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Matteo Scanni, l’amore per i reportage al servizio degli studenti

Laura Silvia Battaglia * il . Giovani, Informazione, Memoria, Politica, Società

È mancato all’età di 51 anni Matteo Scanni, direttore testate e coordinatore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica. Giornalista appassionato della verità, per tre volte vincitore del Premio Alpi, era tra i fondatori dei “Dig Awards” dedicati al giornalismo investigativo italiano. I funerali avranno luogo domani sabato 29 gennaio, alle ore 11.00, presso la Chiesa San Pietro in Sala, piazza Wagner – Milano


Quando si faceva calma piatta, gli studenti giù nell’aula di dizione a giacolare vocali aperte e chiuse con Annalola nel tardo pomeriggio, puntuale come una fucilata arrivava la sua domanda retorica: «Un po’ di musica?».

Io annuivo con la testa, che tanto sapevo già cosa significasse: Nick Cave and the Bad Seeds. Il punk partiva a un certo volume e lui iniziava il suo viaggio mentale: era il modo migliore per trovare ispirazione o stare concentrato, tirando linee precise sui fogli, arricchendole della sua scrittura minuziosa ma rarefatta, sui pezzi consegnati a mano dagli allievi al mattino. Sapeva che se lo poteva permettere: tra nati negli anni Settanta e cresciuti a omogeneizzati e “Rock the Casbah” c’è comprensione.

E sapeva che non avrebbe incontrato resistenza in una ex musicista come me. Montare video su un ritmo scelto, preciso, era una delle cose che ci accomunava e sulla quale ci siamo ritrovati, io allieva, lui maestro. Ed è una delle cose che più tra noi ricordano come una sua fissazione, una cifra della circolarità del sapere che lo caratterizzava, dove non esistevano i compartimenti stagni. «Esistono solo per i mediocri, quelli senza sangue nelle vene, senza curiosità», diceva.

Parlava poco, Matteo, ma quando parlava arrivava dritto e senza infingimenti. Lo faceva con tutti: allievi, ex allievi, docenti, direttori, familiari, con amici e nemici. Con deboli e potenti, soprattutto con i potenti. Se sapevi entrare nella sua psicologia e leggere il profondo senso di giustizia e di ricerca del perché delle cose sotto quella scorza di spine, trovavi il frutto del fico d’India: la dolcezza della comprensione, il gusto dell’ascolto, la succosità di un pensiero innervato di connessioni, e qualche asprezza improvvisa, qualche scatto d’ira che nasceva dall’indignazione nei confronti di un mondo e di uomini senza qualità.

Non gli piacevano le cose fatte tanto per farle: la qualità, il massimo della qualità era il suo mantra. Dentro questa qualità, c’era posto solo per l’eccellenza, verso la quale si spingeva con tutto se stesso, forzando l’asticella del suo corpo, delle ore di sonno e di veglia, perché la mente viaggiava sempre oltre e noi sempre ad arrancargli dietro per inseguirlo.

Tra i primi in Italia, aveva compreso che il lavoro del giornalista di staff può essere molto frustrante e poco libero, specie per caratteri spigolosi, poco inclini a ricevere il comando: per questo, dopo un certo periodo di prova, non aveva mai ceduto a essere un dipendente di un’azienda editoriale. Tra i primi freelance italiani a sostenersi con un lavoro diversificato, tra scrittura e videogiornalismo, vincendo tre volte il premio Alpi, e con noi e il regista Armando Trivellini il premio Siani, aveva modellato anche il suo progetto didattico in Cattolica su questo.

Matteo Scanni credeva in un giornalismo con la schiena dritta, ma non per riempirsi la bocca di belle parole: sapeva quanto era duro perché aveva scelto di essere un battitore libero, e non perdeva occasione per ricordare a noi allievi, ex allievi e colleghi che questa strada, lastricata di buone intenzioni, poteva essere una via crucis da affrontare solo con dedizione e con una missione chiara e concreta.

Non gli piaceva un certo modo di trasformare il giornalismo in un volano per personalità narcisistiche e solitarie, non gli piaceva un giornalismo che guardasse solo l’ombelico italico e nazionale: invece, sfornava sempre nuovi progetti nei quali coinvolgeva quelli di cui aveva più stima, di cui si fidava maggiormente, creando team attivi e propositivi.

Così è nato, dalle ceneri del premio Alpi, il “Dig Festival”, il primo premio di giornalismo investigativo italiano, di cui era presidente, oggi con sede a Modena e la condirezione di Alberto Nerazzini. Un premio che ha una reale giuria internazionale, formata dai più importanti producer dei broadcasters mondiali, dalla Bbc ad Al Jazeera. Il Dig è il primo concorso giornalistico italiano che ha utilizzato la formula della produzione d’inchieste di ampio respiro come premio per i vincitori, e non con un contentino da poche migliaia di euro.

Dalla sua passione per la tecnologia e per il mondo della carta stampata è nata Maize, una rivista di altissima qualità grafica, collegata al progetto dell’hub per nuove tecnologie – di cui era incredibilmente appassionato – H-Farm. «Una rivista che è nata nella mia stanzetta – usava dire – e che ha avuto attenzione negli Stati Uniti: da non crederci».

Qui c’è l’ultimo lascito di Matteo: il ritorno alla filosofia, materia nella quale si era laureato, e alle domande fondanti dell’esistenza, di ogni esistenza: chi siamo, dove andiamo, come andiamo e perché.

Il giornalismo, visto da qui, è solo una delle risposte, e anche la meno punk di tutte.

* Tutor della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica ed ex allieva

Fonte: Secondo Tempo, Cattolica News

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