Giorgio Ambrosoli, un “rivoluzionario” portatore di legalità
Giorgio Ambrosoli, servitore civile.
È forse così, con questa espressione di sapore un po’ anglosassone, che a Giorgio Ambrosoli piacerebbe essere ricordato. Specialmente in un’occasione come questa, nella quale convergono tanti cittadini e in particolare tante e tanti giovani desiderosi di rendere omaggio, appunto, al servizio civile prestato da Ambrosoli con determinazione e sino al sacrificio più estremo, nella consapevolezza dei rischi che stava correndo.
Splendido esempio di altissimo senso del dovere – così è motivata la medaglia d’oro al valor civile, conferitagli nel 1999 dal Presidente della Repubblica.
Quando nel 1974 viene disposta la liquidazione della Banca di Michele Sindona, e ne viene dichiarato il dissesto, Giorgio Ambrosoli ne viene nominato commissario liquidatore. Il suo compito è quello di amministrare il patrimonio della banca, di procedere alla liquidazione dell’attivo, ma anche, possibilmente, quello di rintracciare attività occultate dal banchiere dissestato, che nella specie è Michele Sindona.
Ben presto Ambrosoli inizia a subire attacchi minacciosi provenienti da Sindona e dagli ambienti mafiosi di Cosa Nostra a lui vicini, sia per il rigore impiegato nella sua indagine (che in effetti gli consente anche di rintracciare attività occultate), sia per la sua decisa opposizione ai cosiddetti «piani di salvataggio» con i quali il banchiere e il suo entourage (dove spicca anche il presedente del Consiglio di allora, Giulio Andreotti) pretendono di far gravare i costi della voragine finanziaria sulle spalle della collettività. Questi piani di salvataggio truffaldini sono fermamente osteggiati non solo da Ambrosoli, ma anche dai vertici della Banca d’Italia: il governatore Baffi e il capo della vigilanza Sarcinelli.
A questo punto Sindona chiede ai suoi amici mafiosi di attuare un deciso salto di qualità negli attacchi contro Ambrosoli, ed ecco che il commissario liquidatore riceve ben otto telefonate anonime minatorie, a cavallo tra il 78 e il 79, da parte di un uomo che parla con accento siciliano. Verremo poi a sapere che si tratta di Giacomo Vitale, cognato del boss mafioso Stefano Bontate.
Ambrosoli non si lascia intimidire, e l’ultima telefonata si conclude con queste parole: «Io la volevo salvare, ma da questo momento non la salvo più».
Nel frattempo, l’entourage di Sindona continua a muoversi, anche sul versante che ruota attorno alla loggia P2 di Licio Gelli, per tentare di portare in porto i famosi piani di salvataggio. E segna un punto a favore dell’entourage di Sindona: con un’operazione giudiziaria a dir poco vergognosa i vertici della Banca d’Italia, Baffi e Sarcinelli, vengono sostanzialmente rimossi dal loro incarico.
Una volta sgomberato il campo dalla scomoda presenza in Bankitalia del governatore Baffi e del vicedirettore Sarcinelli, Giorgio Ambrosoli diventa, agli occhi di Sindona, l’unico vero ostacolo irremovibile alla realizzazione dell’indecente progetto di salvataggio della sua banca. A questo punto Sindona assolda un killer americano, William Joseph Arico, e lo spedisce in Italia per uccidere Giorgio Ambrosoli, cosa che avviene qui, in questa via di Milano, la notte tra l’11 e il 12 luglio 1979.
Giustamente, in un articolo del 1986, ormai passato alla storia, il giornalista Massimo Riva ha scritto così:
“Dietro la morte di Giorgio Ambrosoli c’è la grave responsabilità morale, oltre che politica, di molti, e in particolare di Giulio Andreotti. Con il vuoto creato intorno alla persona del commissario liquidatore, Andreotti e gli ambienti di potere occulto e palese a lui omogenei hanno implicitamente trasferito a Sindona un messaggio criminale e criminogeno: cioè che l’unica ragione per cui il suo piano di salvataggio non riusciva a essere realizzato era l’ostinata intransigenza di Giorgio Ambrosoli”.
Concludo con un’ultima citazione.
Salvatore Lupo, tra i principali storici di mafia, si è detto sorpreso dal fatto che – in un paese come l’Italia, poco incline al “senso della patria e dello Stato” – ci siano non pochi servitori della Repubblica disposti a morire per compiere il loro dovere per questo nostro Paese. «A ogni commemorazione prende forma l’idea – di per sé contraddittoria – dei servitori della Repubblica come rivoluzionari in quanto portatori di legalità. Così essi restituiscono al Paese un po’ di fiducia, in modo che i cittadini possano pronunciare le parole di Piero Calamandrei, “lo Stato siamo noi”, come qualcosa di realmente sentito».
Rendiamo omaggio, quindi, al servitore della Repubblica Giorgio Ambrosoli, rivoluzionario in quanto portatore di legalità.
Grazie.
* Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato nel corso dell’iniziativa “Dal dolore all’orgoglio. In memoria di Giorgio Ambrosoli”, Milano 11/07/2022
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Mio padre Giorgio Ambrosoli: una vita, un esempio oltre la Storia
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