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Giustizia. L’interpretazione è il suo Dna

Gian Carlo Caselli il . Criminalità, Cultura, Diritti, Giustizia, Politica, Società

Angelo Burzi, noto uomo politico di centro-destra, già consigliere e assessore della Regione Piemonte, si è suicidato nella notte di Natale. In una lettera ha incentrato le motivazioni del gesto sulla condanna –  a suo giudizio ingiustamente inflittagli dopo quasi dieci anni di processi – per quelle condotte che gli organi d’informazione riassumono come “Rimborsopoli”.

In primo grado il Tribunale di Torino lo aveva assolto. In appello il giudizio era stato ribaltato con una sentenza di condanna. La Cassazione aveva confermato la condanna per una delle imputazioni, richiedendo però che le pene fossero ricalcolate in appello; per le altre imputazioni aveva rinviato il processo in appello perché fosse approfondita la configurabilità del concorso nei reati contestati. In sede di giudizio di rinvio la corte di appello aveva confermato le condanne ed irrogato una pena complessiva (tre anni) calcolata con il meccanismo della continuazione rispetto ad un patteggiamento intervenuto in altro procedimento per fatti analoghi.

Il suicidio è sempre un terribile dramma che impone, insieme al rispetto e alla “pietas” per chi tragicamente si toglie la vita, un’umana solidarietà verso i familiari. A questi sentimenti si sono sovrapposte – nel caso Burzi –  fortissime  polemiche contro i magistrati, accusati di un accanimento persecutorio che risulterebbe in modo univoco dalla assoluzione nel primo grado di giudizio.

L’argomento può apparire suggestivo, ma in verità il problema è ben più complesso e investe il delicatissimo tema dell’interpretazione. Un tema che si pone innanzitutto per la ricostruzione dei fatti sottoposti a giudizio.

Per lo più si pensa che quel che è accaduto è consolidato, sicché la ricostruzione del fatto dovrebbe essere univoca. La realtà però è un’altra.

Prendiamo il caso di A che colpisce B e lo ferisce. Tentato omicidio o solo lesioni personali? Una pena assai pesante nel primo caso, sensibilmente più leggera nell’altro. In gioco c’è il destino di un uomo, legato alla lettura di una molteplicità di fattori: distanza fra A e B, micidialità dell’arma usata, numero dei colpi esplosi; vitalità della zona colpita; movente di A; reazione di B… Alcuni fattori sono facilmente determinabili, altri no. Di qui la possibilità di ricostruzioni diverse che il giudice deve esaminare a una a una scegliendo alla fine quella che più lo convince.

Ciò che il sistema chiede al magistrato è di valutare la persuasività, o la non persuasività, degli elementi indicatori (testimonianze,  rilievi tecnici, accertamenti peritali ecc.), che le parti presentano a sostegno delle rispettive versioni. Indicatori che possono anche essere controvertibili, ma proprio per questo (cioè per evitare che la controversia vada avanti all’infinito), richiedono la valutazione di un soggetto preposto per legge a pronunciare una parola decisiva.

L’accertamento dei fatti, come ovvio e come è stato anche nel caso Burzi, deve avvenire secondo regole prefissate e stringenti (per garantire la correttezza reciproca delle parti nell’iter acquisitivo e nella utilizzazione delle prove), ma la valutazione del materiale raccolto rimane strutturalmente opinabile, soggettiva. Di qui la necessità della motivazione, che il nostro sistema richiede obbligatoriamente per tutti i provvedimenti del giudice, per consentire alle parti di contestare la decisione e di ricorrere in appello, e all’opinione pubblica di controllarne la coerenza e l’attendibilità.

Il pluralismo giudiziario è fisiologico

Inoltre, è evidente come possa condurre a una diversa ricostruzione dei fatti, con esiti contrastanti se non opposti, la struttura stessa del processo in quanto articolata su più gradi di giudizio. Perché se questi fossero destinati semplicemente a essere la fotocopia l’uno dell’altro non avrebbero nessun senso di esistere. È comprensibile, soprattutto nei casi di maggior rilievo, che gli esiti contrastanti all’interno dello stesso processo suscitino polemiche e persino scandalo, ma a questo punto del ragionamento possiamo dire che si tratta di un dato non patologico bensì fisiologico, proprio di qualunque ordinamento che come il nostro sia caratterizzato da una pluralità di gradi di giudizio.

Può sembrare un paradosso, ma il pluralismo giudiziario, con la sua “congenita” possibilità di esiti difformi, è segno di un sistema che funziona, attento alle sollecitazioni delle parti e capace di correggere i propri (eventuali) errori, purché non si oltrepassino limiti, come dire, fisiologici.

Vi è poi il problema dell’interpretazione della legge. Qui base del ragionamento è che il sistema legislativo non è qualcosa di perfetto, cristallino, definitivo; una realtà monolitica di cui è possibile un’unica lettura.

Infatti, e senza nessuna forzatura, c’è sempre spazio per l’interpretazione e quindi per un certo pluralismo decisionale. Va da sé che la necessità di mantenersi nei limiti della fisiologia si pone anche qui, ed è anzi più intensa, perché quando si tratta di legge, con la possibilità di più interpretazioni della stessa, si rischia di sconfinare nella disparità di trattamento fra cittadini, il che è socialmente inaccettabile.

Interpretazione  della legge significa individuare la norma applicabile e adattarla al caso concreto così come è stato ricostruito. Molti pensano che se la legge è uguale per tutti, una volta scritta non può né dovrebbe portare a risultati diversi da caso a caso. Il giudice, si sostiene, deve essere semplicemente “bocca della legge”: perché la legge, uguale per tutti, si applica, non si interpreta!

Un esempio chiarificatore

La realtà però è diversa, e un esempio potrà chiarirci le idee.

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in Italia, come nel resto del mondo, c’è stato un imponente movimento di protesta che ha interessato soprattutto i giovani, mossi dal proposito di cambiare la situazione politica, sociale e culturale liberandola dall’immobilismo e dalle scorie del passato.

Il movimento investì anche le scuole e le università, molte delle quali vennero occupate dagli studenti. Ci fu una pioggia di denunce da parte dei presidi o delle autorità preposte all’ordine pubblico. La norma applicabile era l’art. 633 del codice penale, che punisce chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati. Una norma semplice e di uso corrente: quali problemi di interpretazione potevano mai esserci? Invece di problemi ce furono, eccome.

“Altrui” significa che la scuola non è degli studenti? “Arbitrariamente” significa che nei locali scolastici possono svolgersi soltanto attività didattiche “tradizionali” e che ogni altra attività deve avere il permesso dei presidi? Oppure, la scuola è cosa anche degli studenti e quindi non altrui? E la condotta degli studenti può ancora dirsi arbitraria, se attuata per problemi che riguardano la scuola, come il diritto allo studio per tutti, la modernizzazione dei piani di studio, l’ammontare delle tasse scolastiche eccetera?

Sta di fatto che la magistratura italiana si spaccò in due come una mela circa il modo corretto di interpretare i termini “altrui” o “arbitrariamente”.

E non era di certo una disputa fra “azzeccagarbugli” rinchiusi in un loro mondo di formule astratte, tutt’altro. Le conseguenze dell’una o dell’altra interpretazione erano assai concrete e potevano avere un peso decisivo sul futuro delle persone, perché secondo un’interpretazione il fatto non costituiva reato, con esclusione di ogni procedibilità; secondo un’altra, invece, il fatto era punibile con tutto il “corredo” di strascichi delle pene inflitte.

Il giudice non può essere “bocca della legge”

Dunque il giudice non può essere “bocca della legge”, se la stessa legge parla linguaggi diversi; e l’interpretazione è l’essenza essa, il DNA della giustizia.

In Cina (per la precisione a Shanghai) si sono inventati il PM robot aprendo ad un impiego generalizzato dell’intelligenza artificiale anche nel campo della giustizia. L’obiettivo è di assicurare l’unificazione/centralizzazione delle linee giurisprudenziali. Una prospettiva che può andar bene per il sistema cinese, basato sulla unicità assoluta dei poteri dello stato.

Ma non altrettanto bene per i sistemi di democrazia occidentale, dove l’obbligo di decidere secondo algoritmi prestabiliti si risolverebbe nella intollerabile interferenza di un potere sugli altri, con violazione dell’indipendenza del singolo magistrato e contestuale cancellazione di ogni spazio per il contraddittorio e per i diritti della difesa, anche al netto del preliminare  e decisivo quesito su “chi” e “come” debba elaborare gli algoritmi vincolanti. Semmai l’intelligenza artificiale può essere utilmente applicata nel perimetro dei  lavori di cancelleria, ma non oltre.

In ogni caso, va sottolineato che le polemiche di alcuni politici contro la magistratura sono spesso strumentali in quanto ispirate ai parametri dell’utilità e della convenienza per sé o per la propria cordata, non a quelli della correttezza e del rigore nell’esercizio della giurisdizione in base al sistema vigente. Come se fosse tutt’ora imperante in alcuni ambiti politici una logica perversa presente – un tempo e forse ancora oggi – persino in certi  ambienti giudiziari.

Come ha ricordato Raffaele Guariniello (magistrato benemerito per la tutela di valori di primario interesse comune come la sicurezza e la salute) in un recente intervento pubblico, dove ha rievocato un episodio del 1971 capitatogli nel bel mezzo di un’inchiesta relativa ad imputati torinesi eccellenti: “Come mi era stato richiesto, andai nell’ufficio del Procuratore della Repubblica; oltre a dirmi che l’avevo fatta grossa, mi  disse che ognuno di noi magistrati ha una specie di sacchetto nel quale si vanno a mettere le pietre bianche e quelle nere. Le cose buone, e le cose cattive». E aggiunse: “quando arriverà il momento, ad esempio un concorso per il posto di capo di un ufficio giudiziario, si conteranno quante sono le pietre di ciascun colore”.

Ecco: la nostra costituzione democratica ha regalato al Paese un grande principio, l’autonomia della magistratura dal potere politico.

Eppure, sembra che certa politica non riesca a liberarsi dalla tentazione di “ammonire” i magistrati che le pietre, per loro bianche secondo scienza e coscienza,  prima o poi possono  essere giudicate nere da chi può e conta.

* Fonte: Rocca n°03 – 1 febbraio 2022

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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Giustizia. Politica. Cultura. La corruzione delle parole

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