L’Italia è un paese garantista: non c’è bisogno di altri bavagli
Paradossi. Il Consiglio dei Ministri rafforza la presunzione d’innocenza: non serviva.
Il C.d.M. ha approvato un decreto legislativo, sulla scia di una direttiva UE del /2016, per rafforzare la presunzione di innocenza. Ce n’era proprio bisogno? Forse /no. Siamo un paese fra i più garantisti al mondo: giusto processo con relativa presunzione di innocenza consacrati e garantiti fin dalla Carta costituzionale; tre gradi e oltre di giudizio che nessun altro sistema accusatorio si sogna; agli imputati il diritto di non rispondere e se rispondono quello di mentire impunemente; la prescrizione (alias improcedibilità) che cancella tutto consentendo a fior di “galantuomini” di sfangarla…
Ogni attività pubblica deve assoggettarsi ad un rigoroso controllo sociale circa la sua correttezza, coerenza e affidabilità. Più di tutte l’attività giudiziaria, perché si esercita “in nome del popolo italiano”. Può accadere che alcuni Pm “sbandino” nel fornire all’opinione pubblica elementi di valutazione del proprio lavoro. Checché se ne dica, succede di rado: anche i magistrati infatti praticano il self restraint. Ma non è un giusto rimedio alle disfunzioni mettere un bavaglio (o quasi) a magistrati e giornalisti, costringendoli a dosare ogni parola col bilancino del farmacista, con inevitabili ricadute negative sul loro lavoro.
Vladimiro Zagrebelsky ha parlato di “riforma irragionevole nella sua assolutezza e nella pretesa di limitare le forme di comunicazione… che va oltre la necessità di rispettare la presunzione di innocenza, investendo e limitando tutta la informazione sui procedimenti penali”. Di più. Se i Pm non parlano o possono parlare solo in casi eccezionali indossando una specie di camicia di forza, per giornali, radio e tv l’alternativa sarà chiudere i servizi di cronaca o trovare altre fonti, facendo suonare campane anche non trasparenti o interessate.
Mi viene in mente l’arresto di un tal Carnelutti (omonimo del grande giurista), emigrato dal Lodigiano a Torino per farsi operaio Fiat e così raccogliere dati per i “diari di fabbrica” delle Brigate rosse. Ero stato educato alla riservatezza “sabauda” che non prevedeva rapporti coi giornalisti (proverbiale il “correte correte, tanto non mi prenderete mai”, rivolto ai giornalisti dal procuratore Caccia uscendo dalla casa di Sossi appena “rilasciato” dalle Br).
Perciò, avvicinato da un cronista che mi chiedeva dell’arresto, rifiutai ogni informazione. Lui, seccato, se ne andò annunziandomi che avrebbe comunque pubblicato quel che aveva. Il giorno dopo ecco in bella evidenza un comunicato di sedicenti parenti del Carnelutti che mi accusavano di sequestro e torture! Fu da allora che Caccia ed io decidemmo di tenere delle regolari conferenze stampa, perché in tema di indagini di terrorismo non suonasse – stonando – soltanto una campana.
La logica necessità di più campane é ancor più evidente nel caso (esaminato da Mittone-Gianaria nel libro “L’avvocato necessario”) che l’indagato sia “molto più interessato a vedere soddisfatti i propri interessi che a vedere riconosciuti i propri diritti”, tanto da richiedere al legale non solo un impegno “tecnico” ma anche un aiuto per arginare ciò che può colpire la sua immagine nell’opinione pubblica. Una “committenza forte”, che contiene anche una forte richiesta di “aiuto” nei rapporti con l’informazione.
Dunque, si dica pure “basta con la spettacolarizzazione dei processi; gli indagati sono presunti innocenti e non debbono essere bollati come colpevoli”.
Ma è sbagliato non fare i conti anche con la realtà concreta: evitando forzature e strumentalizzazioni (magari per ansia di propaganda politica); nonché squilibri che ancora una volta si risolverebbero in privilegi per chi può e conta; andando ben oltre i confini del classico e logoro “ce lo chiede l’Europa”.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 09/11/2021
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