È partita la macchina referendaria “Cannabis Legale”.
Secondo fonti di stampa, la campagna referendaria ha raccolto 100.000 sottoscrizioni soltanto nelle prime 24 ore per poi superare, in pochi giorni, il numero di 600.000 firme, a ciò facilitata anche grazie all’ampia diffusione degli strumenti di firma da remoto (e rispetto al tema della democrazia diretta “digitale” cfr. Nello Rossi, “Tra Spid e derive plebiscitarie”, La Stampa 18 settembre 2021).
La grande risposta dei sottoscrittori è senz’altro indice che, nella sensibilità in materia di stupefacenti, un’ampia fetta dell’opinione pubblica (a cui la campagna è presentata come referendum per la cannabis legale) non associ alle droghe leggere, quantomeno alla cannabis, alcun disvalore, tale da meritare la persistente soggezione a pena.
Giustizia Insieme apre un momento di riflessione sulla proposta referendaria, muovendo dal quesito.
“Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza“, limitatamente alle seguenti parti:
Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”;
Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”;
Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni;”?”
In disparte ogni considerazione sulla proposta per quanto riguarda l’art. 75: il quesito ne propone un’abrogazione parziale, con esclusivo riferimento alla sanzione amministrativa più avvertita nell’esperienza comune, quella incidente sulla patente di guida, e questa sembra essere una soluzione opportuna onde far fronte alle obiezioni già rese dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 27 del 10 febbraio 1997, dichiarativa dell’inammissibilità di una precedente proposta referendaria in materia.
Soffermando l’attenzione sulla parte relativa all’art. 73, in primo luogo il quesito punta ad abrogare la condotta di coltivazione dal comma 1.
È noto che nei più recenti approdi giurisprudenziali, con riferimento alla coltivazione, in concreto ne è comunque esclusa la punibilità nei casi di inoffensività della condotta, quando la coltivazione sia trascurabile, sì da rendere irrilevante l’aumento di disponibilità della sostanza e non prospettabile alcun pericolo di sua diffusione.
Mentre la proposta viene presentata, all’opinione pubblica, come volta alla legalizzazione, ma meglio sarebbe dire a togliere dall’area dell’illecito la piccola coltivazione di cannabis, per uso personale, si può osservare che, invero, con riferimento a tale tipologia di coltivazione il quesito non sia particolarmente utile, trattandosi di coltivazione capace di sfuggire già oggi, in aderenza agli approdi giurisprudenziali sopra richiamati, dall’area del penalmente rilevante.
Per come il quesito è strutturato, piuttosto, la condotta di coltivazione perderebbe rilevanza penale tout court, ciò a prescindere dalle dimensioni della coltivazione e dalla sua offensività in concreto; ciò, inoltre, anche a prescindere dalla specie coltivata, è a dire non soltanto con riferimento alla cannabis, ma anche con riferimento ad ogni tipologia di sostanza stupefacente la cui produzione non sia il frutto esclusivo di una sintesi chimica, e questo, probabilmente, anche ben oltre le intenzioni dei promotori del referendum (o almeno le intenzioni come dichiarate).
Si pensi, ad esempio, a sostanze stupefacenti quali cocaina ed eroina; il complessivo ciclo di produzione ben può essere suddiviso in più segmenti, comprendendo tanto un segmento iniziale di coltivazione quanto un segmento successivo, distinto, di estrazione e/o raffinazione; in quest’ottica ne discenderebbe la liceità di una condotta che si sostanzi nella sola cura del segmento relativo alla coltivazione (salvo il necessario coordinamento interpretativo con l’art. 28 d.p.r. 309/90, che non è fatto oggetto della consultazione).
Suscita, se possibile, ancora più perplessità l’intervento prospettato in relazione al quarto comma dell’art. 73, è a dire l’abrogazione delle parole “la reclusione da due a 6 anni e”; infelice appare l’etichetta di “cannabis legale”.
Il quesito propone l’eliminazione della pena detentiva in relazione a qualunque condotta oggi illecita legata alla cannabis, senza operare alcun distinguo in ordine alla concreta offensività delle condotte (piccolo spaccio al dettaglio, grosso spaccio organizzato): limiti dello strumento referendario, potendosi difficilmente ipotizzare un quesito che, in relazione alla disposizione del quarto comma, possa prospettare l’abrogazione di talune condotte sì e di altre no. Il rischio, legato ai limiti dello strumento, è quello di dar vita non ad un mercato disciplinato, ma ad un mercato lasciato in mano alla criminalità.
La “depenalizzazione” di qualsivoglia condotta legata alle droghe leggere, senza distinguo sull’offensività delle condotte, intanto ha senso in quanto sia stata operata, a monte, una valutazione in ordine alla piena inoffensività dell’oggetto della condotta; operata una tale valutazione, tuttavia, appare contraddittoria, frutto di un compromesso al ribasso, l’idea di abrogare la sola pena detentiva, mantenendo comunque la previsione del fatto come reato, seppure punito con la sola pena pecuniaria. Senza considerare, inoltre, il necessario coordinamento interpretativo con il comma quinto, onde evitare il paradosso per cui una condotta riconducibile al quarto comma dell’art. 73, in ipotesi soggetta alla sola pena pecuniaria, ove di lieve entità debba essere più gravemente punita.
Da una parte si evidenziano quindi i limiti dello strumento, attraverso il quale è difficile operare interventi organici in una materia così articolata. Ma lo strumento ha anche in sé il pregio di avere evidenziato, già soltanto in questa prima fase della campagna, una forte sensibilità rispetto alla materia da parte dell’opinione pubblica che, ove si dimostri davvero incalzante, possa far da traino obbligando il legislatore ad una riflessione attenta sulla tematica, che non si limiti a mere strumentalizzazioni elettorali.