Giornalismo, stop alle querele strumentali
La querela per diffamazione e le richieste di risarcimento danni sono oggi uno degli strumenti alle quali anche la criminalità organizzata ricorre per mettere a tacere giornalisti irrequieti e testate scomode, soprattutto al sud del nostro paese. Questa è una delle conclusioni emerse dal dibattito che si è tenuto sabato 30 gennaio 2010 a Milano, presso il Circolo della Stampa, all’interno di una interessante tavola rotonda con la partecipazione dei giornalisti Milena Gabanelli e Gianni Barbacetto, dell’avvocato Caterina Malavenda e del procuratore aggiunto della Repubblica di Milano Alberto Nobili.
Di fronte ad un folto e interessato pubblico, si è quindi discusso dell’utilizzo strumentale che sempre più viene fatto nel nostro paese delle querele per diffamazione e delle richieste di risarcimento che inducono testate ed editori a più miti propositi. Tutto questo ha profondi influssi sulle modalità con le quali viene esercitato il diritto d’informazione nel nostro paese e finanche sulla stessa libertà di stampa. La tavola rotonda in questione fa parte di un ciclo di incontri sulla presenza della criminalità mafiosa nel Nord ed è stata organizzata dall’Associazione Culturale Balrog, in collaborazione con virgolaz.it, milanomafia.com e Susp-Student’s Union Scienze Politiche. Il tentativo dell’incontro è stato quello di portare la questione fuori dal ristretto circolo di addetti ai lavori e viste le presenze sembra sia stato raggiunto lo scopo dei promotori. Dai racconti di Gabanelli e Barbacetto è emerso un ricco vissuto di situazioni, all’interno delle quali spesso le minacce più pesante al diritto di informare è venuto proprio dal timore del risarcimento anni, in caso di riconoscimento in sede civile della diffamazione.
Proprio il gruppo giornalistico coordinato da Milena Gabanelli aveva sollevato con forza la questione. Era settembre 2009 e durante la discussione sui nuovi palinsesti della Rai, alcuni quotidiani avanzarono l’ipotesi che potesse saltare la copertura dell’ufficio legale per Report. Ipotesi poi rientrata, anche se sussiste tuttora la possibilità che l’assistenza non venga data, in quanto la redazione di Report è composta da un team esterno alla Rai.
L’esperienza dell’avvocato Malavenda, che si è trovata moltissime volte a difendere le ragioni di giornalisti e testate nelle aule dei tribunali italiani, ha apportato ulteriori spunti di discussione. I presenti hanno ragionato sulla reale possibilità che nell’ordinamento italiano possa venire introdotto una sanzione più efficace della cosiddetta azione temeraria, vale a dire la citazione in giudizio priva di fondamento, avanzata con dolo o colpa grave.
Tutti hanno convenuto sul fatto che le recenti modifiche all’art.96 del Codice di procedura civile, in tema di responsabilità aggravata, introdotte con la legge 18 giugno 2009, n. 69, non consentano ancora una tutela sufficiente. Oggi l’art. 96 prevede che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”. Al secondo comma, inoltre si dispone che “il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza”. Infine, nel terzo comma dell’articolato si parla di “somma equitativamente determinata” e ciò nei fatti si traduce in sanzioni dall’importo irrisorio.
Servirebbe quindi qualcosa di più forte, uno strumento di presidio della libertà di stampa che evitasse le azioni temerarie che raggiungono comunque quasi sempre il loro scopo: intimidire i giornalisti e farli recedere da inchieste scomode. Tutto ciò a fronte delle richieste milionarie avanzate in sede di querela per diffamazione, il cui primo effetto consiste nella preoccupazione di editori e amministratori di accantonare somme ingenti percentualmente riferiti alla richiesta di risarcimento, in previsione della perdita delle cause e di affrontare spese ingenti per resistere in giudizio. Solo le spese legali per sostenere i propri diritti in giudizio, anche quando si ha manifestamente ragione, costituiscono tuttavia un deterrente efficace; si preferisce lasciare perdere, per risparmiare tempo e denaro.
Così non vengono pubblicate notizie che dovrebbero essere diffuse e questo a prescindere dal fatto che sia integrata la fattispecie della diffamazione. L’avvocato Malavenda ha ricordato i casi di alcuni giornalisti, senza citarne il nome per ovvie ragioni di privacy, che di fronte al ripetersi di querele nei loro confronti, sono stati spostati ad altri incarichi e settori, in via cautelativa da parte dell’editore. Si comprende quindi anche l’allarme di Alberto Nobili, magistrato di lungo corso ed esperto di ‘ndrangheta al nord, secondo il quale oggi la criminalità organizzata di stampo mafioso non ha più interesse a sopprimere fisicamente voci scomode, come in passato ha fatto con Francese, De Mauro, Fava, Impastato e altri. Piuttosto si sceglie oggi la strategia della querela per diffamazione. Più rapida ed efficace di un proiettile, verrebbe da dire.
Così la querela per diffamazione, da strumento processuale nato per tutelare il buon nome dei cittadini onesti, finisce per trasformarsi in congegno atto ad offendere la libertà di stampa. Esempi di cause per diffamazione attivate da altri soggetti sono stati ricordati nel corso della tavola rotonda, perché riguardano molti potenti del nostro paese, in primis il presidente del consiglio in carica. In ultimo si è discusso anche della soluzione data al problema in altri ordinamenti: nel sistema anglosassone, vista la rilevanza del diritto all’informazione, il giudice, in caso di lite temeraria, può tutelare la libertà di stampa, arrivando a liquidare come risarcimento una somma parti al doppio di chi ha agito con dolo o colpa grave, nel caso sia riconosciuta l’insussistenza delle sue ragioni.
Una battaglia in difesa della libera stampa che deve riprendere e che vedrà anche Libera Informazione fare la sua parte, come da impegni presi in esito alla seconda edizione di Contromafie, gli stati generali dell’antimafia promossi da Libera. Da qualche mese, infatti, è partito un tavolo di lavoro che vede Libera Informazione insieme ad Articolo 21 e Ossigeno, con il coinvolgimento della Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dell’Ordine dei Giornalisti, ragionare proprio sullo sviluppo di forme di assistenza legale contro le richieste di indennizzo civile: si pensa, secondo quanto recita il manifesto di Contromafie a “forme di equiparazione legislativa fra i diritti di chi querela e i diritti di chi è attaccato, anche sotto il profilo dell’eventuale indennizzo nei confronti del giornalista che è stato querelato”.
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