Grazie a Falcone e Borsellino l’Italia ha fatto scuola sulle leggi contro la mafia
Gli effetti delle stragi e la Giornata della memoria.
Questo è l’anno del trentesimo anniversario delle stragi di mafia del 1992. “Colpire Falcone e Borsellino è stato – per il nostro Paese – qualcosa come l’abbattimento delle Twin Towers in Usa” (Andrea Camilleri).
C’era il rischio concreto – con le stragi del ‘92 – che la nostra democrazia crollasse. Una forte reazione corale (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica una volta tanto unita), ci ha invece salvato dall’abisso producendo importanti risultati: uno per tutti, 65 condanne all’ergastolo di mafiosi, oltre a una sequela di anni di reclusione. Così si è potuta riprendere la strada tracciata da Falcone e Borsellino con il maxi processo per contrastare efficacemente Cosa nostra.
Mentre l’organizzazione criminale – per parte sua – ha dapprima insistito nella rabbiosa strategia stragista con gli attentati di Roma, Firenze e Milano, per poi inabissarsi in modo da uscire dai “riflettori”, rimarginare le ferite e riprendere sotto traccia le “consuete” attività di accumulazione illecita di capitali. Dunque, la mafia ha subìto duri colpi ma ancora ci appesta.
Tuttavia, se il nostro rimane un Paese con problemi di mafia, possiamo anche rivendicare orgogliosamente di essere il Paese dell’antimafia. Siamo il Paese dell’antimafia perché l’Italia è all’avanguardia sul piano della legislazione e dell’organizzazione del contrasto.
Lo prova il fatto che la Conferenza dell’Onu contro la criminalità organizzata transnazionale (Palermo 2000) ha prodotto una Convenzione ché ha recepito una lunga serie di misure mutuate dall’esperienza investigativo-giudiziaria maturata proprio nel nostro Paese, che le ha “pensate” calibrandole sulla concreta realtà della criminalità mafiosa. Una specie di Little Italy antimafia.
Siamo il Paese dell’antimafia anche in virtù della legge 109/96, che destina i beni confiscati ai mafiosi ad attività socialmente utili, restituendoli alla collettività cui la mafia li ha rapinati. Il significato profondo della legge è fare dell’antimafia, recuperando il “mal-tolto”, una legalità che conviene: non più questione soltanto di guardie e ladri, ma in grado di coinvolgere la società civile.
Un “capolavoro” ideato da Luigi Ciotti e da Libera: sia predisponendo un progetto di legge di iniziativa popolare; sia raccogliendo un milione di firme per sostenerlo. Una pressione irresistibile, tant’è che la legge fu approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti come stava scritto nel progetto), dando così vita all’antimafia sociale e dei diritti che è un nostro fiore all’occhiello, ovunque studiato e imitato.
Siamo ancora il Paese dell’antimafia per il prezzo altissimo che l’Italia ha pagato subendo un’infinità di vittime innocenti. Operando come hanno operato in vita e sacrificandosi fino alla morte, esse hanno lasciato – parafrasando lo storico Salvatore Lupo – un’eredità “rivoluzionaria”: restituire lo Stato alle persone, dando un senso alle parole “lo Stato siamo noi”.
Poi siamo il Paese dell’antimafia grazie ai familiari delle vittime, che vivono un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Chiedono giustizia e non vendetta. Nei loro confronti abbiamo tutti un debito enorme: la loro ferma testimonianza è un richiamo a non dimenticare e un punto di riferimento morale. Ogni 21 marzo si svolge (quest’anno a Napoli) la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia, organizzata da Libera.
Il momento più significativo e commovente è la lettura dell’interminabile elenco delle vittime innocenti, oltre millecento, nel silenzio assoluto delle decine di migliaia di persone presenti, soprattutto giovani. Numerosi ogni volta sono i familiari delle vittime. Alcuni di loro mostrano cartelli con la fotografia della persona cara uccisa e la data (spesso ormai lontana) dell’omicidio.
Sarebbe utile se a queste iniziative si affacciassero pure quelli che parlano di antimafia militante arroccata nel culto dei martiri e nel richiamo esclusivo al sangue versato. O quelli che addirittura proclamano la necessità di una “rieducazione delle vittime”, per rintuzzare il pericolo che i familiari finiscano per sbilanciare, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia.
Fonte: Corriere della Sera, 22 marzo 2022
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