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Promesse e piani antimafia dopo la rivolta di Rosarno

Di Chiara Spagnolo il . Calabria

Dopo la rivolta arrivano le promesse. L’unico modo per tentare di narcotizzare le menti dei calabresi, ancora increduli che a Rosarno sia potuto accadere quello che è accaduto, ed evitare che la gente continui a porsi l’interrogativo più ovvio: “se tutti sapevano perché nessuno ha fatto nulla?”. Domanda logica quanto banale, a cui le istituzioni rispondono con un elenco infinito di proclami dal vago sapore elettorale. Il primo a cercare di nascondere dietro agli annunci le lacrime di coccodrillo per “la rivolta della Piana” è proprio il Governo. In dieci giorni il premier Silvio Berlusconi non ha ritenuto utile spendere una sola parola per commentare quanto accaduto nelle desolate campagne in fondo allo Stivale, lasciando ai suoi fedelissimi il compito di far sentire ai calabresi che, nonostante tutto, questa terra è ancora Italia.

“Lo Stato c’è” ha affermato il ministro Maroni, fin dal giorno successivo alla manifestazione degli immigrati. C’era, infatti, quel disgraziato 7 gennaio, con i caschi e i manganelli, per fermare gli immigrati ed evitare che le loro rimostranze sfociassero in violenze. C’era il giorno successivo, a contenere la furia dei rosarnesi, e quello dopo ancora, quando l’ex fabbrica della Rognetta è stata sgomberata e gli extracomunitari messi in fila e fatti salire sugli autobus e sui treni che li hanno portati lontani dalla Calabria. Lo Stato era nei mezzi che hanno buttato giù impietosamente i ricoveri che decine di stranieri avevano trasformato in casa, quando a colpi di demolitore hanno creduto di poter spazzare via la vergogna. “C’é poco da cantare vittoria”, ha commentato il ministro dell’Interno all’indomani degli sgomberi, il problema è ancora tutto da affrontare. Perché Rosarno non è un’indecenza solo calabrese e non è l’unico luogo in cui centinaia di immigrati irregolari forniscono manodopera a basso prezzo nelle aziende agricole, vivendo in condizioni di degrado assoluto. Sono tante le polveriere nostrane. Nella Sibaritide e nel Lametino, oppure in Puglia e in Campania. Tante piccole Rosarno, come bombe ad orologeria pronte ad esplodere. Le autorità vorrebbero disinnescarle prima che sia troppo tardi, o almeno così dicono. Vorrebbero imparare da quest’assurda lezione.

Annunciano provvedimenti in grande stile, addirittura un Consiglio dei ministri ad hoc, che dovrebbe tenersi in Calabria entro la fine di gennaio. A promettere, ancora una volta, non è stato Berlusconi, ma il rappresentante del Viminale, che ha parlato di un Piano antimafia da varare nell’apposita riunione dell’Esecutivo. In tempi di incandescente campagna elettorale, per il rinnovo dell’amministrazione regionale, tutto fa brodo. E l’approvazione del Piano in terra calabra sarà certamente un riuscito colpo di teatro. Stando ad alcune prime indiscrezioni trapelate dai palazzi del potere romani, il Piano prevederà, tra l’altro, la creazione – proprio a Reggio Calabria, in un immobile sottratto alla ‘ndrangheta – dell’Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata; l’istituzione del Codice Antimafia, una raccolta di tutte le leggi sulla criminalità organizzata approvate fino ad oggi; il potenziamento della Procura nazionale antimafia; la creazione di una mappa nazionale delle organizzazioni criminali; l’istituzionalizzazione di un sistema di informazione sui clan attraverso un desk interforze; la costruzione di gruppi provinciali con forze di polizia e istituti penitenziari per uno scambio periodico di notizie di interesse; la velocizzazione delle procedure per il rilascio del certificato antimafia; un nuovo impulso dalla Dia per l’aggressione dei beni.

Parole che dicono tutto e niente. Che potrebbero significare tutto e niente. Che forse servono soltanto a mettere altra carne al fuoco della propaganda di un Governo che dice di avere fatto più di tutti i predecessori per combattere le mafie. In Calabria, però, di tanti proclami nessuno vede i risultati. La ‘ndrangheta imperversa in ogni ambito, talmente arrogante e spudorata da essere arrivata a posizionare un ordigno davanti alla Procura generale di Reggio Calabria. Anche rispetto a tale episodio, le promesse si sprecano. Il ministro Angelino Alfano, che oggi sarà nella città dello Stretto, ha annunciato di aver firmato un provvedimento con cui dispone «l’invio di 2 nuove unità per la squadra di Pignatone e 2 per quella di Di Landro, nonché 2 presso il tribunale, dando anche mandato agli uffici di valutare la possibilità di mandare altri uomini negli uffici amministrativi». Anche in questo caso, tuttavia, la domanda sorge spontanea: la scopertura degli organici delle Procure e dei Tribunali calabresi è cosa nota da anni, rispetto alla quale i magistrati hanno lanciato ripetuti allarmi, perché finora non si è fatto nulla?

Interrogativi che lasciano il tempo che trovano. Sepolti dai sorrisi delle parate che fino all’inizio di febbraio contribuiranno a mantenere la Calabria sotto i riflettori dei media nazionali. Oggi è di scena il guardasigilli, domani tocca a Maroni, giovedì addirittura al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Poi ci sarà il Consiglio dei ministri, poi la visita della Commissione parlamentare antimafia. Le passerelle si sprecheranno. I provvedimenti anche, almeno all’inizio. I “fatti di Rosarno”, del resto, sono serviti al Governo per rilanciare il tema della legge Bossi-Fini e della necessità di una sua più stringente applicazione. In linea con il “Lega-pensiero” Maroni ha annunciato che bisognerà usare il pugno duro nel contrasto all’immigrazione clandestina, partendo proprio dalla verifica delle posizioni dei disgraziati coinvolti nella rivolta di Rosarno. Per quelli che sono stati condotti nei Centri di prima accoglienza di Bari e Crotone il destino appare segnato: per ora sono trattenuti in attesa di essere espulsi. La pietà umana avrà la meglio solo nei confronti dei pochi che sono rimasti vittime di violenze durante i disordini della Piana, per i quali verrà disposta una “protezione internazionale”. La sfortuna delle aggressioni, per loro, diventerà la fortuna di non venire rispediti nei Paesi di provenienza.

L’Italia continuerà ad accoglierli, ma, probabilmente, tra pochi giorni torneranno ad essere fantasmi nelle campagne. Diseredati nelle mani degli imprenditori agricoli italiani, che sfruttano la loro disperazione per offrire lavoro duro in cambio di pochi euro. Far cambiare un sistema collaudato e lucroso non è cosa semplice. Ed anche se il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha annunciato un giro di vite contro il lavoro sommerso e irregolare, anche in questo caso, è lecito avere qualche dubbio. Le condizioni in cui gli extracomunitari lavorano nelle campagne italiane, specialmente quelle del Sud Italia, sono note da decenni. In Puglia, di recente, qualcosa pare essere cambiato, la Calabria, invece, è all’anno zero dell’applicazione dei diritti ai raccoglitori stagionali. Sacconi ha promesso tolleranza zero contro gli sfruttatori. Lo zero ricorre. La speranza è che non compaia anche tra qualche mese, quando sarà il caso di tirare le somme dei risultati raggiunti dal Governo e dalle istituzioni locali nella concretizzazione di piani e strategie per il dopo-Rosarno.

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