiva le condanne del Maxiprocesso, convalidando il cosiddetto teorema Buscetta. Quindi suffraga tutta la ricostruzione fatta dal pool in ordine alla struttura di Cosa mostra e alle responsabilità sia associative sia individuali.

Le vicende del Maxiprocesso sono complesse e ramificate.

Il grande merito del risultato finale va attribuito al presidente della Corte di Cassazione di allora, Brancaccio, che – in base a un monitoraggio condotto da Falcone sulle sentenze della Cassazione – decise di assegnare i processi di mafia non più sempre allo stesso presidente Corrado Carnevale (definito in maniera irriverente da alcuni cronisti “l’ammazzasentenze”), ma di fare una rotazione. Per cui il Maxi venne assegnato a un magistrato diverso di nome Valente.
Nomen omen? Una coincidenza? Sta di fatto che, contro tutte le aspettative, in particolare di Cosa nostra, per la prima volta nella storia la Cassazione conferma in via definitiva pesanti condanne per un ampio gruppo di mafiosi di ogni ordine e grado.

Da un lato c’è quindi Falcone che sta creando l’antimafia moderna, dall’altro la Cassazione che frustra le aspettative di Cosa nostra, malgrado quest’ultima avesse cercato di condizionare il processo.

Un ‘uno-due’ micidiale per la Cupola, assolutamente intollerabile. Nella logica criminale significa una cosa sola: strage. Nel ‘92 esplodono le bombe di Capaci e via d’Amelio, vendetta postuma della criminalità organizzata nei confronti dei suoi peggiori nemici Falcone e Borsellino e al contempo tentativo di seppellire nel sangue il loro metodo di lavoro vincente.

Con le stragi, dice Caponnetto quando torna in Sicilia per il funerale di Borsellino, sembrava ormai “tutto finito”.

Sì, sembrò non ci fosse più niente da fare. La nostra democrazia stava per essere travolta dalla potenza criminale mafiosa che intendeva trasformare l’Italia in un narco Stato, uno Stato-mafia controllato dai corleonesi stragisti. Invece no, si fa squadra tutti insieme: la politica (che vive un momento di unità), le forze dell’ordine, la magistratura, la società civile che protesta (con le lenzuola bianche stese sui balconi di Palermo). L’unione degli sforzi comuni si dimostra efficace: la mafia non passa. Lo Stato rialza la testa e inverte la tendenza.

La risposta investigativo-giudiziaria del dopo stragi è imponente.

Basta una cifra riferita alla Procura di Palermo che allora dirigevo. Non mi piace fare il notaio degli ergastoli, ma devo rammentare che quelli chiesti e ottenuti dalla Procura di Palermo sono stati 650, un numero che parla da solo.
Oltre all’ala militare di Cosa Nostra, oltre ai mafiosi doc, sono stati fatti processi contro la zona grigia, contro le relazioni esterne, spina dorsale del potere mafioso.
Non saremmo ancora qui a parlarne, se i mafiosi fossero soltanto gangster. Se lo fossero non appesterebbero il nostro Paese da oltre due secoli. Tutte le bande di criminali al mondo sono sparite – se non altro per motivi generazionali – dopo 40/50 anni.

Perché questo non accade coi mafiosi?

Oltre ad essere delinquenti, godono di coperture, complicità, collusioni in alto loco, proprio da parte della zona grigia grazie alle ‘relazioni esterne’. I processi si devono fare anche ai protagonisti di quest’area, ai mandanti, le “menti raffinatissime” ricordate da Falcone, se ci sono i presupposti in fatto e in diritto, altrimenti la lotta alla mafia si fa a metà.
Vengono istruiti i processi ai politici, per citare i due più importanti, ad Andreotti e a Dell’Utri. Ma ecco anche – a causa di questi processi – insorgere una reazione simile a quella che aveva colpito il pool di Falcone e Borsellino. Stesse accuse, stesse calunnie, stessi attacchi ingiusti. Con una differenza: il pool fu spazzato via, noi no.

Tuttavia il grande risultato raggiunto dalla Procura di Palermo nel dopo stragi sfugge.

Non siamo stati spazzati via, ma la strada si è fatta sempre più in salita. Per usare un’immagine sportiva, stavamo per battere un facile rigore, ma qualcuno ci ha portato via il pallone…
Effetto della delegittimazione organizzata contro di noi come ai tempi di Falcone. Cosa nostra subisce ancora colpi durissimi, ma è un’organizzazione criminale con un’intelligenza che funziona. Non resta passiva ad aspettare altre sorprese. Si inabissa, entrando in stand by, diventa mafia degli affari.

Non uccidono, non fanno più stragi neppure d’estate…

Cercano di non farsi notare per non scatenare altre reazioni dello Stato. Nel frattempo altre mafie vengono alla ribalta e si affermano: la ‘ndrangheta attualmente in espansione in Italia e in Europa; la camorra fortemente presente nel napoletano; le mafie pugliesi, quella foggiana in particolare. Ma, con l’eccezione di queste ultime due, si ammazza sempre meno. Le mafie tendono a non esasperare la situazione, nel proprio interesse, per condurre i loro loschi affari senza svegliare il can che dorme, lo Stato.

Sta tornando di nuovo a galla la tendenza a considerare la mafia una questione di ordine pubblico, non un sistema criminale.

Se scorre il sangue, c’è un problema. Ma se non uccidono non esistono. Perciò le mafie finiscono agli ultimi posti dell’agenda politica. Non nella considerazione delle forze dell’ordine e della magistratura: basta sfogliare i quotidiani per questo. Giorno dopo giorno si dà notizia di operazioni efficacissime sul versante del contrasto alle organizzazioni mafiose.
Tuttavia le difficoltà per la magistratura sono decisamente superiori a quelle del passato, in quanto la mafia cerca di non farsi notare, di mimetizzarsi ed è quindi più difficile scovarla e colpirla. Non c’è più bianco o nero, domina il colore grigio, una nebbia in cui è più difficile muoversi. Una sentenza della Corte di Cassazione (n.15412/15 del 23.2/14.4 2015 -processo “Minotauro” sulla ‘ndrangheta in Piemonte) ha stabilito questo principio: il metodo mafioso può essere adoperato anche in forma “silente”, cioè senza ricorrere a situazioni ecla­tanti, piuttosto “avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi aspetti ancor più temibile – che deriva dal non detto, dall’accennato, dall’evocazione di una po­tenza criminale cui si ritenga vano resistere”, quando “la capacità di intimidazione della ‘casa madre’ è ben presente nella memoria collettiva”.

La Cassazione ha colto un’importante evoluzione del fenomeno mafioso.

Pur non praticando in modo palese forme di violenza, esso continua a esercitare quella “gestione” o quel “controllo di attività economiche, di concessioni, di auto­rizzazioni, appalti e servizi pubblici” che sono l’essen­za dell’articolo 416 bis.
Fa parte del codice genetico della criminalità mafiosa l’abilità camaleontica di adattarsi alle circostanze di tempo e luogo in cui si trova a operare. Una caratteristica che riguarda la mafia ovunque nel mondo (guai a circoscriverla alla sola Italia), consentendole di esse­re costantemente al passo coi tempi. Tanto da potere utiliz­zare le nuove opportunità che l’evoluzione quotidiana del sistema tecnologico offre. Le mafie moderne compiono operazioni di “arruolamento”, lautamente remunerato, di operatori sul­le diverse piazze finanziarie del mondo.
Si tratta di individui colti, preparati, plurilingue, con importanti relazioni internazionali al servizio del business mafioso che, proprio grazie a loro, assume e consolida un’apparenza per­bene, transnazionale e globale. In tal modo la mafia trova maggiore accesso ai salotti buoni, dove si fanno gli affari migliori.

E la magistratura come si comporta, specie quella parte di essa incolpata di voler scrivere, se non addirittura riscrivere, la storia attraverso i processi?

A mio avviso ha saputo anch’essa rinnovarsi e trovare risposte adeguate alle nuove mafie. Credo che il nostro Paese debba riconoscenza e rispetto a coloro che, ancora adesso, si occupano di questi problemi da posizioni ‘di frontiera’ mantenute con efficienza, determinazione e coraggio. Spesso a prezzo di sacrifici personali e privati non facili da compiere.

Fonte: Micromega

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