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L’unica che dura è la storia che si racconta. E può bastare il vecchio presepe di famiglia

Nando dalla Chiesa il . Cultura, Giovani, Memoria, Società

È uno spettacolo, giuro. Quando nei giorni belli (ce ne sono anche in Lombardia) il sole arriva obliquo di fronte alla finestra del soggiorno e inonda il camino, si crea un’atmosfera di magia.

L’orario in questa stagione è tra le due e mezzo e le tre del pomeriggio, e il camino non è vuoto. È invece il principale teatro del mio presepe. Lì il sole irrompe come luce di scena sul palco e illumina con potenza rivelatrice la grotta, la pecorella nera e la suonatrice di violino.

Capisco l’obiezione: il presepe ancora verso fine gennaio? Ma non hai ancora riavvolto tutto negli scatoloni da portare in cantina o in solaio? Ebbene no. Non l’ho fatto e credo che non lo farò ancora per settimane. Non è forse questa l’epoca del fuori stagione? In cui trovi a dicembre le fragole e a gennaio i carciofi? E perché allora una casa non dovrebbe ospitare un presepe per tutto il tempo che vuole dopo le feste di Natale?

Anche perché in quel presepe – giuro di nuovo – c’è un pezzo di storia e la storia non ha stagioni. C’è quella della mia famiglia, generazioni di statuine, il vecchio pellegrino con le mani incrociate in avanti, sulle soglie della grotta, coperto dal suo saio marrone, con cui feci conoscenza sessantasette anni fa, quando per la prima volta ammirai con qualche consapevolezza il prodigio allestito da mio padre. Anche allora dentro un camino totalmente inattivo, se non per ospitare una volta l’anno lo spettacolo della Natività.

Alcune statuine sono ancora avvolte in giornali d’epoca, il Vietnam e la pubblicità del Cynar. Molte di loro hanno recitato nelle mie scenografie più creative: gli uomini di buona volontà contro il consumismo, le guerre, la violenza mafiosa. Si sono unite incontrandosi da tutto il mondo, dalla Polonia al Portogallo, dal Tibet al Perù, dalla Spagna al Messico. Alcune, un pomeriggio dell’84, mi sentirono esclamare inginocchiato accanto a loro, dopo la notizia di una strage su un treno, “è stata la mafia”. E sentirono un mio amico rispondermi sfottente: “tu vedi mafia dappertutto”.

Non volevo allestirlo, quest’anno, il presepio. Perché le famiglie cambiano e non sono fatte sempre allo stesso modo, ci sono gli arrivi e ci sono le partenze. Poi qualcuno mi ha convinto: “fallo per i nipotini, se vengono a casa devono trovarlo”. E così è stato.

I nipotini: felici, è vero, ci hanno messo la loro dose di farina, l’ebbrezza di onnipotenza nel far piovere dall’alto. Ma poi ho capito. L’ho fatto per loro ma l’ho fatto soprattutto per me. Per farmi accompagnare dalla mia storia, per poterla rivedere e raccontare, statuina per statuina, ai ricercatori/ricercatrici e agli studenti/studentesse che vengono a trovarmi.

Questa casetta l’ha fatta mio padre con una scatola di scarpe, queste statuine le ho prese con mia moglie durante un viaggio in Danimarca, queste me le ha regalate un insegnante che scrive sul “Fatto”, questa l’ha fatta apposta per me un ceramista di Sciacca alla fine degli anni settanta, fu il mio primo dibattito con Umberto Santino.

Loro ascoltano, sgranano gli occhi, qualcuno fotografa. Quando resto solo, quel grande movimento di statuine continua a farmi compagnia, lucine accese o sole che inonda il camino. Flusso di storia che si interfaccia nella sua serena nobiltà con il più grande flusso della storia in cui sono immerso. Più grande, ma non per questo più carico di significati.

Un paese, il cuore dell’epica celebrata dal camino, decide il suo futuro scoprendo per l’ennesima volta non la propria laicità (poiché laico è anche il sottoscritto) ma il suo paganesimo mai domo. Gli idoli inseguiti e venerati, con i sacerdoti che si fanno spesso mercanti nel tempio, e il mercato che si apparecchia all’esterno. Per questo mi tengo con cura il mio camino.

Perché l’unica storia che dura è quella che viene raccontata. E la lotta è anche lotta di racconti.

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 24/01/2022

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