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Il decalogo di Reggio Calabria, governo alla prova

Di Lorenzo Frigerio il . L'analisi

Un Consiglio dei Ministri convocato in via straordinaria a Reggio Calabria, illuminato dalle luci delle telecamere e accompagnato dallo stridore delle gomme delle scorte, per annunciare una svolta nella lotta alle mafie: “un pacchetto di provvedimenti – recita il comunicato stampa al termine – diretti a contrastare in maniera quantomai radicale le diverse mafie che inquinano il Paese”.

Al di là delle curiose espressioni utilizzate, cerchiamo di capire quanto di realmente sostanzioso ci sia nel decalogo antimafia varato dal Governo. Senza pregiudizi, ma senza sconti però.

Intanto il primo e decisivo punto: l’istituzione dell’Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Ci auguriamo che i proclami si trasformino in fatti, pronti a verificare la reale capacità d’azione di un simile strumento, ormai imprescindibile. Ci permettiamo di ricordare che l’istituzione di un’agenzia che si occupi dei beni confiscati, dalla fase del sequestro a quella della confisca, per finire a quella della destinazione a fini istituzionali o sociali, è una richiesta che Libera ha avanzato diversi anni fa. Già, a distanza di pochi anni dall’applicazione della legge 109/96, ci si rese conto che la vera scommessa era snellire le procedure previste, per evitare che questi beni arrivassero a destinazione dopo molti anni persi nei meandri della burocrazia.

Ci saremmo aspettati, però, che l’agenzia venisse istituita all’interno di un quadro armonizzato, ma così non è. Non possiamo dimenticare, infatti, che nella recente legge finanziaria è stata introdotto un emendamento che prevede la vendita dei beni non destinati entro tre o sei mesi. Allo stato sono oltre 3.200 quelli passibili di essere messi in vendita. C’è quindi il rischio concreto, ora che si costituisce finalmente l’agenzia, di trasformarla in una sorta di agenzia immobiliare, che si occupi soltanto delle aste in cui questi beni verranno venduti. È chiaro che questa possibilità va scongiurata in tutti i modi, pena la perdita di occasioni di sviluppo, di socialità, di partecipazione, rappresentati in tutti questi anni dal riutilizzo a fini sociali di quanto sottratto alle organizzazioni mafiose.

Il presidente del Consiglio si è lasciata sfuggire una battuta infelice, di fronte all’ipotizzato rischio che a comprare i beni messi all’asta siano gli stessi mafiosi, dicendosi certo della possibilità di reiterare il sequestro. Le battute di spirito possono risultare utili quando ci sono le conferenze stampa o si devono fare dei comizi, ma risultano oltremodo sgradevoli in altri contesti. Nel caso di specie, oltre a banalizzare la questione, si penalizza il lavoro che la magistratura e le forze dell’ordine fanno per sequestrare quei beni. Non si può cancellare con un colpo di spugna anni di indagini, di sacrifici; per arrivare a togliere le ricchezze alle mafie, molti servitori dello Stato hanno perso anche la propria vita.

Come si fa a buttare tutto e sempre sul ridere, senza timore di sfiorare il ridicolo, senza il minimo rispetto di quanti hanno pagato con la vita il loro giuramento di fedeltà alla Repubblica?

C’è da augurarsi piuttosto che l’agenzia possa essere quel soggetto nel quale far confluire le migliori competenze delle istituzioni, ma anche le migliori esperienze della società civile, associazioni e cooperative in primis, che in questi anni a fianco delle prefetture, della magistratura e delle forze dell’ordine si sono battute perché questi beni fossero utilizzati fino in fondo. Vedremo cosa sarà nel concreto l’Agenzia: anche la scelta di insediarla a Reggio Calabria può essere una scelta simbolica, che corre il rischio di misurarsi con difficoltà logistiche.

Intanto, se il buon giorno si vede dal mattino, diciamo pure che il solo fatto di aver pensato a Nicola Pollari per guidare tale organismo, qualche brivido lungo la schiena l’ha procurato a quanti sono interessati a fare sul serio..

Il secondo punto qualificante del programma varato a Reggio è la delega al Governo per la predisposizione del Codice delle leggi antimafia. Anche per questo punto sarebbe interessante capire come in concreto ci si intenda muovere. Non crediamo che il semplice inserimento del termine ‘ndrangheta nel lessico normativo antimafia sia una rivoluzione copernicana, ma, tutt’al più una ridondanza, in quanto in questi anni l’assenza della parola ‘ndrangheta nel testo dell’articolo 416 bis del codice penale non ha impedito inchieste, processi e condanne a carico di affiliati alla criminalità organizzata di origine calabrese.

Crediamo sia piuttosto necessario porre mano ad un’armonizzazione dell’esistente corpo di leggi, per farne un unicum in grado di aggredire meglio le cosche. Anche in  questo caso occorre ricordare che tale esigenza parte da lontano, visto che tutte le più importanti leggi antimafia sono nate dall’approccio emergenziale dato al fenomeno e licenziate da Parlamento e Governo dopo omicidi e stragi che avevano scosso il Paese.

Nel 1998, fu istituita una Commissione di studio per predisporre un Testo unico della legislazione antimafia. Dopo tre anni di lavoro venne predisposta una bozza rimasta sostanzialmente inevasa fino ai giorni nostri. Perché non si riparte proprio da lì per razionalizzare l’impegno di magistratura e forze dell’ordine? Perché non si pone una moratoria al varo di leggi che rischiano di penalizzare la lotta alle cosche? Da un lato si annuncia un Testo unico, dall’altro ci si prepara a varare norme in materia di procedura, di intercettazioni telefoniche, di collaboratori di giustizia, senza che vi sia un minimo comune denominatore. A meno che non si voglia dare ragione a quanti affermano che l’unica ratio sia l’azzeramento della capacità investigativa delle procure…

Ci piacerebbe parlare degli altri provvedimenti contenuti in quello che si può definire “il decalogo di Reggio Calabria”, ma la lettura lascia interdetti e perplessi: si annunciano, infatti, “nuovi strumenti di aggressione ai patrimoni mafiosi”,“misure di contrasto all’ecomafia”, “misure a sostegno delle vittime del racket e dell’usura”,“mappa informatica delle organizzazioni criminali”, “potenziamento dell’azione antimafia nel settore degli appalti”, “iniziative sul piano internazionale per contrastare la criminalità transnazionale”, “norme di contrasto alla criminalità organizzata”.

Ora, tolta la mappatura informatica delle cosche, di per sé utile se fatta bene, tutte le altre misure comunicate sono quanto di più generico ci possa essere, compresa la previsione finale di “norme di contrasto alla criminalità organizzata”. Ci piacerebbe sapere di cosa stiamo parlando, perché, abbiamo l’impressione di avere di fronte solo slogan, solo titoli di provvedimenti tutti da scrivere.

Sempre a Reggio e sempre in tema, il CdM ha poi lanciato “un Piano straordinario di vigilanza nei territori del Meridione più sensibili ai problemi del lavoro irregolare in agricoltura e in edilizia”.

Anche nel caso di specie, ci sembra che l’annuncio roboante serva più alla propaganda che all’effettivo contrasto allo sfruttamento dei migranti. Più che vigilare si tratta di togliere spazio ai caporali e ai trafficanti di esseri umani.

Ricordiamo che già l’articolo 18 della Turco-Napolitano prevede percorsi di fuoriuscita per i lavoratori che denunciano casi di sfruttamento e di schiavitù. Quella strada va rafforzata e va sostenuta perché in questi anni una ricca rete di volontariato ha permesso a tante persone di sottrarsi al giogo di schiavisti e mafiosi. Non ci convince l’assunto di base di questo piano, affidato anche in questo caso ad una battuta del premier, per cui ad un aumento degli immigrati corrisponde un aumento
della criminalità. Non è così, dati ed evidenze alla mano, ma per fortuna questa volta anche la Chiesa ha levata alta la sua voce per confutare la pericolosa tesi.

Insomma, è  il tempo dei fatti, non delle battute.

Guarda l’intervista a Lorenzo Frigerio su RaiNews24

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