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La Corte costituzionale e le scelte del legislatore sull’ergastolo ostativo

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Società

In più scritti Questione Giustizia ha espresso il suo orientamento di apertura verso un nuovo assetto che, in tema di liberazione condizionale, sostituisca alla presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata, superabile solo con la collaborazione, un vaglio in concreto del giudice di sorveglianza. 

Nello spirito di pluralismo e di confronto aperto che caratterizza Questione Giustizia pubblichiamo anche interventi di segno diverso, come quello odierno di Luca Tescaroli, che – dopo una ricognizione della giurisprudenza della Corte costituzionale e in vista della nuova normativa sollecitata dal giudice delle leggi – rappresenta le ragioni che stanno a fondamento del mantenimento di una disciplina ostativa rigorosa ed ancorata a presupposti certi.

***

Sommario: 1. La pronuncia della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo – 2. Sull’incostituzionalità della disciplina dell’ergastolo ostativo – 3. La collaborazione con la giustizia quale scelta di politica criminale – 4. Le soluzioni adottabili in esito alla pronuncia della Corte Costituzionale

1. La pronuncia della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo

Con ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021, depositata in data 11/5/2021, la Corte Costituzionale ha creato i presupposti per ammettere i mafiosi ergastolani che non collaborano con la giustizia al beneficio della liberazione condizionale, una volta espiati 26 anni di reclusione, decurtati di 45 giorni ogni semestre di pena scontato, in virtù dell’applicazione della liberazione anticipata, e dunque dopo circa un ventennio (scelta che di fatto cancella l’ergastolo ostativo), mutando la valutazione operata con la sentenza n. 135 del 24 aprile 2003 e aderendo a quanto stabilito nel 2019 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (nella pronuncia Viola c. Italia), muovendosi nel solco della precedente sentenza della Corte nazionale n. 253 del 2019, che li ha ammessi alla possibilità di fruire dei permessi premio.

In tal modo, pur essendo plurimi i sodalizi mafiosi tutt’ora vivi e vegeti, la Corte ha proseguito nell’opera di progressiva erosione della normativa antimafia, che ha il suo fulcro nel regime dell’ergastolo ostativo (art. 4 bis, c. 1 e 58 ter Ord. penitenziario) e della disciplina sul carcere dettata dall’art. 41 bis O. P., nonché nella legge sui collaboratori di giustizia, nel 416 bis c. p. e nei sequestri e nelle confische di prevenzione. Normativa, questa, che ha consentito di ottenere imponenti risultati nell’attività repressiva delle organizzazioni criminali di stampo mafioso.

Il giudice delle leggi ha infatti, stabilito che «la ben nota disciplina ‘ostativa’ contenuta nell’art. 4 bis c. 1, approvata all’indomani delle stragi di mafia dei primi anni Novanta del secolo scorso» entra in tensione con il principio costituzionale di rieducazione della pena, perché, non consentendo ai mafiosi che non collaborano utilmente con lo Stato di avere accesso al beneficio della liberazione, introduce una presunzione assoluta «di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata» non superabile se non per effetto della stessa collaborazione, impedendo che le richieste del detenuto condannato all’ergastolo siano «oggetto di un vaglio in concreto da parte del giudice di sorveglianza».

La Consulta ha inoltre chiarito che tale presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione, indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato, che non possono essere costituiti da «una sola condotta carceraria», o dalla «mera partecipazione al percorso rieducativo», o da «una soltanto dichiarata dissociazione» e che non possono sussistere in costanza di «assoggettamento» al regime di cui all’art. 41 bis O. P. di per sé incompatibile con l’accesso ai benefici penitenziari e con il «sicuro ravvedimento», ex art. 176 c. p., presupposto della concessione della liberazione condizionale.

Tuttavia, la Corte ha ritenuto di non procedere a un intervento “demolitorio” immediato in quanto consapevole che potrebbe mettere a rischio le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che la disciplina persegue, trattandosi di aspetti centrali e “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali .

E’ stato perciò assegnato al legislatore un termine sino al 10 maggio 2022 per disciplinare la materia e, in particolare, per «distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione del sicuro ravvedimento», indicando a titolo esemplificativo l’«emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione», trattandosi di «scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità» (non assoluta) «ma non costituzionalmente vincolante nei contenuti», che devono anche spingersi a disciplinare l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – vale a dire a quelle «misure che normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà».

In estrema sintesi, la Corte ha ritenuto:

a) incostituzionale l’attuale disciplina sull’ergastolo ostativo;

b) che la presunzione della pericolosità sociale del condannato all’ergastolo possa essere superata da fattori diversi rispetto alla collaborazione, indicati solo in negativo (con l’esclusione della sola condotta carceraria, della mera partecipazione al percorso rieducativo, della dichiarata dissociazione);

c) necessaria una disciplina ispirata a criteri di particolare rigore proiettata verso il doppio binario per gli ergastolani di cui si è occupata: il mafioso, il terrorista, lo stupratore e il maltrattante assassino, l’omicida in occasione di condotte di sfruttamento e induzione alla prostituzione, nonché di atti persecutori.

Appare evidente che la gamma dei criminali che rientrano nella sfera di applicazione dell’ergastolo ostativo è profondamente disomogenea.

2. Sull’incostituzionalità della disciplina dell’ergastolo ostativo

Orbene, se appare apprezzabile l’aver rimesso al legislatore l’intervento normativo, il percorso motivazionale della Corte avrebbe potuto non focalizzarsi in via preminente sul rapporto tra detenuto e la funzione costituzionale esplicitata dalla pena per snodarsi attraverso i plurimi principi costituzionali che vengono compromessi dalle condotte del mafioso ergastolano inserito in sodalizi secolari e procedere a un bilanciamento degli stessi.

In particolare, la punizione del mafioso ergastolano irriducibile (che commette omicidi, stragi, estorsioni, usure e altri gravissimi reati) e il suo percorso di rieducazione non possono essere ricondotti e valutati esclusivamente alla stregua del principio di rieducazione della pena, perché la sua condotta ha inciso e potrebbe continuare a incidere direttamente o indirettamente su di una amplissima gamma di principi e diritti di rango costituzionale :

a) i diritti inviolabili di tutti i cittadini (art. 2 Cost.), quali la libertà personale (art. 13), l’uguaglianza (art. 3), il diritto alla vita e alla sicurezza (art. 10 Cost. che prevede l’obbligo dell’ordinamento italiano di conformarsi alle norme di diritto internazionale e, dunque, alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ratificata, che li riconosce espressamente agli artt. 2 e 5, e alla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, parimenti ratificata, che li riconosce agli artt. 2 e 6);

b) il principio (art. 23 Cost.) per cui le prestazioni personali e patrimoniali possono essere imposte solo sulla base della legge (si pensi alla imposizione del pagamento di tributi paralleli rispetto a quelli previsti dallo Stato, come il sistematico pizzo agli operatori economici);

c) la libertà di iniziativa economica privata (art. 41), il diritto di proprietà nella sua funzione sociale (art. 42).

Di più. La criminalità mafiosa si ingerisce ancor oggi progressivamente e surrettiziamente nella gestione delle imprese attraverso l’erogazione di prestiti e la successiva appropriazione delle imprese stesse a fronte dell’incapacità di onorare i debiti. Alimenta il suo agire nel settore economico con risorse illecite ed è proiettata al controllo degli appalti e all’instaurazione di rapporti privilegiati con esponenti politici. Trasforma l’imprenditore vittima in un colluso, imponendogli servizi e forniture. Condiziona la libera concorrenza vulnerando l’uguaglianza tra tutti gli operatori economici (chi accetta la collusione dispone di denaro fuori dalle logiche di mercato drenando e riciclando risorse illecite).

Inoltre esponenti di “cosa nostra” sono giunti ad attuare attacchi terroristico-eversivi al cuore dello Stato, ponendo in essere otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) nel triennio 92-94, con la prospettiva di ricattare esponenti delle istituzioni (abolire l’ergastolo, eliminare il 41 bis, e la legge sui collaboratori di giustizia in cambio della cessazione delle stragi[1]) e di condizionare l’indirizzo politico del Governo e la funzione legislativa del Parlamento.

Ed è un fatto che la strage di Capaci e l’onda emotiva che ne seguì ebbero una influenza anche nella elezione del Presidente della Repubblica.

Al riguardo, Giovanni Brusca ha riferito che, mentre era in corso la fase preparatoria della strage di Capaci, Riina gli aveva esternato l’auspicio che l’attentato a Falcone venisse eseguito prima della nomina del Presidente della Repubblica, perché in tal modo si sarebbe impedita l’elezione dell’on. Andreotti a quella carica.

Ed è ancora un dato di fatto che, quando la mano omicida di Brusca faceva brillare la carica, da dodici giorni regnava forte l’incertezza, da parte delle forze politiche, nell’individuare un candidato alla Presidenza della Repubblica sul quale far convergere i consensi, anche se sullo sfondo rimaneva sempre vitale l’immagine di una candidatura forte come quella dell’On. Giulio Andreotti.

Il Presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, due giorni dopo, al sedicesimo scrutinio, veniva eletto Presidente della Repubblica con 672 voti. Veniva così superata l’impasse prodotta dal fallimento delle candidature Forlani, Conso e Vassalli.

Invero, “cosa nostra” ha mostrato di agire con una finalità non solo di terrorismo politico, ma anche di eversione dell’ordine democratico per destabilizzare e compromettere la funzione propria dello Stato nella sua essenza unitaria, di ingenerare disordine e panico in tutta la Nazione.

E a oggi non è stata accertata tutta la verità con riferimento a tali eventi stragisti, mentre uno dei principali esecutori di quello stragismo, Matteo Messina Denaro, continua a essere latitante.

Si tratta di una specifica realtà criminale non conosciuta dal resto dell’Europa che non prevede nemmeno il delitto di associazione di tipo mafioso o che, nella migliore delle ipotesi, sottovaluta il fenomeno.

I limiti alla possibilità di usufruire della liberazione condizionale per i condannati ergastolani mafiosi è una delle iniziative promosse da Giovanni Falcone durante la sua permanenza al Ministero della Giustizia, quale Direttore Generale degli Affari Penali.

Sono stati, infatti, introdotti nel nostro ordinamento con il d. l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con mod. dalla L 12 luglio 1991, n. 203, e Falcone venne assassinato anche per punirlo per tali iniziative.

In definitiva, il principio di rieducazione della pena non può essere letto ed esaurirsi esclusivamente nel rapporto con il condannato, senza considerare i diritti inviolabili e di rilevanza costituzionale di tutti gli altri cittadini, che si sono prima ricordati.

Le strutture mafiose sono la negazione assoluta dei valori costituzionali fondamentali del vivere democratico e, in particolare, di quelli di libertà e di uguaglianza.

Rimuovere gli ostacoli che li limitano è compito precipuo della Repubblica (art. 3 c. 2 Cost.), che lo ha fatto sino a oggi efficacemente con il varo di un’appropriata legislazione, che ha saputo, fra l’altro, incentivare la collaborazione con la giustizia (dato indispensabile per accertare le responsabilità e le ragioni dei numerosi delitti), con le misure di prevenzione patrimoniale, il regime carcerario di cui all’art. 41 bis O. P., e la disciplina dell’ergastolo ostativo oggi fortemente sospettato dalla Corte Costituzionale di incompatibilità con il solo art. 27 Cost, con il suo pur incontestabile valore di civiltà.

3. La collaborazione con la giustizia quale scelta di politica criminale

La scelta della valorizzazione e dell’incentivazione della collaborazione con la giustizia costituisce una direttrice di politica criminale propria del legislatore – rispondente alla esigenza di contrastare una criminalità organizzata mafiosa insidiosa e diffusa, nel quadro di finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività – che è chiamato dalla Corte a regolamentare la materia, individuando criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio mafioso del quale si esige l’abbandono definitivo.

In tale prospettiva, non solo la mera dichiarata dissociazione, individuata dalla Corte quale criterio ostativo al sicuro ravvedimento per la concessione della liberazione condizionale, ma anche la dissociazione concreta manifestata dal detenuto con l’assunzione delle proprie responsabilità deve essere ritenuta inadeguata a determinare una decisione del giudice di accoglimento di una istanza del condannato.

Ove la dissociazione fosse per così dire ‘istituzionalizzata’ ne deriverebbe una valenza evidentemente disincentivante per le collaborazioni non esponendo a conseguenze il condannato, non essendo la scelta irreversibile (a differenza della collaborazione) e non creando pregiudizio al sodalizio, consentendogli di perpetuare la sua esistenza.

La scelta della dissociazione è risultata impiegata da vari esponenti del crimine mafioso nel quadro di una precisa strategia funzionale a ottenere benefici.

In proposito, va ricordato, infatti, che, sul finire del 2000-inizi del 2001, alcuni esponenti di vertice di cosa nostra (Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Salvatore Buscemi, Giuseppe Madonia di Caltanissetta, uno dei fratelli Graviano), dopo la sconfitta della politica terroristico-eversiva del sodalizio, tentarono di avviare un dialogo mostrando una disponibilità ad ammettere le proprie responsabilità, senza accusare i propri complici, con la prospettiva di ottenere benefici penitenziari come la revoca del regime del 41 bis O. P.. Iniziativa che opportunamente non venne assecondata. E di recente anche Filippo Graviano ed esponenti della camorra stanno percorrendo la medesima strada.

I mafiosi irriducibili che non accedono alla collaborazione, appartenenti alle secolari strutture mafiose (come quelle denominate cosa nostra e ‘ndrangheta), ben radicate in una parte significativa del territorio nazionale, giurano fedeltà perpetua all’organizzazione e il loro status è per sempre.

L’esperienza investigativa dell’ultimo cinquantennio e gli studi di identità provano che si può fuoriuscire dal sodalizio solo con la morte o con la collaborazione, perché anche se “posati” (temporaneamente allontanati per colpe non così gravi da essere sanzionate con la morte) possono essere chiamati a operare, sicché la rieducazione dell’ergastolano mafioso non può funzionare per gli irriducibili e non può essere raggiunta la “prova positiva” circa l’interruzione di qualsiasi legame con la criminalità organizzata sino a che esiste il sodalizio in cui è inserito.

L’appartenente al sodalizio che collabora realmente compie una scelta irreversibile di rottura, che lo espone addirittura al pericolo concreto di vita una volta ritornato in libertà (si pensi, a titolo esemplificativo, al caso di Claudio Sicilia[2], esponente della Banda della Magliana, assassinato il 18 novembre 1991[3]) o a vendette “trasversali” quando i mafiosi non sono riusciti a individuare o a colpire direttamente il collaboratore di giustizia nei confronti dei familiari (basti pensare alla falcidia dei parenti di Francesco Marino Mannoia, di Salvatore Contorno, di Tommaso Buscetta, al rapimento e all’uccisione del giovane figlio di Mario Santo Di Matteo, all’uccisione del padre di Gioacchino La Barbera, o alle espressioni di Salvatore Riina, riportate dal collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi: «Ho sentito dire a Riina, che è stato nel ’92, queste parole […] che voleva ammazzare fino al ventesimo grado di parentela i parenti dei pentiti, cominciando dai bambini di sei anni. Si giocava pure i denti. Si giocava i denti per cercare vie, per cercare delle situazioni per fare abolire questo 41 bis…»[4]), rischio che non viene corso da chi si limita a una dissociazione.

Una scelta concreta che può certamente essere il frutto di una iniziativa utilitaristica, ma che impone necessariamente e concretamente il sicuro ravvedimento e, in ogni caso, l’impossibilità di riallacciare i contatti con l’associazione di appartenenza.

La Corte ha sottolineato, invece, che la collaborazione non sempre coincide con il ravvedimento.

Ciò può essere vero solo nel momento genetico delle ragioni della scelta, perché quando gli esiti di quella scelta si realizzano con la cattura dei latitanti, la loro condanna, con il sequestro e la confisca dei loro beni, delle loro armi ed esplosivi, dei libri mastri che documentano le attività illecite, la recisione dei rapporti è gioco forza inevitabile e certa, e conseguentemente, il ravvedimento necessitato e ancorato a dati oggettivi e non a mere relazioni di operatori sociali che osservano la vita carceraria e ascoltano l’ergastolano o di organi investigativi, come avviene nella più parte dei casi.

È pur vero che si sono registrati alcuni casi di ritorno a delinquere di collaboratori, ma si è trattato di episodi marginali rispetto al numero dei collaboratori, che hanno, però, prodotto il ritorno in carcere di ex collaboratori di giustizia e trovato un argine nella riforma della legislazione sui collaboratori del 2001.

4. Le soluzioni adottabili in esito alla pronuncia della Corte Costituzionale

Perciò, il legislatore potrebbe virare sul mantenimento, a tempo, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato che non collabora, pur essendo nelle condizioni di farlo[5], sino all’annientamento del relativo sodalizio e ciò semmai limitatamente ai tradizionali gruppi mafiosi e per le collaborazioni di peso, documentate da provvedimenti giurisdizionali e da relazioni delle procure distrettuali interessate dalla gestione del collaboratore e dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, pareri da ritenersi sempre obbligatori.

Senza il decisivo requisito della collaborazione severamente controllata e riscontrata manca ogni fattore obiettivo a cui ricollegare il distacco dal consorzio mafioso e l’accesso alla liberazione condizionale, come agli altri benefici della semilibertà o al lavoro esterno, potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso, come ci ricorda il recente esempio di Antonio Gallea, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, ammesso al regime di semilibertà, rientrato in posizione di comando nella sua organizzazione (stidda).

Del resto, se il condannato non collabora potrebbe sempre essere chiamato a contribuire alla vita dell’organizzazione e, in caso di non adesione, verrebbe certamente ucciso, un’alternativa eticamente non accettabile.

Una soluzione che potrebbe trovare forza nello stesso riconoscimento operato dalla Corte sull’incompatibilità tra l’accesso ai benefici penitenziari e l’attualità della sottoposizione al regime dell’art. 41 bis, presupponendo l’attualità del collegamento con l’organizzazione criminale (v. sent. n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017).

Come si è già ricordato, la stessa Corte Costituzionale il 24 aprile 2003 si era espressa in maniera opposta a quella del 2021 in termini di compatibilità tra il principio di rieducazione della pena e il regime normativo vigente dell’impossibilità di accesso alla liberazione condizionale per il detenuto condannato all’ergastolo per reati di mafia, posto che la pena dell’ergastolo può non essere perpetua non per automatica previsione della norma (art. 4 bis c. I O. P.), ma in virtù della «scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nella condizione di farlo».

È razionale differenziare nell’accesso ai benefici penitenziari il condannato mafioso dagli altri condannati che rientrano nella categoria del I c. dell’art. 4 bis O. P. e, in particolare, dal condannato terrorista all’ergastolo, perché difformi sono le strutture associative di appartenenza.

Pur essendovi tra mafia e terrorismo elementi comuni, fra tutti quello dell’uso sistematico e indiscriminato della violenza, i due fenomeni criminali e la loro pericolosità si differenziano profondamente.

E, infatti, la mafia non è un nemico esterno allo Stato, alle sue articolazioni e alle istituzioni, che al contrario permea e penetra, costituendone un fattore interno capace di contenderne – oltre al monopolio della violenza – il controllo delle pubbliche amministrazioni, del territorio, delle attività economiche e il consenso sociale.

Essa non è legata a ideologie politiche e ha dimostrato di saper sopravvivere alle stesse, a differenza del terrorismo; non è un potere occulto e, quasi sempre, richiede che si sappia chi comanda, anche se questi nega la propria identità.

Se oggi il terrorismo è stato enormemente ridotto nella sua capacità di azione, pur non essendo stato del tutto debellato, e se le sue manifestazioni criminali dalla fine degli anni Novanta e negli anni Duemila sono state osteggiate da tutte le forze politiche (così è avvenuto per il terrorismo internazionale di matrice islamica), Cosa nostra e la ‘ndrangheta sono alla ricerca di nuovi equilibri interni e rifuggono il terrorismo istituzionale ed eversivo, senza peraltro abbandonare propositi di aggressione contro servitori dello Stato.

La scelta dello Stato di creare le condizioni per accedere ai benefici penitenziari per i mafiosi che non intraprendono la collaborazione invia agli uomini d’onore, ivi compresi quelli in carcere, un segnale pericoloso di interessata disponibilità a interagire con il sistema mafioso e si presta a essere interpretato come un segnale di debolezza e di indulgenza dello Stato, nei confronti dei cittadini e delle vittime di mafia, che inevitabilmente percepiscono un atteggiamento di buonismo nei confronti di chi è portatore di lutti e di dolore, di chi li imprigiona nelle loro paure e si impadronisce dei proventi del loro lavoro attraverso l’estorsione.

Appare, poi, razionale distinguere per il mafioso che non collabora, soprattutto se riveste ruoli di comando, l’accesso ai benefici penitenziari rappresentati dai permessi premio (che la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibili con sent. n. 253/2019, con una serie di paletti molto rigidi) ed agli altri benefici penitenziari, rispetto alla liberazione condizionale, perché il ritorno alla libertà, mitigato solo dalla libertà vigilata, anche se si intensificano le relative prescrizioni, offre al condannato uno spazio di libertà d’azione troppo ampio e protratto nel tempo, che consente e agevola il ripristino dei contatti con la criminalità.

La collaborazione costituisce un dovere morale e rappresenta una concreta forma di giustizia “riparativa” nei confronti delle vittime, che va ben oltre il paradigma rieducativo della pena e del suo imprescindibile presupposto di carattere retributivo.

Sarebbe, poi, auspicabile l’introduzione di un obbligo di dimostrare l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o dell’assoluta impossibilità di tale adempimento.

Da ultimo, va rilevato che l’attribuzione al giudice di sorveglianza di un potere discrezionale di scelta per individuare il presupposto del ravvedimento per la concessione del benefico penitenziario al mafioso ergastolano lo espone a rischio concreto di vita: il giudice che nega un beneficio consentito sia pur astrattamente dalla Consulta diventa un potenziale bersaglio di rappresaglie, anche sanguinose, come ci insegna il nostro poco invidiabile passato.

In questa prospettiva si potrebbe pensare anche alla concentrazione della competenza delle decisioni in un unico “ufficio giudiziario di sorveglianza”, che dovrebbe essere adeguatamente potenziato, per garantire l’uniformità delle decisioni a livello nazionale un adeguato livello di specializzazione.

È dunque auspicabile che il legislatore chiamato dalla Consulta a regolamentare la materia, che riguarda 1271 persone, condannate attualmente all’ergastolo ostativo, specifichi dettagliatamente i presupposti in presenza dei quali può essere concesso il beneficio, riducendo il più possibile la discrezionalità del giudice e in tal modo guidando e/o vincolando la decisione e procedendo a un equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali che entrano in gioco.

In tale quadro al legislatore deve essere riconosciuta la possibilità di attribuire determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia.

E una volta ammesso il detenuto alla liberazione condizionale si potrebbe prevedere un periodo più consistente di sottoposizione alla libertà vigilata, prima di estinguere la pena, che implichi un obbligo di dimora in aree diverse rispetto a quello di radicamento e di operatività del sodalizio di appartenenza e un divieto di frequentazione e di comunicazione in qualsiasi forma con soggetti condannati o attinti da misure cautelari.

Note

[1] Così si sono espressi i giudici nella motivazione della sentenza, divenuta definitiva, della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, depositata il 23 giugno 2001, nei confronti degli imputati accusati della strage di Capaci e dei reati collegati: «…l’escalation di violenza che contrassegnò la stagione delle stragi era finalizzata ad indurre alla trattativa lo Stato, ovvero a consentire un ricambio sul piano politico che, attraverso nuovi rapporti, potesse assicurare come per il passato le necessarie complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato». E, ancora: «Ritornando al tema delle trattative va rammentato che Cancemi, in sede di riesame ha fatto riferimento ai contatti avuti da Riina con gli onorevoli Dell’Utri e Berlusconi…; contatti che, a suo dire avevano lo scopo di ottenere provvedimenti legislativi favorevoli all’organizzazione: annullare la legge sui pentiti, abolire l’ergastolo, eliminare la normativa sul sequestro dei beni o di affievolirne le conseguenze. Anche Brusca ha riferito di una trattativa, a cavallo delle stragi, condotta da Salvatore Riina per ottenere benefici in tema di revisione dei processi, di sequestri di beni, di collaboratori di giustizia, […]. Dell’esistenza di contatti tra Salvatore Riina con rappresentati istituzionali si trae conferma, come ha ricordato lo stesso Brusca, dalle dichiarazioni rese dal gen. Mori e dal magg. De Donno… Tali trattative, nel cui ambito si inserì anche Vito Ciancimino, sfociate nel notissimo “papello”, vennero intraprese nel quadro di una serie di iniziative del ROS, volte alla cattura di Riina e Provenzano. I vertici di Cosa Nostra, subito dopo la strage di Capaci, avevano ricevuto un segnale istituzionale che, nella loro prospettiva, convalidava la bontà delle prospettive che si aprivano in concomitanza con le stragi, tant’è che Riina aveva cercato di rivitalizzare, dopo la strage di Via D’Amelio, la trattativa con il progetto di attentato nei confronti del dr. Pietro Grasso. Difatti, la trattativa condotta dagli ufficiali del ROS con Ciancimino si era bloccata, avendo quest’ultimo chiesto una pausa di riflessione». Nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze per le stragi del ’93, n. 3 del 6 giugno 1998 si legge: «… l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vice-comandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire una ‘trattativa’; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di ‘trattativa’, ‘dialogo’ ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo, costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare i vertici di ‘cosa nostra’ per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica s’impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata. Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi soccorrono, assolutamente logiche, tempestive e congruenti, le dichiarazioni di Brusca. Su questo personaggio si potrà dire, ancora una volta, quello che si vuole, ma il tempo (luglio-agosto 1996) in cui parlò, per la prima volta, di questa vicenda, spazza ogni dubbio sulla assoluta veridicità di quanto ebbe a raccontare. Allora, infatti, l’esistenza di questa trattativa era sconosciuta a tutti i protagonisti di questo processo; Brusca non poteva ‘prenderla’ da nessuno (lo stesso generale Mori ha dichiarato di averla raccontata al Pubblico Ministero di Firenze nel mese di agosto del 1997)». Dunque, si è provato, attraverso i processi celebrati, che sono esistite delle trattative, che i vertici dell’organizzazione mafiosa ricevettero un segnale istituzionale idoneo, nella loro prospettiva, a suonare come una conferma che la loro attività stragista fosse adatta a raggiungere l’obiettivo di aprire canali relazionali, proiettati a individuare nuovi referenti istituzionali e a incidere sulla legislazione in atto, ivi compresa quella inerente all’abolizione dell’ergastolo.

[2] Egli per primo rivelò i contatti della banda con la camorra di Lorenzo Nuvoletta e di Michele Zaza, con gli ambienti dell’estremismo nero e a svelare i rapporti con esponenti delle istituzioni).

[3] E, ancora: Leonardo Vitale, uomo d’onore della famiglia di Altarello di Baida, primo collaboratore di giustizia dopo Melchiorre Allegra, ucciso il 2 dicembre 1984; Luigi Ilardo, uomo d’onore di rango della provincia di Caltanissetta, assassinato il 10 maggio 1996, dopo aver fornito preziose indicazioni che hanno consentito di arrestare numerose mafiosi e a ridosso dell’inizio della formale collaborazione; Orazio Pino, appartenente alla famiglia di Giuseppe Pulvirenti, ucciso il 25 aprile 2019 a Chiavari; Orazio Sciortino assassinato il 30 giugno 2020 nelle campagne di Vittoria nel ragusano; Salvatore Contorno, uomo d’onore della famiglia di Santa Maria del Gesù, nell’aprile del 1994 è scampato all’attentato organizzato a Formello con 70 kg di esplosivo, nascosti in un canale di scolo adiacente alla strada dove Contorno avrebbe dovuto passare, ordigno scoperto dagli appartenenti alle forze dell’ordine avvertiti da una telefonata di un cittadino insospettito dai movimenti notati nella zona.

[4] V. sent. della Corte d’assise di Firenze, nei confronti di Francesco Tagliavia, 2011, p. 439.

[5] E, dunque, il condannato mafioso potrebbe essere ammesso ai benefici penitenziari nelle situazioni in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità rende comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, come già riconosciuto con la già citata sentenza della Corte Costituzionale del 24 aprile 2003, n. 135.

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze7

Fonte: Questione Giustizia

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