Da Capaci i pentiti hanno eroso il potere mafioso
L’attentato del 23 maggio 1992 – in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani – fu il più imponente che la criminalità organizzata abbia mai compiuto, con l’impiego di una carica esplosiva costituita da circa 500 kg di tritolo macinato e di nitrato di ammonio (in parte puro nella forma “prilled” e per altra metà addizionato da cherosene), riposti in tredici bidoni, collocati nel cunicolo sottopassante l’autostrada A/29, direzione Punta Raisi-Palermo, nel territorio di Isola delle Femmine, in prossimità dello svincolo per Capaci.
La reazione dello Stato, che fino ad allora era apparso distratto, negli anni a venire fu ferma e decisa, come mai era accaduto prima di allora, accompagnata dall’introduzione di strumenti appropriati di contrasto.
Il primo processo nei confronti degli assassini (esecutori materiali, mandanti intranei a cosa nostra, appartenenti ai massimi organi di governo del sodalizio commissioni regionale e provinciale di Palermo) rappresentò il simbolo dell’attività repressiva. Trentanove appartenenti a cosa nostra furono progressivamente catturati, dal 15 gennaio 1993 al 2002, sottoposti tutti al regime del 41 bis O. P. (per impedirne il mantenimento dei rapporti con i sodali in libertà), processati (Antonino Gioè morì nel carcere di Rebibbia il 29 luglio del 1993, prima dell’inizio del processo di primo grado) nel pieno rispetto delle garanzie, condannati con sentenze definitive (a seguito di un doppio verdetto della Corte di Cassazione del 30-31 maggio 2002 e del 18 settembre 2008), i loro beni confiscati.
Il lungo e difficile percorso nell’accertamento della verità giudiziaria, non ancora completato, permanendo quesiti rimasti senza risposta, ha trovato l’elemento fondamentale nell’apporto dei collaboratori di giustizia, che vengono esposti al pubblico ludibrio ogni qualvolta viene diffusa la notizia della fruizione da parte loro di benefici.
Il primo processo ha visto, infatti, otto uomini d’onore con ruolo anche di comando confessare il loro coinvolgimento e accusare i complici: Salvatore Cancemi nel 1993, Giovanni Brusca nel 1996 e Antonino Giuffré nel 2002, posti alla guida dei mandamenti, rispettivamente, di Porta Nuova, San Giuseppe Jato e Caccamo, tutti facenti parte della commissione provinciale di Palermo; Calogero Ganci (figlio di Raffaele posto a capo del mandamento della Noce) e il cugino Antonino Galliano nel 1996; Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera, che iniziarono a collaborare nel 1993, entrambi uomini d’onore della famiglia di Altofonte, posta alle dipendenze di Brusca; Giovan Battista Ferrante nel 1996, uomo d’onore di San Lorenzo, guidato da Salvatore Biondino, tratto in arresto il 15 gennaio 1993 con Salvatore Riina.
I vertici di cosa nostra rimasti in libertà cercarono di contrastare il dilagare delle defezioni, nel quadro di una collaudata e più generale strategia di attacco nei confronti dei collaboratori di giustizia, ponendo in essere un’ignobile attività ricattatoria nei confronti di Mario Santo di Matteo, consistente nel sequestro del di lui figlio undicenne Giuseppe, poi culminata nel suo assassinio, e volta a indurlo a ritrattare le accuse lanciate. Il promotore e l’organizzatore di tale forma di micidiale pressione è stato Giovanni Brusca, unitamente a Giuseppe Graviano, e un ruolo nell’esecuzione del delitto è stato svolto, tra gli altri, da Leoluca Bagarella e Giuseppe Agrigento, tutti coinvolti nella strage di Capaci. Il padre di La Barbera, Domenico, veniva indotto a impiccarsi, così simulando un suicidio nel giugno del 1994, da sicari inviati da Giovanni Brusca, in quanto non aveva fornito le informazioni richiestegli, inerenti al luogo ove si trovava il di lui figlio.
Ben presto i mafiosi si resero, però, conto che l’emorragia era divenuta inarrestabile, quando divenne di dominio pubblico la collaborazione di Calogero Gangi, che iniziò il 7 giugno 1996, producendo un trascinamento significativo nei confronti di altri importanti uomini d’onore, al punto che taluni, e io fra questi, cominciarono a pensare che il secolare contrasto a cosa nostra potesse avere finalmente una fine. Gli esponenti del sodalizio capirono che il processo nei confronti dei mandanti e degli esecutori dell’eccidio di Capaci era ormai segnato, che lo Stato era in grado di proteggere i coraggiosi uomini d’onore che avevano deciso di abbandonare l’organizzazione e che quella strage poteva rappresentare l’inizio della fine.
Dopo i verdetti definitivi del 2002 e del 2008, è seguito un altro processo nei confronti di otto imputati. Alcuni uomini d’onore (uno dei quali Salvatore Madonia, quale mandante, nella veste di reggente del mandamento di Resuttana), altri soggetti vicini all’organizzazione che avevano contribuito alle attività preparatorie. Quattro pronunce di condanna sono divenute definitive.
Anche il secondo processo ha trovato nella collaborazione di Gaspare Spatuzza (che all’epoca dell’eccidio non faceva ancora parte di cosa nostra), iniziata nel 2008, l’elemento trainante, a cui seguì quella di Cosimo D’Amato. Da ultimo, si è celebrato il processo nei confronti di Matteo Messina Denaro, condannato in primo grado e ancora latitante, nonostante siano trascorsi trent’anni da quella strage.
Dal 2008 le collaborazioni qualitativamente significative in seno a cosa nostra si sono inaridite e nessuno dei condannati per l’eccidio ha trovato conveniente la collaborazione, preferendo morire in carcere o sperare nell’ottenimento dei benefici carcerari (permessi premio, liberazione condizionale), divenuti di recente possibili a seguito degli interventi della Corte Costituzionale.
Ciò che è importante è evitare che gli uomini d’onore percepiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo insieme considera di fondamentale importanza la collaborazione con la giustizia, che non si intenda smantellare gli strumenti esistenti, ma potenziarli e che il contrasto alla criminalità organizzata è in vetta alle priorità politico-legislative-giudiziarie, non solo in occasione delle commemorazioni pervase da retorica celebrativa.
In questa prospettiva diventa importante rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza, potenziando l’efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato.
* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 18/05/2022
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