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Bilocale della mafia vendesi

Di Walter Molino (da Diario) il . Sicilia

Dicembre 2010. L’elegantissimo avvocato Tommaso Agenio, rappresentante legale di una società fiduciaria con sede in Belgio, specializzata nell’amministrazione anonima di capitali e quote azionarie dei propri clienti, sfoglia con cura Il Sole 24 Ore, mentre attende in silenzio che la cerimonia abbia inizio. Doppiopetto gessato, gemelli d’oro ai polsi e cravatta regimental sul bianchissimo colletto della camicia cifrata, siede composto nella stanza luminosa che si affaccia su piazza Marina, sede di Palermo dell’Agenzia del demanio. Tra poco prenderà il via il pubblico incanto per la vendita di un terreno di sei ettari nella fertilissima conca d’Oro, nei pressi di Ciaculli, in quello che un tempo era il regno di Michele Greco, il papa della mafia. L’asta è già andata deserta tre volte. Oggi, con un prezzo di partenza finalmente stracciato, l’avvocato Agenio è stato l’unico a presentarsi, e sta per aggiudicarsi uno dei 2.637 beni immobili confiscati alla criminalità organizzata nella provincia di Palermo. Grazie alle norme introdotte dalla legge Finanziaria dell’anno scorso, questi beni possono essere venduti all’asta se non sono stati assegnati entro 90 giorni dalla confisca. Una trovata geniale: sin da quando esiste la legge sul riutilizzo sociale della roba dei mafiosi (1996), le procedure di assegnazione durano anni: in 90 giorni non si raccolgono  manco le carte. E’ quasi Natale, c’è il sole e per l’avvocato Agenio è una bellissima giornata: la sua fiduciaria belga è un muro impenetrabile e l’autorità giudiziaria italiana non ha alcuna possibilità di ficcarci dentro il naso. A meno che qualche zelante magistrato non voglia addirittura aprire un’inchiesta, ben sapendo quali e quanti ostacoli frappone la legislazione di paesi come il Belgio, non a caso uno di quelli ancora nella “lista grigia” dell’Ocse. Ma poi, perché mai indagare su una società che agisce da sempre nella più perfetta legalità? E non dimentichiamo che le nuove regole sulla vendita dei beni confiscati destinano equamente il ricavato ai ministeri della giustizia e dell’interno: ci sarà davvero un giudice disposto a mettersi di traverso quando in ballo ci sono il potenziamento degli uffici giudiziari e la tutela della sicurezza pubblica? “Un avvocato con la borsa può rubare più di cento uomini con la rivoltella”, sentenziò don Vito Corleone. Sorride sereno l’avvocato Agenio, pensa ai suoi facoltosi clienti che già pregustano il ritorno a casa. E alla felice stravaganza di uno Stato che si fa finanziare dalla mafia per fare la lotta alla mafia.

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Potrebbe andare esattamente così. Ancora un anno o giù di lì e sarebbe finalmente esaudito l’ennesimo desiderio di un anziano viddano di Corleone, che per smetterla con le bombe all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso fece avere allo Stato italiano un papello con una serie di richieste precise. Tra queste, Totò Riina ci mise lo smantellamento della normativa sulle confische dei patrimoni mafiosi, una legge voluto da Pio La Torre che il Parlamento si affrettò ad approvare solo dopo l’omicidio del segretario del Pci siciliano nel 1982. Quattordici anni dopo, grazie alla raccolta di oltre un milione di firme promossa da Libera, fu emanata la legge 109 che disciplinava il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Un testo approvato da tutte le forze politiche. Oggi che i corleonesi mafiosi sono quasi tutti in carcere, è soprattutto grazie a quella legge che la città di Corleone è diventata il simbolo della riscossa civile contro la mafia. Lì sono nate le ormai celebri esperienze di Libera Terra e della cooperativa Placido Rizzotto, che dalle tenute sottratte alle cosche hanno fatto nascere prodotti agricoli e lavoro pulito. E simili storie di successo si registrano a Monreale, San Giuseppe Jato e in molte altre regioni italiane, non solo nel Sud.  

Anche se ogni volta l’indignazione generale l’ha ricacciata nell’angolo, l’idea di rimettere sul mercato i patrimoni immobiliari mafiosi fa capolino da anni. Mai si era giunti però a metterla nero su bianco, e non in un qualunque disegno di legge bensì nella legge Finanziaria dello Stato, che il governo ha peraltro blindato con il voto di fiducia. L’autore dell’emendamento incriminato, datato 13 novembre, si chiama Maurizio Saia (Pdl di estrazione An), promotore finanziario padovano, senatore da tre legislature, che si era fatto fin qui notare per essersi intestato battaglie cruciali come una legge più restrittiva contro l’uso industriale delle pelli di foca e il ripristino del reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Ma è il 14 ottobre scorso che il senatore Saia, nella colpevole indifferenza dai media, ha presentato come primo firmatario una proposta di legge di un solo articolo che, se approvata, è destinata a colmare un vuoto tanto grave quanto sconosciuto ai più: adottare per legge Fratelli d’Italia quale inno ufficiale della Nazione. Fu infatti un consiglio dei ministri nel 1946 a stabilire che la composizione (musica di Mameli, parole di Nogaro) fosse suonata per le cerimonie militari, rinviandone a un successivo decreto l’ufficializzazione quale inno nazionale. Poi, tra una cosa e l’altra, nei sessantatrè anni successivi quel decreto non ha più visto la luce. Di rimediare è giunta l’ora, scrive Saia nel suo ddl: “in anni di forte richiamo alla patria ed ai valori di identità nazionale l’inno nazionale diviene motivo di orgoglio per tutti i cittadini, scuote gli animi e suscita la commozione di coloro che lo recitano”.   

Nino Iannazzo è il sindaco di Corleone, tessera di An in tasca. La prende male quando gli chiediamo cosa ne pensa dello scherzetto che gli ha combinato il suo collega di partito. “Non sono iscritto e mai mi iscriverò al Popolo delle libertà”. Quando Iannazzo ha saputo dell’emendamento approvato in Senato gli è tornata in mente quella volta, era il 2005, che andò a suonare il campanello di una casa di Bernardo Provenzano. “Dopo anni di attesa ci era stato assegnato un appartamento confiscato al boss. Presi in mano le carte mi accorsi che in quella casa aveva eletto la sua residenza il fratello Simone. Chiesi spiegazioni all’amministratore giudiziario che fin dal 2000 era responsabile del bene. Mi suggerì di non darmi troppo da fare e di lasciare l’appartamento in affitto al fratello del capomafia. Lui aveva fatto così, senza neppure uno straccio di contratto. Nei cinque anni trascorsi dal sequestro alla confisca il fratello di Provenzano aveva continuato a vivere in quella casa. Da padrone. Così andai a bussare alla sua porta e gli spiegai che doveva andarsene”. Adesso in quelle stanze sta per essere inaugurato un Museo della legalità, gestito dalla cooperativa Lavoro e non solo. “Questo provvedimento ci proietta venti anni indietro nella lotta alla mafia e soprattutto individua nei sindaci un bersaglio facile per i mafiosi. Immaginate la pressione a cui saranno sottoposti gli amministratori locali che dovranno accettare o meno un bene confiscato: dicendo di si, il bene potrà essere messo a bando e utilizzato. Dicendo di no, sarà messo in vendita. Voi come ve lo immaginate il futuro?”. Eppure un motivo ci sarà per giustificare una scelta tanto gravida di conseguenze: “Fare cassa, questa è l’unica spiegazione. Ce ne sarebbe un’altra, ma preferisco non dirla”, conclude Iannazzo.

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“Quella piscina o ce la danno o ce l’andiamo a prendere”. La promessa è di Sauro Secone, sindaco di Quarto, comune a una ventina di chilometri da Napoli. Da quando si è iniziato a parlare di vendita dei beni confiscati la battaglia per la trasformazione dell’ex cementificio del clan Nuvoletta si è fatta più ardua e lui alla fine di novembre ha portato il paese in piazza a protestare. Un terreno di 15 mila metri dove negli anni ’80 si impastava il cemento per colonizzare abusivamente l’area flegreo-giuglianese. Confisc
ato negli anni ’90 e assegnato al consorzio Sole, lo spazio dovrebbe diventare un centro polisportivo gestito dalle cooperative sociali. Progetto da realizzare con 2,6 milioni di euro del Pon sicurezza che però non si sono ancora visti, e a Quarto cominciano a sentire puzza di bruciato. Anche perché in questi anni, mentre la burocrazia si ingolfava, il terreno di via Marmolito veniva utilizzato abusivamente come discarica di rifiuti tossici. Il comune ha già speso 600 mila euro per bonificarlo, ma adesso giace inutilizzato. In punta di diritto, una volta assegnato al comune il bene non può essere più venduto, neppure con le nuove norme, ma a Quarto non si fidano. “Dovevamo costruire una piscina olimpionica da cinquanta metri, poi abbiamo ridimensionato il progetto ed è diventata di trenta, ma ora temiamo di non vederla mai più. Sarebbe una vittoria per la camorra ed una sconfitta morale e concreta per tutti i cittadini”.  

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La condanna del provvedimento, che deve ancora passare il vaglio della Camera, è  pressoché unanime. Libera ha avviato una raccolta di firme, 180 amministrazioni locali  aderenti ad Avviso pubblico (di vari colori politici) stanno approvando altrettanti ordini del giorno contrari alle nuobe misure. Ed è sceso in campo anche l’ex segretario del Pd Walter Veltroni, con un’interrogazione  parlamentare che, oltre all’appoggio dell’Italia dei Valori, raccoglie adesioni di pezzi dell’Udc e di qualche bastian contrario del Pdl come Fabio Granata e Angela Napoli. Pochi ricordano però che la normativa attualmente in vigore prevede già la vendita dei beni mobili e delle aziende confiscate e, in casi estremi, perfino quella degli immobili. “La legge voluta da Pio La Torre dice chiaramente che i beni possono essere venduti per risarcire le vittime di mafia”, spiega Giovanna Maggiani Chelli, portavoce dell’associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili (la strage mafiosa di Firenze del maggio ’93 che fece 5 morti e 48 feriti). “La vendita dei beni confiscati alla mafia è una buona notizia. Ci sono organizzazioni che sulla gestione di questi patrimoni hanno fatto la loro fortuna. Adesso però è il momento di occuparsi di chi ha già maturato il diritto a un risarcimento e non lo ha ancora ottenuto perché il Fondo unico della giustizia è vuoto”. La presa di posizione dell’associazione fiorentina, sia pur (comprensibilmente) interessata, non è affatto l’unica voce fuori dal coro. Anzi, a guardar bene, è proprio dal cuore del fronte antimafia che arriva l’invito a usare sul tema un approccio meno dogmatico: vendere i beni confiscati, a certe condizioni, conviene. Ne è convinto per esempio Ignazio De Francisci, procuratore aggiunto della Dda di Palermo: “sostenere che i beni confiscati non debbano essere venduti è un atto di fede da smentire. Vero è che se si affidano a Libera o ad altre associazioni del genere terreni o masserie o attività vi si costruisce un sistema di economia legale e si dà lavoro, ma è anche vero che ci sono beni che non saranno mai utilizzabili. Un esempio? La metà indivisa di un appartamento, o una casa ipotecata, o altri beni gravati da una serie di lacci e lacciuoli. Venderli, per lo Stato, è l´unico modo di realizzare qualcosa”.  

Negli stessi giorni in cui a Roma il Senato approvava l’emendamento, a Bruxelles la Commissione Europea inseriva l’esperienza italiana sulla destinazione sociale dei beni confiscati tra le buone prassi comunitarie. Come dire, su una cosa almeno abbiamo fatto scuola. A presentare il caso italiano è stato chiamato Lucio Guarino, direttore del consorzio Sviluppo e legalità che gestisce i beni confiscati di otto comuni dell’Alto Belice corleonese, e anche lui invita alla calma e guardare agli effetti della nuova disciplina: “potrebbero essere meno peggiori del previsto se fosse indirizzata a risolvere il problema dei beni residuali, quelli di fatto inservibili”. Cosa fare, per esempio, di quella pietraia abbandonata in contrada Moletta, a Capaci? La confisca riguarda una porzione di 900 metri di un terreno grande mezzo ettaro, confiscato a un mafioso della cosca locale. “Questo pezzo di terra è abbandonata da anni, improduttivo e senza un collegamento con la strada. Oggettivamente non c’è alcuna utilità nell’acquisizione del bene, che è pure gravato da un’ipoteca di 600 mila euro”. Musica per le orecchie delle banche, a cui una giurisprudenza favorevole agli enti locali ha impedito in questi anni di esercitare il diritto di ipoteca sui beni confiscati destinati a uso sociale. Con la vendita degli immobili, la riscossione delle ipoteche tornerebbe ad essere garantita.  

La pietraia di Capaci non è un caso isolato: secondo i dati del Commissario straordinario del Governo, dei quasi 9 mila beni immobili confiscati sono 5.400 quelli destinati a uso sociale mentre oltre 3.200 sono ancora in carico al demanio. Come la stanza da pranzo di un appartamento della moglie di un mafioso di Acicatena (Catania). Co-proprietari con quote diverse, la parte del marito è stata confiscata, quella della moglie no. “Questo è un caso tipico in cui la vendita è l’unica soluzione ragionevole”, spiega Guarino. Ma anche uno di quelli in cui l’unico acquirente interessato sarebbe proprio il mafioso. Su questo il procuratore De Francisci sembra avere le idee chiare: “basta prevedere l´obbligo di dimostrare la provenienza legale del denaro con cui compra. Non importa chi lo compra, importa solo la provenienza dei soldi e, naturalmente, che questi beni non siano svenduti a prezzi fallimentari. Bisognerebbe prevedere una struttura amministrativa agile ed efficiente, nella quale magari prevedere anche un magistrato, che controlli la vendita. Lo Stato non è in grado di gestire tutti i cascami dei patrimoni dei mafiosi”.  

Il quadro, dunque, è più complesso di quanto appaia, pur essendo comprensibile la difficoltà di un approccio laico a una questione che riguarda metodi e fatti della lotta alla mafia. “Il messaggio politico è  devastante: la mafia si riprende i suoi beni”, taglia corto Pierpaolo Romani, portavoce di Avviso pubblico, che da anni si batte per l’istituzione di un’Agenzia nazionale per i beni confiscati, un soggetto unico con competenza esclusiva in materia e dotato di personalità giuridica e autonomia gestionale ed economica. “I tempi lunghi di assegnazione dei beni, oggi, dipendono dal fatto che i soggetti coinvolti sono troppi e poco competenti. L’Agenzia nazionale  potrebbe occuparsi del bene,  con personale qualificato, dal sequestro giudiziario alla destinazione finale. E lo Stato dovrebbe sostenere gli enti locali, assicurando lo sgombero dei beni prima della consegna”.  

Chissà  cosa succederà quando il provvedimento arriverà all’esame della Camera. Al momento l’unica certezza è che la norma sposta la competenza sui beni confiscati dal Prefetto a un funzionario locale del Demanio, quindi dal ministero degli Interni a quello dell’Economia, dalla dalla sicurezza al portafoglio. Il futuro ci dirà se siamo di fronte a uno sfacciato tentativo di favorire gli interessi delle mafie o a una discutibile trovata che con l’intento di fare cassa rischia di distruggere anni di lavoro per la riaffermazione dello Stato e per il riscatto civile di intere comunità. Per capire, potremmo chiedere aiuto all’avvocato Agenio. Peccato sia già presissimo con lo scudo fiscale. 

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