La cura in tempi di pandemia
Questa mattina, un post di un amico che per anni è stato il mio medico di famiglia, mi ha fatto pensare a come il nostro sistema sanitario nazionale sia cambiato nel corso di questi decenni e a come la sanità territoriale sia stata nel tempo smantellata e depotenziata.
Con la mente sono tornato a quando ero ragazzo, al nostro primo medico di famiglia, poi a quello che è seguito fino ad arrivare a questo medico che è stato l’ultimo vero punto di riferimento per i miei genitori, per me, mia sorella e così per tante altre famiglie del territorio dove vivo.
Mi viene da riflettere che fino ai miei 30 anni di vita, il rapporto sanità pubblica/paziente aveva il suo punto centrale nel medico di famiglia. La cura di una persona nasceva da questo rapporto.
Sì certo, si stava in attesa per ore dal dottore, ma le visite erano accurate, approfondite, le telefonate non erano ad orari prefissati e in caso di necessità era sempre lui/lei ad accorrere. Anche con telefonate nel cuore della notte.
Difficilmente si andava a un pronto soccorso se prima non si passava da lui/lei. E comunque ci si fidava di lui/lei. Conosceva la tua storia personale, non aveva orari e sapeva come prenderti. Sapeva se eri troppo apprensivo, o se invece eri un superficiale nel gestire la tua malattia.
Il sistema sanitario aveva in questa figura il perno della sua azione e l’ospedale arrivava dopo la sua valutazione, il suo giudizio, la sua visita.
Oggi che ho più di 60 anni, posso dire che da almeno tre decenni invece tutte le politiche sanitarie si sono rivolte essenzialmente alle strutture ospedaliere, indebolendo tutte le altre parti della cura di una persona.
Si è pensato a costruire solo nuovi nosocomi, anche di vallata e territoriali, trascurando o mettendo in secondo piano altri luoghi e soprattutto concentrando il personale sanitario all’interno di ospedali e/o cliniche.
Il taglio dei fondi, la diminuzione di personale medico e infermieristico, concentrato essenzialmente negli ospedali, ha fatto diminuire i medici di famiglia e ampliare il numero di assistiti, depotenziare le strutture territoriali, dando un forte impulso alla sanità privata.
Soprattutto ha creato una generazione di medici che non crede più all’importanza del ruolo del dottore di famiglia.
La pandemia sta mettendo ancora più in risalto quanto la politica (di destra e di sinistra) ha compiuto di negativo sul fronte della sanità pubblica.
Il nostro sistema pubblico si è incentrato sull’economicità e su una concezione nel tempo diventata sempre più aziendale e meno di servizio alla persona (che si tratti di sanità, di istruzione, o di pubblica amministrazione poco importa).
A livello nazionale, regionale e locale si è “sposato” in pieno questa linea che ha messo la salute delle persone, la loro cultura, il loro grado di istruzione, in secondo piano rispetto all’aspetto economico. Più ospedali territoriali che racchiudono al suo interno anche altre strutture, e meno interventi nei singoli territori o presidi.
Basterebbe vedere anche a livello locale le tante battaglie fatte in qualunque area, per rafforzare quel reparto o quel dipartimento di un ospedale o di una clinica, e quante poche sono state invece le iniziative sul fronte della sanità territoriale, intesa come rafforzamento del ruolo del medico di famiglia o della guardia medica, dei presidi, relegando questi professionisti a una categoria minore nel mondo della sanità.
Ovvero si è creato un processo di sfiducia verso di loro, vedendo invece nel medico dell’ospedale l’unico punto di riferimento.
Una delle conseguenze di tutto ciò ha portato a far diventare molto spesso i nostri pronto soccorso, punti di accesso anche per malattie poco gravi.
Così ci troviamo con medici di famiglia che hanno numeri altissimi di persone da seguire, con una perdita della qualità del rapporto paziente/medico che delega quest’ultimo molto spesso a compiti più amministrativi che sanitari. Medici che non escono più o quasi dai loro ambulatori. Piccoli burocrati della salute…
Il fenomeno del tracciamento inesistente oggi sul covid19 è l’ultima dimostrazione pratica delle carenze del nostro sistema, con la necessità anche delle regioni di doversi rivolgere ad altre strutture private, financo alle farmacie per effettuare tamponi (naturalmente a pagamento), delegando di fatto al privato azioni proprie della sanità pubblica.
Così per incapacità della sanità nel territorio, si deve ricorrere a un forte aiuto del privato, mettendo a nudo tutti i limiti che decenni di tagli e visioni miopi del rapporto paziente/medico hanno provocato.
Ecco allora la rincorsa forsennata in queste ore di cosiddetta quarta ondata del virus, da parte di tutte le regioni per individuare nuove forme di tracciamento, dal tampone molecolare a quello rapido, per far inserire questi dati anche dalle farmacie private, fino all’ sms inviato a casa per decidere se si può uscire o meno.
Non c’è più la mediazione del medico di famiglia, relegato a un compito quasi pari allo zero, se si eccettua la fase dell’invio del certificato medico nei luoghi di lavoro, o la prescrizione di farmaci. D’altronde cosa deve fare se deve seguire centinaia e centinaia di assistiti? Poi magari ha anche da dedicare tempo alla libera professione….
Dunque la pandemia in questi due anni ha messo a nudo le nostre contradditorietà, e naturalmente, in una fase di emergenza che sembra non finire mai, siamo sempre a rincorrere novità che poi lasciano inalterate le nostre croniche inefficienze.
Chissà se prima o poi un governo, i partiti politici, si fermeranno a riflettere su questo sconquasso che sta sempre più privatizzando la nostra salute.
Lo stesso PNRR dedica quasi 20 miliardi di investimenti per la Salute entro il 2026, ma solo dopo aver definito ed attuato prima una riforma dei servizi sanitari di prossimità e definire strutture e standard per l’assistenza sul territorio.
C’è bisogno in primo luogo di tornare a considerare il Sistema Sanitario Nazionale e le strutture che lo compongono non come semplici aziende, ma come parte di un più ampio sistema di welfare comunitario.
C’è tanta strada da fare, se si pensa che oggi la nostra sanità è troppo spesso in mano alle case farmaceutiche, nella morsa dei privati, con finanziamenti alla ricerca pubblica sempre limitati.
Invece c’è bisogno di più Stato e di meno privato; il grido di dolore della nostra sanità appare chiaro a tutti.
È ancora vero che anche oggi possiamo dire che, nonostante tutto, abbiamo una sanità che permette a tutti di curarsi in un ospedale, anche se si è poveri e senza mezzi.
Ma è altrettanto vero che la cura inizia prima dell’ospedale, in un rapporto tra territorio e persone che oggi si è perso e che la pandemia ci sta facendo riscoprire come essenziale ed irrinunciabile.
Spetta alla politica il compito di costruire un nuovo Sistema Nazionale Sanitario dove la cura possa iniziare prima dell’ospedale, investendo in personale medico e infermieristico nei territori, riscoprendo anche il ruolo del medico di famiglia.
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