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Contro le mafie la memoria sostiene l’impegno

Gian Carlo Caselli * il . Giovani, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Società

Le fiabe di streghe, orchi e draghi cominciano tutte con il classico «c’era una volta….».

La storia della mafia comincia al contrario: nel senso che la mafia non c’era una volta… Per un lunghissimo tempo, infatti, una folla di uomini importanti ha fatto a gara per negarne pubblicamente l’esistenza, e chi osava non essere d’accordo era un provocatore. E se la mafia ufficialmente non esisteva, ovvio che nessuno la combattesse. E se qualcuno un po’ fuori del coro ci provava lo stesso, difficile che riuscisse a combinare qualcosa.

La Torre e dalla Chiesa

Le cose cambiano, con colpevole ritardo, soltanto nel 1982. Pio La Torre si inventa il reato di associazione mafiosa e per questo viene ucciso. Con lui muore anche la sua idea, che però viene «riesumata» quattro mesi dopo, con lo choc che sconvolse tutti gli italiani onesti per l’omicidio di dalla Chiesa, generale-prefetto di Palermo.

Rabbia e proteste portarono alla approvazione della legge Rognoni-LaTorre, introducendo nel codice penale il 416 bis, il nuovo delitto – appunto – di associazione mafiosa. Una norma che colpisce la mafia in sé e per sé: non più soltanto gli specifici reati dei mafiosi come omicidi, estorsioni, traffici di droga, ma appunto la stessa organizzazione che li realizza. Una rivoluzione!

Il pool

Nel contempo, all’orizzonte di Palermo appariva il pool di giudici istruttori del Tribunale, diretto da Rocco Chinnici e poi da Nino Caponnetto, di cui facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Anche avvalendosi del nuovo strumento del 416 bis (prima, «pretendere di sconfiggere la mafia era come pretendere di fermare un carro armato con una cerbottana»: così proprio Falcone), il pool crea una nuova metodologia di lavoro investigativo, basata sulla «specializzazione» (i magistrati del pool non devono fare di tutto un po’, ma solo inchieste di mafia, in modo da capirne sempre di più) e sulla «centralizzazione» di tutti i dati, così da evitarne la deleteria parcellizzazione e dispersione  fino ad allora imperante.

Cosa nostra può essere combattuta

Questo salto di qualità nella tecnica investigativa e nella conoscenza del fenomeno sfocia in risultati inediti di straordinaria importanza. Dimostra – alla fine del percorso – che Cosa nostra non è affatto invulnerabile. Può essere contenuta e sconfitta,  purché lo si voglia davvero e ­si sappia – ancora Falcone – «contrapporre organizzazione a organizzazione».

Ne risulta un capolavoro investigativo-giudiziario, il «maxi-processo». Maxi non perché (come qualche «spiritoso» aveva insinuato) Falcone e Borsellino fossero prime donne che volevano finire sotto i riflettori. Maxi perché di colpo era venuta finalmente meno la «maxi-impunità» di cui la mafia (che non esisteva…) aveva fino ad allora goduto. Di qui un processo di proporzioni enormi (maxi, appunto) con 475 imputati e 200 avvocati difensori, concluso in primo grado con pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di carcere.

L’attacco al pool

Accade però l’incredibile. Il pool – invece di essere sostenuto – viene letteralmente spazzato via sul piano professionale. Il culmine di questo vergognoso percorso viene raggiunto in occasione della nomina di un nuovo capo del pool dopo Nino Caponnetto. La maggioranza del CSM boccia Falcone, il campione dell’antimafia, preferendogli un magistrato assai più anziano, ma digiuno di mafia.

A questa bocciatura contribuirono più fattori. Contro il pool (non appena cominciò ad occuparsi non solo di mafiosi di strada, ma anche dei rapporti fra mafia-politica-affari-istituzioni: indagando su  Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania, il Golpe Borghese…) si era scatenata una tempesta di polemiche calunniose. Uso spregiudicato dei pentiti; uso della giustizia a fini politici di parte; pool trasformato da struttura di servizio in centro di potere; e poi – last but not least – l’etichetta di «professionisti dell’antimafia», assunta come sinonimo di carrieristi spregiudicati che sgomitano e scavalcano i superiori meriti altrui. Per il combinato effetto di tutti questi fattori, «complice» il CSM, alla fine il pool scompare e il suo metodo di lavoro vincente è cancellato.

Il «J’accuse» di Borsellino

A questo scempio Borsellino reagì coraggiosamente con  due interviste del luglio 1988, lanciando un pesantissimo j’accuse contro i vantaggi che derivavano a Cosa nostra dalla mancata nomina di Falcone: le inchieste (come quarant’anni prima) tornavano ad essere spezzettate  e distribuite a pioggia. Un chiaro segnale politico: anziché proseguire sulla strada del pool che stava portando alla sconfitta della mafia, si decideva di fermarsi, rinunziando a combattere a un passo dalla vittoria.

Risultato delle puntuali denunzie? Anche Borsellino finì nel mirino del CSM e venne  accusato… di non aver seguito le vie istituzionali.  Commentando poi la funesta vicenda della mancata nomina di Falcone, Borsellino parlerà senza mezzi termini di «giuda» e dopo la strage di Capaci dirà che Falcone aveva cominciato a morire proprio quando era stato umiliato con tale incomprensibile decisione.

Tra dossier, corvi e veleni

Ma a certe forze infami non basta vincere. Infierire è meglio. E le calunnie anziché attenuarsi si intensificano. Si apre una torbida stagione di dossiers, di corvi e di veleni. E quando viene sventato un attentato contro Falcone, predisposto con un ordigno esplosivo di oltre undici chili, si fa vigliaccamente circolare la voce che Falcone  se l’era organizzato lui… da solo.

Frattanto (cancellata dal nuovo codice di procedura del 1989 la figura del giudice istruttore) Falcone era passato alla Procura, dove avrebbe voluto proseguire le indagini nei confronti di Cosa nostra. Per lui inizia – invece – una penosa odissea di mortificazioni [1] che alla fine lo costringono ad abbandonare Palermo (dove tutte le porte gli vengono sbattute in faccia), per chiedere una sorta di asilo politico-giudiziario al Ministero della giustizia di Roma: dove però continua con determinazione il suo impegno antimafia, sicuramente in costante collegamento con Borsellino, recuperando il metodo di lavoro positivamente collaudato dal pool e proiettandolo su scala nazionale, inventando DNA, DIA e Procure distrettuali antimafia. La «nuova antimafia» che funziona ancora oggi.

Gli attacchi ingiusti tuttavia non cessano. Riprendono anzi con toni di inusitata asprezza quando si avvicina il giudizio della Cassazione sul maxiprocesso, mentre Falcone è candidato a dirigere l’istituenda Direzione nazionale antimafia. Si arriva a scrivere sul Giornale di Napoli  che «dovremo guardarci da due ‘Cosa nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto».

Al ministero (rientrava fra le sue competenze) Falcone aveva anche avviato  un «monitoraggio» sulla prima sezione penale della Cassazione, presso la quale confluivano tutti i processi di mafia, vista la nomea di «ammazzasentenze» che aleggiava sul  suo presidente, Corrado  Carnevale. I risultati del monitoraggio evidenziarono una serie di incongruenze, tra cui varie decisioni – spesso motivate con minuscoli e discutibili vizi di forma – che potevano corrispondere a tale nomea. Sta di fatto che il primo presidente Antonio Brancaccio introdusse la novità di un sistema di rotazione, e  quando il maxiprocesso approdò in cassazione non lo assegnò più a Carnevale.

La sentenza del 30 gennaio 1992

Alla rotazione fece seguito una sentenza, emessa il 30 gennaio 1992, che portò alla conferma definitiva ed irreversibile della quasi totalità dell’impianto accusatorio e quindi delle pesanti condanne comminate nel maxi.

Una vera disfatta per il vertice di Cosa nostra, che si era speso per l’annullamento delle condanne. Un traumatico «passaggio di fase» rispetto all’ormai consolidato rapporto di scambio tra Cosa nostra ed esponenti del mondo politico. Una grave perdita di «faccia» e di credibilità, con la prospettiva che la stagione dei «processi aggiustati» e dell’impunità fosse finita per sempre.

LE stragi di Capaci e via D’Amelio: vendetta mafiosa…

Come è tristemente noto, Cosa nostra reagì con una feroce rappresaglia, massacrando Giovanni Falcone (strage di Capaci del 23 maggio 1992) e neanche due mesi dopo Paolo Borsellino (strage di via D’Amelio del 19 luglio). Con loro furono uccisi Francesca Morvillo (anch’essa magistrato) e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.

Le due stragi, che per il nostro Paese sono state qualcosa come l’abbattimento delle Twin Towers in USA (Andrea Camilleri), furono una vendetta postuma contro Falcone e Borsellino, ma anche il tentativo di soffocare nel sangue la riproposizione del loro efficace e vincente metodo di lavoro e la «nuova antimafia».

…ma non è stata la fine

C’era il rischio concreto  – con le stragi  del 1992 –  che la nostra democrazia crollasse.

In forza di una compatta reazione corale (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica una volta tanto unita), fu però recuperato il metodo del pool di Falcone e Borsellino, riuscendo a produrre risultati che ci hanno salvati dall’abisso.

Limitandosi al dato più eclatante, si possono ricordare i 650 ergastoli chiesti e ottenuti dalla procura di Palermo (nel periodo in cui a dirigerla era il sottoscritto) nei processi di mafia. Risultati favoriti dal progressivo inveramento, sia pure con alti e bassi, di un fondamentale insegnamento di Borsellino, secondo cui «la lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della complicità».

Nota

[1] Da notare che anche Borsellino, come Falcone, non era troppo ben visto alla procura di Palermo: tant’è vero che il suo «capo» rifiutò a lungo di affidargli processi di mafia di un certo rilievo, fino a pochi giorni prima della strage di via d’Amelio.

* Fonte: Rocca n°11 – 1 giugno 2022

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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