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Dopo la riforma Cartabia servono norme severe anche sul rapporto tra politica e lobby

Davide Mattiello il . Corruzione, Criminalità, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

La riforma Cartabia è dura con i magistrati che scelgono la politica, bene, ma ora bisogna esserlo altrettanto con i politici che scelgono le lobby, altrimenti sarà fondato il sospetto che sia stata una rivalsa sul potere giudiziario e non un passo avanti per la democrazia.

Ricapitolando: tutti d’accordo nell’impedire definitivamente al magistrato che venga eletto o che venga nominato ad incarichi governativi di tornare ad esercitare la funzione giurisdizionale. Una disciplina di rigore che a ben pensare ha l’obiettivo di rassicurare il cittadino sulla imparzialità con la quale viene amministrata una funzione così delicata come quella giurisdizionale. Nessun cittadino cioè deve temere che il giudice possa far pesare la propria sensibilità politica o le proprie ambizioni politiche nell’esercizio della sua funzione.

Ed è sicuramente un obiettivo importante per la qualità della democrazia quello di fare in modo che il cittadino possa fidarsi di chi svolge incarichi pubblici. La democrazia è fondata sulla fiducia molto più di quanto si è soliti immaginare.

È stato detto da diversi commentatori che queste norme della riforma Cartabia aiuteranno la magistratura a ricostruire la propria reputazione sociale, assumendo con ciò che questa sia stata incrinata dai più recenti fatti di cronaca, riassunti nel famigerato “Sistema Palamara”.

Ma è proprio a questo punto che bisognerebbe allargare il campo di osservazione: sono sicuri che a essere incrinato sia soltanto il rapporto fiduciario tra magistratura e cittadini e non anche quello tra politici e cittadini? Il Sistema Palamara non aveva tra i propri protagonisti anche politici di primo piano? E più generalmente: se ci si vuole cimentare nello sforzo di moralizzare la sfera pubblica a suon di norme, non sarebbe il caso di guardare anche ad altre situazioni che minano la sua credibilità?

Mutatis mutandis, per il politico, che sia parlamentare o governativo, il rapporto che deve essere messo sotto i riflettori è quello con le lobby economico-finanziarie. Secondo l’articolo 67 della Costituzione il parlamentare rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato; mentre chi assume incarichi di Governo giura nelle mani del Presidente della Repubblica fedeltà alla Costituzione. In un caso come nell’altro il bene che si vuole tutelare è ancora una volta la fiducia che il cittadino deve poter riporre nel politico, il quale per quanto interpreti punti di vista legittimamente particolari nell’esercitare il proprio ruolo, mai e poi mai arriverà a fare mercato con esso, accettando di essere il tramite di volontà potenti in cambio di benefici personali, comunque intesi, e mai arriverà a mettere queste volontà al di sopra e contro l’interesse generale, che dovrebbe rappresentare il confine deontologico dell’attività di qualunque politico.

Ed è proprio per arginare questo pericolo che sicuramente rischia di minare la reputazione sociale della classe politica: da anni in Italia, con esiti molto altalenanti, si cercano di approvare norme sul conflitto tra interessi e norme sulla trasparenza dei rapporti con le lobby. È consegnato alla storia il fallimento del primo tentativo: per esempio il conflitto di interessi tra potere mediatico e potere politico è stato risolto, confondendoli senza ritegno.

Non migliore il bilancio sul secondo fronte: nel 2017 la Camera dei Deputati ha approvato un regolamento interno che avrebbe dovuto mappare la rete di relazioni tra deputati e lobbisti. Un buco nell’acqua: senza previsione di obblighi e sanzioni, lasciato al buon cuore degli uni e degli altri. Il Senato invece, per evitare di sbagliare, non ha fatto niente(!). A gennaio del 2022 la Camera ha licenziato un testo di legge, che per la prima volta affronta la materia prevedendo che lobbisti e politici debbano tenere una agenda pubblica dei propri incontri e che i politici a fine mandato non possano mettersi a servizio delle medesime lobby con le quali avevano rapporti in precedenza.

Questo testo, ora all’attenzione del Senato, è stato fortemente criticato (per esempio da The Good Lobby), perché già annacquato rispetto ai punti di partenza: basti pensare che resterebbero esclusi dal “tracciamento” tutti i rappresentanti sindacali e confindustriali e che il periodo di “raffreddamento” prima di potersi fare assumere da qualcuna di queste lobby sarebbe soltanto di un anno e soltanto per i governativi, zero per i parlamentari. Insomma: nel rapporto tra politica e lobby le porte continuerebbero a girare vorticosamente su perni molto ben oliati.

E sia chiaro: tutti i comportamenti a cui si riferisce questa riflessione, quindi tanto il rapporto tra magistratura e politica quanto il rapporto tra politica e lobby, appartengono alla sfera del lecito e discriminano tra opportuno e inopportuno, tra benefico o pericoloso per la qualità democratica. Tutti questi comportamenti cioè prescindono da quelli che per gravità meritano una sanzione penale, configurando il reato di vera e propria corruzione o di traffico di influenze illecite, per dire.

Sarebbe dunque importante che Governo e Parlamento, approvando la riforma Cartabia, non perdessero l’occasione di approvare norme altrettanto chiare e severe sul rapporto tra politica e lobby: soltanto così daranno buona prova di voler salvaguardare la qualità della democrazia e non di approfittare delle difficoltà oggettive di un potere dello Stato per ridurne la proiezione repubblicana.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello, 19/02/2022

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