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Educazione alla legalità. Un’esperienza italiana che tanti nel mondo ci invidiano

Nando dalla Chiesa il . Mafie, Memoria, Politica, Società

Sergio Aguayo ha la faccia india. È uno di quei messicani che portano nei secoli l’impronta dei nativi. Da lontano non capisci se dietro gli occhiali sottili stia un capotribù in accigliata meditazione. Poi è una rivelazione vulcanica.

L’intellettuale che ho davanti è socievolissimo, ha una grande voglia di parlare e di ascoltare. Chiede racconti e analisi sulla situazione italiana, anche perché ha alle spalle anni di studi a Bologna, certificati dalla scelta di un piatto di tagliatelle. Un tema gli sta soprattutto a cuore, il nostro movimento antimafia.

Il Messico conosce in proporzioni gigantesche qualcosa vissuto anche dall’Italia: i contropoteri criminali, la disputa allo Stato dei territori di alcune regioni. Docente al Colegio del México e ad Harvard, Aguayo è in Italia per la giornata di apertura della settimana della legalità dell’Università statale di Milano.

È uno degli studiosi più autorevoli dei mercati della droga e in particolare dei movimenti di resistenza ai narcos, ai quali – a Coahuila – ha dedicato cinque anni di lavoro sul campo. E vuole capire come ha fatto l’Italia ad arginare la mafia siciliana, a indebolirla anzi. Capire da dove sono spuntate le leggi che hanno trasformato l’Italia in un esempio per il mondo, dal reato di associazione mafiosa all’uso sociale dei beni confiscati.

Così mentre parlo mi rendo conto che quello che per noi è scontato per lui non lo è affatto, anzi è una sorpresa straordinaria, quasi un’illuminazione. Lui e la sua collega Monica Serrano, altra studiosa informatissima del narcotraffico, sgranano gli occhi quando spiego delle grandi manifestazioni tenute negli anni a sostegno della magistratura o per ricordare certi magistrati o anche certi uomini in divisa. Racconto loro di una manifestazione di piazza in ricordo di un giovane carabiniere ucciso dalla camorra vicino a Napoli e commentano che in Messico sarebbe impossibile che dei giovani o dei normali cittadini si mobilitino per un poliziotto. Perché i poliziotti sono considerati un pericolo potenziale, spesso complici dei narcos, e non ci sono legami possibili con i movimenti. Due mondi diversi.

Penso allora che abbiamo vissuto un’esperienza davvero originale, grazie a quelle persone in divisa che hanno fatto capire con nettezza e con i fatti da che parte stavano. E magari ne hanno parlato nelle scuole. Ed è proprio qui che avanza nella discussione una seconda ragione di meraviglia: il ruolo della scuola, dalle elementari ai licei, nel resistere alle ondate mafiose, nel contrastare il sangue con l’educazione alla legalità. Studenti e insegnanti. Spiego ad Aguayo delle nostre ricerche proprio sulla storia dell’educazione alle legalità nella scuola italiana. E intuisco di avere rivelato una strategia di contrasto in teoria impensabile. Che cosa possono mai fare i ragazzini contro i trafficanti di droga? Sergio corre con il pensiero.

In effetti bisogna educare i bambini, occorre un’altra cultura sin da piccoli. Conseguenza: bisognerebbe fare degli esperimenti pilota anche da noi, dice a Monica. Torno così con la memoria a quegli insegnanti palermitani e napoletani (alcuni non ci sono più) che compresero in un lampo che, davanti alle lapidi che si moltiplicavano nelle vie, toccava anche a loro prendersi sulle spalle la responsabilità della lotta alla mafia, coinvolgere nella rivolta civile alunni e famiglie anche se – o proprio perché – abitanti in quartieri ad alta densità mafiosa.

Che storia grandiosa, anche se quasi mai riconosciuta… È come se avessi spianato a Sergio un orizzonte denso di promesse solo ad accennarlo. Visto come cambiano i tempi? Niente illusioni, la lotta sarà ancora dura, più lunga di quanto avessimo sognato. Però non esportiamo più solo mafia. Esportiamo anche antimafia. E questo mi suscita, davanti agli ospiti illustri, un certo indefinibile orgoglio.

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 21/03/2022

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