Placido Rizzotto, vittima della lunga strage
I giovani coltivano la memoria. Come antitodo contro le mafie e la subcultura mafiosa. Come testimonianza di un impegno quotidiano contro criminalità organizzata e illegalità. Il presidio di Libera – Arci a Corleone, oggi ricorda Placido Rizzotto, il suo impegno per la libertà e i diritti dei lavoratori. Una vita da partigiano in terra di mafia.
Placido Rizzotto era nato il due gennaio del 1914 a Corleone ed era un ragazzo figlio di un contadino, Carmelo e di Moschitta Giovanna, che morì giovanissima. Dovette abbandonare la scuola perché il padre, sotto il prefetto Mori fu arrestato poiché vicino alla mafia. Fu chiamato alle armi con destinazione i freddi monti della Carnia, in Friuli Venezia Giulia, ma dopo l’8 settembre abbandonò la divisa fascista e si unì ai partigiani della Brigata Garibaldi.
Sui monti della Carnia Placido ha contribuito alla liberazione dell’Italia; ma i partigiani della Carnia hanno contribuito a formare in Placido gli ideali di libertà che andavano oltre la lotta al fascismo, infatti, entrò in contatto con le idee di uguaglianza socialiste, tutti gli uomini sono uguali e non ci possono essere servi e padroni, come nel suo paese, ma ha vissuto anche l’esperienza di quei giovani partigiani che per quei valori e quelle idee erano morti accanto a lui.
Sarebbe stato facile continuare a inseguire la libertà dove già era affermata, ma si rese conto che la sua lotta non era finita, sapeva che la sua Corleone non era oppressa dal nazifascismo ma dai “signori” di Cosa Nostra. Finita la guerra, ritornò nella sua Corleone, carico delle sue esperienze e in poco tempo fu eletto Segretario della CGIL di Corleone e rifondò la cooperativa agricola “B. Verro”, organizzando i contadini nella lotta per l’applicazione del decreto Gullo. A Corleone e in Sicilia, come abbiamo detto, continuava ad esistere il latifondo che era nelle mani degli agrari e dei gabelloti mafiosi.
Placido incitava i “jurnateri” (lavoratori pagati a giornata) a non accettare le proposte “di lavoro” (sfruttamento!) che erano fatte dai picciotti dei latifondisti in pubblica piazza come per le bestie, ma parlava di collocamento e li incitava organizzarsi in cooperative. L’unione tra i lavoratori onesti poteva essere l’unica arma per sconfiggere l’ormai assodata cultura del subire e per affermare i propri diritti. Rizzotto portava avanti questa lotta contro questi poteri e per questo motivo fu eliminato il 10 marzo del 1948. Nessuno fu condannato attraverso la solita formula, di moda in quegli anni, “assolti per insufficienza di prove”. A Corleone il capomafia era il Dott. Michele Navarra, che gestiva l’ospedale dei Bianchi e aveva un grosso potere, ma a suo servizio aveva tra gli altri Luciano Liggio, che prenderà in seguito il suo posto facendo uccidere il vecchio boss e i suoi affiliati con una vera e propria guerra di mafia. Rizzotto voleva occupare le terre che erano state promesse a Liggio. La sera del 10 marzo 1948 Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura lo rapirono e facendolo entrare con forza in una Fiat 1100 lo portarono in contrada Malvello, dove venne torturato e assassinato.
Il suo cadavere fu occultato nella foiba di Rocca Busambra. Non venendolo rientrare il papà Carmelo e il cognato Giuseppe Di Palermo andarono a cercarlo. Il padre ebbe la forza di denunciare i fatti all’allora capitano Dalla Chiesa. Il capitano fece un rapporto indicando proprio gli esecutori materiali, grazie alla testimonianza di Criscione e Collura. Stessa denuncia fu fatta allora dai giornali l’Unità e la Voce della Sicilia che scrissero anche sulla strana morte del piccolo Giuseppe Letizia, che aveva assistito all’omicidio Rizzotto ed era stato ricoverato nell’ospedale diretto dal Dott. Navarra.
Ma al processo i due testimoni ritrattarono e quindi il processo in tutti e tre i gradi si risolse con la formula assolti per insufficienza di prove. Per Rizzotto come per tanti altri non c’è mai stata giustizia.
UNA LUNGA SCIA DI SANGUE E MISTERI
Il contesto. L’Italia è un paese di misteri e di stragi, dove spesso alla criminalità, al terrorismo si aggiungono servizi deviati, politici, pezzi dello Stato. Uno dei tanti casi è quello che verificatosi in Sicilia tra il 1946 e il 1948. Per avere una visione più chiara non si può non tener conto delle influenze internazionali, dei rapporti politici italiani e regionali. L’Italia usciva dal fascismo ed era governata da un governo di unità nazionale tra le sinistre, la DC e i partiti minori, erano escluse le destre. In tale clima il Ministro dell’agricoltura Fausto Gullo, del PCI, ha approvato dei decreti che permetteva alle cooperative di contadini di avere assegnati i terreni incolti o mal coltivati.
Tale principio era rimasto sulla carta dopo essere state emanate due leggi, una nel 1906 e una nel 1920. I contadini dopo anni di guerra, con la liberazione e spinti dal Partito Comunista, dal partito Socialista, con la Cgil formano un movimento contadino che rivendicava proprio l’applicazione della legge. Questo contrastava sia con gli interessi della classe agraria, sia gli interessi della mafia da sempre braccio armato dei primi. In questa situazione s’innesta anche la fine della luna di miele tra Unione Sovietica e USA, infatti, viene formulata la dottrina Truman con la quale gli USA dicono di opporsi in tutte le parti del mondo all’Unione Sovietica.
In Sicilia tale messaggio si traduceva nel fermare assolutamente il Blocco del popolo, formato da comunisti e socialisti, che alle elezioni regionali del 20 aprile del 1947 avevano ottenuto il 30% dei voti e quasi un terzo dei seggi dell’Assemblea Regionale. La DC perdeva voti. Di lì si ebbero due reazioni, da un lato la lunga strage che ebbe il suo tragico picco con la strage di Portella delle Ginestre e la morte di decine di contadini, braccianti, sindacalisti, sindaci e consiglieri comunali, quasi tutti di orientamenti politici comunisti e socialisti, fino al 1948 in cui si svolsero le elezioni nazionali, dall’altro invece le sinistre usciranno dal governo nazionale. Una lunga strage che intendeva fermare il movimento contadino, di sinistra, che rivendicava le terre con le simboliche occupazioni, scontrandosi con agrari e mafiosi-gabelloti, e fermare l’avanzamento delle sinistre in Sicilia in cui si temeva una rivoluzione rossa che poteva andare a scontrarsi con la dottrina Truman.
A rafforzare tale tesi c’è la dimostrazione che il maggior numero di vittime si ha tra le elezioni regionali e le elezioni politiche per il primo parlamento nazionale del 18 aprile del 1948. Proprio nel 48 ci sarà una lunga scia di sangue in cui furono uccisi Vincenzo Campo a Gibellina il 22 febbraio; Epifanio Li Puma a Petralia Sottana il 3 marzo; Placido Rizzotto a Corleone il 10 marzo; Calogero Cangelosi a Camporeale il 15 aprile.
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