A Gela si torna a sparare
“Arrestatemi pure, tanto in carcere mi tratteranno da uomo di rispetto”, parole pronunciate solo lo scorso Settembre non da un maggiorente del crimine, avvezzo agli ambienti carcerari, bensì da Alessandro Pellegrino, qualche ora prima fermato dagli agenti della Polizia di Stato di Gela insieme a Rocco Faraci: i due, pur se in sella ad uno scooter, maneggiavano un fucile già carico, solo una delle armi detenute dagli stessi in nascondigli ben individuati.
L’esordio di Pellegrino, ventenne figlio di Emanuele e fratello di Gianluca, entrambi detenuti per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, affiliati al clan di cosa nostra degli Emmanuello, sorprese anche gli inquirenti: tanta spavalderia non si ricordava dai tempi della guerra di mafia e delle “gesta” dei “carusi” affiliati ai clan in lotta. Patteggiata la pena e scontato il soggiorno obbligatorio al di fuori del territorio gelese, Alessandro si è non solo ristabilito in città ma rafforzato la personale leadership morale, fondata prevalentemente su di una “nomea” generatrice di timore e diffidenza nei coetanei e non solo.
Evidentemente, però, l’imposizione di una sua esclusiva regia sull’intero “set” criminale gelese non ha riscontrato solo consensi: i rampolli delle famiglie fautrici dei sanguinosi scontri degli anni ’80 e ’90, infatti, non accettano di buon grado un repentino declassamento sociale. Fra questi, molto probabilmente, bisogna annoverare Emanuele Rocco Argenti, ventinove anni, figlio di uno dei trascinatori dell’omonimo gruppo criminale, aderente a cosa nostra, Gianni, ucciso nell’estate del 1988, all’apice del confronto apertosi con i pastori “stiddari”. Via Palazzi, centro della movida gelese, soprattutto per gli adolescenti, e inesauribile bacino della domanda di stupefacenti, in prevalenza hashish e marijuana: di conseguenza territorio da conquistare per gli “operatori” del settore.
A conclusione di un venerdì sera sempre assai prolifico per gli spacciatori della zona, le telecamere di sicurezza posizionate in quel tratto stradale riprendono una violenta rissa esplosa tra due giovani: si tratta proprio di Emanuele Rocco Argenti e Alessandro Pellegrino; sembra tutto finito in pochi minuti, ma l’onta non può di certo lavarsi così facilmente, almeno non per chi ha trascorso la sua breve esistenza nel “mito” del mafioso di rispetto, e così l’offeso, spalleggiato da un sodale, Pietro Caruso, si reca innanzi all’ingresso dell’abitazione del rivale, il quale, intanto, spinto dai rumori, è già nei pressi del balcone: improvvisamente viene travolto da una serie di pallettoni esplosi dal fucile impugnato dal “capo”, il suo volto viene colpito in pieno ed ora rischia di perdere un occhio.
Argenti e Pellegrino, stando alle ricostruzioni poste in essere dagli investigatori, sarebbero due elementi essenziali per la “rifondazione” criminale gelese: con i “veri mafiosi” agli arresti o, spesso, “traditori”, poiché divenuti collaboratori di giustizia, i giovani non rimangono in posizioni di mera passività. Lo stesso Emanuele Rocco Argenti detiene un’importante posizione nel campo dello spaccio di stupefacenti, il quartiere “Caposoprano” è divenuto, con l’andar del tempo, il suo personale posto di lavoro, tanto da indurlo ad atti di sopraffazione e prepotenza, come se nulla fosse: tanto lui è un Argenti e difficilmente qualcuno può sperare di sopravanzarlo.
I colpi di fucile ricevuti in pieno volto, talmente evidenti da lasciare tracce persino sulla caldaia posizionata proprio a qualche centimetro dal parapetto del balcone, e le tracce di sangue sparse un po’ ovunque sulla superficie dello stesso, erano immagini oramai desuete a Gela: simili scene non si riscontravano in città almeno da un decennio, quando nell’estate del 1999 l’eclatante uccisione di Emanuele Trubia, sventrato dai colpi esplosi da un killer all’interno di una sala da barba, mise in ambasce l’intera comunità gelese, preoccupata dell’avvento di un nuovo anno zero nella guerra di mafia.
Il dilemma essenziale legato a questo fatto di sangue, e che tanto interessa gli investigatori, concerne la possibilità che lo stesso possa rappresentare non solo un regolamento di conti all’interno della dimensione dominata dalla manovalanza criminale, bensì un vero e proprio passo prodromico alla scalata dell’organigramma del clan Emmanuello, privo allo stato attuale di una vera e propria guida. Sia gli Argenti che i Pellegrino, infatti, sono da sempre legati alla famiglia guidata, fino alla sua morte, da Daniele Emmanuello, e l’ “inconveniente” insorto tra due membri di questi gruppi potrebbe rappresentare una sorta di miccia che per il bene di Gela sarà meglio disinnescare con previdenza.
Lo spaccio di sostanze stupefacenti e le estorsioni, anche di basso cabotaggio, a quanto pare, servono anche a delimitare il territorio se non addirittura a dividerlo fra i rinascenti gruppi della malavita organizzata, non più impegnati a “spararsi contro” quanto, piuttosto, ad annunciare che loro non se ne sono mai andati da Gela: insomma, non c’è antimafia che tenga. Adesso sia Alessandro Pellegrino che Pietro Caruso attendono la convalida degli arresti proprio all’interno di quel luogo, il carcere, dove sono certi di “essere trattati da uomini di rispetto”.
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