Il Museo della ’ndrangheta e le false accuse sul denaro pubblico. Com’è stato possibile?
E ora guardiamoci in faccia, noi che parteggiamo seriamente per l’antimafia. Non per finta o ragioni di immagine, ma seriamente.
E chiediamoci che cosa dovrebbe fare secondo noi una associazione antimafia degna di questo nome. Soprattutto se per caso o grazie a norme favorevoli potesse contare su un minimo di risorse economiche. Ci piacerebbe se presentasse i libri di qualche politico o magistrato famoso per il suo impegno contro i clan? Se ricordasse in una scuola la storia degli eroi della lotta alla mafia, magari corredata della testimonianza di qualche loro attuale epigono?
Certo, ci piacerebbe. Sentiremmo forse il rischio della retorica, ma ci piacerebbe.
E che diremmo di un’associazione antimafia che presentasse un dossier sulla presenza e sui misfatti delle organizzazioni mafiose nella propria provincia? Diremmo che compie il suo dovere.
Dopodiché facciamo la prova del nove.
Che direste di una associazione anti-‘ndrangheta che decidesse di adottare la formidabile tecnica della memoria dell’Olocausto e di posare davanti al tribunale di Reggio Calabria delle pietre d’inciampo per ricordare “chi si è battuto contro la ‘ndrangheta”? Rivendicando così, simbolicamente, un bisogno di giustizia e di memoria? Non so voi. Io, come fecero allora molte autorità, ne direi tutto il bene possibile. Direi che è una fortuna che ci siano associazioni capaci di questa creatività nella costruzione di una memoria collettiva.
Oppure che cosa direste di una associazione anti-‘ndrangheta che non lasciasse nella solitudine un imprenditore vittima di un attentato con kalashnikov, ma affittasse un pullman per portare a Gioia Tauro i giovani intenzionati a presenziare alla manifestazione a suo sostegno? Non si è forse visto a Milano al processo Lea Garofalo il ruolo decisivo avuto da studentesse e studenti nel sostenere la figlia della vittima nella sua domanda di giustizia?
Direi, sempre io, che queste forme di antimafia sono assai più concrete della presentazione (sempre utile, per carità) di libri sulla mafia. E che bisognerebbe ringraziare le associazioni che se ne facciano carico, toccando così il cuore dei rapporti di potere sul territorio. Aggiungo anche che se una di queste associazioni ricevesse dei fondi pubblici, io penserei che finanziando queste attività ne farebbe ottimo uso.
Ebbene, è quello che ha fatto il “Museo della ‘ndrangheta”, associazione di Reggio Calabria, in anni a cavallo del 2010. Associazione che però ha dovuto difendersi in tribunale fino all’altro giorno dall’accusa di avere dilapidato i fondi ricevuti in attività (queste…) non “coerenti” con le proprie finalità.
E perciò, come si dice, voglio qui fare outing. Quando nel 2015 la notizia di questi “sperperi” venne data in pompa magna, e sinergicamente, da magistrati e giornalisti, pensai che il mondo dell’antimafia dovrebbe tenersi alla larga da certi personaggi (l’imputato numero uno era il presidente del “Museo” Claudio La Camera, che nella vicenda ha pagato un prezzo morale e professionale altissimo).
Ora, dopo avere letto negli atti che tra gli sperperi impropri, tra le attività truffaldine, c’erano quelle che vi ho indicato – e molte altre attività consimili – penso che qualcuno dovrebbe spiegarci come sia stato possibile. Non voglio la storia e le minuzie del processo.
Come esponente dell’antimafia sociale e civile vorrei capire perché quelle attività, benedette, efficaci, e certo molto sgradite alla ‘ndrangheta, siano state considerate da qualcuno abusive e spie di illegalità. Desidererei tesi chiare, senza digressioni su altro, così da sapere che cosa sia permesso fare a una associazione antimafia per essere considerata “coerente” con i suoi scopi in Calabria.
Credo sia arrivato il momento che qualcuno lo spieghi con precisione all’opinione pubblica nazionale. A noi che parteggiamo seriamente per l’antimafia.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 10/01/2022
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Uno strano scontrino. Siamo finiti a cena in un ristorante dove si paga “l’atmosfera”
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