Appalti, burocrazia, corruzione: ecco i rimedi per far ripartire “L’Italia immobile”
Michele Corradino è Presidente di Sezione del Consiglio di Stato ed è stato Consigliere dell’Autorità Nazionale Anti Corruzione. E’ autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto amministrativo, ultima delle quali è “L’Italia immobile. Appalti, burocrazia, corruzione. I rimedi per ripartire”, edito da Chiarelettere nel novembre 2020. Ne illustra i contenuti per i lettori di GiustiziaInsieme nell’intervista curata da Maria Alessandra Sandulli.
Intento dichiarato è quello di parlare ai cittadini, non solo ai giuristi, per spiegare le “criticità” degli appalti, che sono poi lo specchio del nostro intero sistema amministrativo. Come sottolineato nell’introduzione, il viaggio nel mondo degli appalti è un viaggio nella qualità delle vite di tutti di noi: al di là della rilevanza che gli appalti notoriamente hanno nel nostro sistema economico (si parla di circa 170 miliardi di euro) essi impattano sulla costruzione delle infrastrutture che ci consentono di viaggiare, di trasportare merci e di distribuire beni essenziali come luce, gas, e acqua, sulla realizzazione e manutenzione delle scuole e degli ospedali, sulla fornitura dei nostri dispositivi medici, sul funzionamento dei nostri servizi pubblici. Alla luce della esperienza maturata come Consigliere di Stato e Consigliere ANAC, segnala la necessità di un controllo sociale diffuso sugli appalti pubblici, perché i controlli pubblici non bastano e ogni cittadino deve farsi “sentinella della legalità”. Per poterlo fare, deve però conoscere dove si possono annidare i fenomeni di corruzione e di mala gestio, e il libro ha lo scopo di guidare i cittadini in questo compito, facendo conoscere loro gli appalti dal di dentro e raccontando “come si ruba negli appalti” (pag 5), ma anche di richiamare l’attenzione dei giuristi sui problemi veri della gestione degli appalti. Ecco, sotto questo profilo chiederei innanzi tutto di chiarire i veri e i falsi problemi: è una questione di eccesso di regolazione normativa? i problemi sono creati dal potere di annullamento e sospensione delle gare esercitato dai giudici amministrativi?
La disciplina degli appalti sembra non avere pace. Un recente studio del Sole 24 ha mostrato come il vecchio Codice del 2006 fosse stato modificato ben 223 volte in meno di un decennio e come anche il nuovo Codice dei contratti pubblici non abbia avuto vita facile. Fino a fine 2019, e quindi prima delle modifiche introdotte da questo Governo, cinque diversi provvedimenti normativi vi hanno apportato già ben 130 modifiche. Questa volta ottenendo perfino il primato, non invidiabile, di modificare istituti neppure entrati in vigore.
L’instabilità normativa ha due effetti negativi sullo sviluppo: confonde i funzionari e ostacola gli investimenti.
L’efficacia delle norme, infatti, spesso è affidata ai decreti attuativi, che hanno bisogno di un ulteriore passaggio normativo. Le nuove norme cioè rinviano a nuovi atti secondari, ognuno dei quali deve essere redatto, deliberato, pubblicato e attuato. Spesso poi l’emanazione di questi atti coinvolge diversi ministeri che a vario titolo – proposta, parere, intesa, concerto – sono interessati dalla procedura. In un contesto politico difficile quale quello che ha caratterizzato quest’ultimo decennio è ben possibile che la normativa attuativa si areni e che resti inattuata. Un recente studio dell’Ance censiva più di 800 decreti attuativi non ancora emanati in materia di appalti. Tra i provvedimenti inattuati non può non ricordarsi il DPCM che avrebbe dovuto indicare i criteri per la qualificazione delle stazioni appaltanti e che a oltre cinque anni dall’entrata in vigore del codice non è stato ancora emanato nonostante la riduzione degli oltre trentamila soggetti che bandiscono gare in Italia costituisca un architrave del nuovo diritto degli appalti. Credo per questo che sia da approvare e stabilizzare l’iniziativa recentemente assunta dal Governo di compiere una sistematica attività di monitoraggio dei decreti inattuati e di nudging nei confronti dei Ministeri.
Più in generale, mi sembrerebbe importante una fase di “tregua normativa” che stabilizzi le regole e consenta alle amministrazioni e alle imprese di metabolizzarle. Sarebbe opportuno, poi, e di individuare strategie di azione di lungo periodo. Ogni riforma porta inevitabilmente ad un tempo di latenza determinato non soltanto dalla necessità di emanare la normativa secondaria ma anche da quella, del tutto fisiologica, di amministrazioni e imprese di studiare le nuove regole e adeguare ad esse le loro strutture e le loro strategie. Di queste esigenze di stabilità bisognerà tenere conto nella redazione dei criteri della legge delega che il Parlamento si accinge a varare per modificare ancora una volta il codice dei contratti pubblici.
Quanto all’idea della giustizia amministrativa come freno al sistema economico periodicamente riproposta dai media e dalla stessa politica, credo sia necessario abbandonare un approccio emotivo per guardare ai numeri. Dall’analisi sull’impatto del contenzioso amministrativo in materia d’appalti, periodicamente pubblicato dal Consiglio di Stato sulla base dei dati pubblicati dall’ANAC, emerge che sono impugnati gli atti di meno del due per cento delle gare bandite. Le richieste cautelari di sospensione sono state mediamente accolte dai giudici, tenendo conto dei due gradi, nello 0,5 per cento dei casi. ll blocco riguarda circa una gara su 200 bandite. Quanto ai tempi, occorre mediamente un anno per ottenere una sentenza definitiva in due gradi in materia di appalti e trenta giorni per vedere pronunciata un’ordinanza cautelare. Tutto è certamente migliorabile ma credo vada guardata con cautela la tendenza legislativa alla progressiva estensione delle regole processuali che diminuiscono la garanzia dei diritti a vantaggio della tutela risarcitoria. Se può condividersi che ciò avvenga in una fase emergenziale in cui la priorità è la ricostruzione del sistema economico sulle macerie lasciate dalla pandemia, sarebbe gravissima, sotto il profilo costituzionale e della tutela dei diritti fondamentali, un’estensione a regime di un sistema che comprime la possibilità di reagire di fronte a comportamenti illegittimi della pubblica amministrazione.
Rimanendo sull’argomento del legislatore e del giudice. Lei stigmatizza giustamente le “riforme di carta”. Quanta parte di colpa ha nella cattiva gestione degli appalti l’instabilità normativa e, mi consenta, la volontà del legislatore di lasciare spazio alla giurisprudenza? Facciamo un esempio concreto. Ha richiamato nel libro il problema dell’articolo 120 del nostro codice processuale, che lega inaccettabilmente ancora la decorrenza del termine decadenziale di impugnazione degli atti delle procedure di affidamento degli appalti a una comunicazione che non esiste più da oltre cinque anni. Ho provato più volte anche io a sollecitare un intervento del legislatore sul punto. Come spiega che nonostante in questi anni vi siano state diverse riforme della disciplina, anche processuale, degli appalti nonostante le sollecitazioni della stessa Adunanza Plenaria, il problema non sia stato ancora risolto?
Credo che la vicenda dell’art. 120 c.p.a. che, nonostante i numerosi interventi di riforma sul codice degli appalti e sullo stesso codice del processo amministrativo, continua a fare decorrere il termine decadenziale di impugnazione degli atti delle procedure di gara da una comunicazione che non esiste più, sia emblematica di una sorta di incomunicabilità cronica tra il legislatore e gli operatori. Ogni riforma sembra investire i grandi temi del diritto degli appalti mentre ignora le richieste di modifica che provengono dai funzionari della pubblica amministrazione e dalle imprese. L’ostilità mostrata dalle associazioni di categoria degli imprenditori, dai sindacati e dagli amministrativi pubblici che hanno lamentato la mancanza di attenzione nei confronti delle loro richieste ne è la riprova più evidente. Credo bisognerebbe aumentare la capacità di ascolto magari mediante la creazione di tavoli di lavoro cui fare partecipare chi gli appalti li realizza davvero. Le consultazioni svolte dall’ANAC per l’emanazione delle linee guida erano aperte a tutti e molti suggerimenti interessanti provenivano dai RUP che quotidianamente si scontravano con le difficoltà operative create dalla normativa.
Ancora una domanda sul tema delle fonti, con riferimento al quale Lei pone giustamente l’accento sul problema della difficoltà della loro individuazione. Quale è stata la sua esperienza sulle tanto discusse linee guida ANAC?
Nelle intenzioni del codice le linee guida dovevano essere uno strumento duttile in grado di adeguare rapidamente la normativa che disciplina gli appalti ai mutamenti della struttura del loro mercato dettati, da un lato, dall’evoluzione della tecnologia e, dall’altro, delle esigenze sociali che si riflettono sulla domanda pubblica. Le procedure previste per l’adozione di un regolamento governativo non avrebbero consentito una tale rapidità di azione. Non c’è dubbio però che le linee guida non sono state accolte con favore dalle imprese e dalle pubbliche amministrazioni che vi hanno riconosciuto una scarsa capacità di orientare i loro comportamenti. Credo che questo sostanziale insuccesso sia dovuto a diversi fattori. Il primo, certamente, l’incomprensibile scelta del codice di non fissare un criterio distintivo certo tra le linee guida vincolanti e quelle non vincolanti e di non individuare con chiarezza le conseguenze della violazione delle une e delle altre. In verità il Consiglio di Stato nel suo parere sul codice aveva indicato una soluzione interpretativa semplice e lineare coincidente con l’assetto normativo cui siamo abituati nella trattazione delle fonti ma la successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale e la prassi amministrativa hanno seguito strade più tortuose complicando la vita agli operatori.
A questo si aggiunge che la scelta di utilizzare un linguaggio “in prosa” anziché quello tipico della costruzione della norma cui siamo abituati ha disorientato gli operatori, quanto meno nella fase iniziale della loro vigenza. Mancava, si diceva, un adeguato livello di prescrittività. Dai colloqui con gli amministratori e gli imprenditori si era tuttavia percepito che, con il passare del tempo, questo problema sembrava superato.
Credo comunque che il frutto più maturo delle linee guida sia stato quello delle consultazioni. Il Consiglio di Stato aveva in più occasioni affermato che fosse necessario colmare il deficit di rappresentatività che è tipico di un’Autorità amministrativa indipendente con un maggiore livello di partecipazione dei destinatari delle norme alla fase della loro formazione. E l’ANAC aveva preso molto sul serio questa indicazione avviando consultazioni ampie con tutte le categorie interessate in occasione dell’emanazione di tutte le linee guida. In questo modo si è superato il classico modello Top/Down nella formazione delle norme e si è creato uno strumento di dialogo tra amministrazione e soggetti vigilati che ha consentito una maggiore conoscenza della struttura e delle esigenze dei mercati. Basta vedere le versioni iniziali delle linee guida e quelle poi approvate, sono tutte sul sito, per verificare quanto esse risultino modificate a seguito dei colloqui con gli operatori.
Mi sia consentito ricordare, infine, il grande spirito collaborativo che si era creato tra l’ANAC e la Sezione consultiva del Consiglio di Stato allora presieduta da Luigi Carbone. L’ANAC aveva deciso di chiedere il parere del Consiglio per tutte le linee guida e per tutti gli atti normativi pure quando ciò non fosse richiesto dalla legge. Altrettanto avveniva anche per atti di indirizzo o per questioni particolarmente delicate da un punto di vista giuridico. Le prescrizioni del Consiglio, tutte molto attente all’analisi di impatto della regolamentazione, benché spesso non vincolanti nel contenuto, sono state sempre seguite dall’ANAC e questo ha contribuito a creare un assetto normativo stabile e chiaro che infatti ha fin qui retto pienamente sul piano giudiziario. In questo modo si era creato un rapporto sinergico tra Istituzioni dello Stato che ha rafforzato il livello di fiducia degli operatori in un contesto economico particolarmente complesso quale quello che abbiamo vissuto in questi anni.
Nel libro si pone l’accento anche sull’esigenza di riqualificazione del personale pubblico con valorizzazione dei tecnici e delle nuove figure di professionisti esperti nei mercati (come il buyer e il controller), ma le pongo una domanda da giurista: secondo Lei, la formazione dei giuristi oggi è adeguata o la tendenza a una eccessiva specializzazione fa perdere di mira quelle basi (la capacità di ricostruzione del quadro delle fonti, la conoscenza approfondita dei principi e delle regole generali) che invece sono fondamentali per affrontare adeguatamente qualsiasi problema e magari per muoversi meglio nel ginepraio normativo?
(M.C.) Credo che la grande sfida della formazione sia proiettare la grande tradizione giuridica nel futuro. Lo studio dei principi e delle regole è fondamentale sia per orientarsi con sicurezza nel labirinto normativo creato dal legislatore in tutti i settori normati sia per mantenere ferma la rotta della tutela incondizionata dei valori costituzionali e dei diritti fondamentali nella creazione e nell’applicazione della legge. Non c’è dubbio, però, che il mondo cambia rapidamente e che il giurista oggi non può rischiare di non andare al passo con l’evoluzione tecnologica. Si pensi all’intelligenza artificiale e ai problemi che essa sta ponendo già alla giurisprudenza sia sotto il profilo della tutela dei diritti sia sotto il profilo della riferibilità della decisione in diritto pubblico. Il rischio è che la mancata comprensione della tecnologia si traduca in un deficit di tutela per il singolo o peggio in una abdicazione della decisione politica o di quella giudiziaria ai detentori del sapere tecnologico. Il rischio della tecnocrazia va arginato allargando gli orizzonti formativi dei giuristi.
Rimuovere la paura della firma e tutelare il funzionario in buona fede sono esigenze che vanno senz’altro considerate sul versante del decisore pubblico, come giustamente sottolinea nel suo libro; ma, che ne dice del privato in buona fede che, sempre più spesso, viene chiamato responsabile per errori di diritto equiparati alle false dichiarazioni e subisce esclusioni, revoche, decadenze, ordini di restituzione di benefici e, magari, sanzioni interdittive per gli stessi errori che vengono giustificati ai funzionari pubblici, nonostante questi ultimi dovrebbero in teoria avere le competenze e il ruolo per evitare l’errore? Perché ai privati si imputano responsabilità di tipo oggettivo (la giurisprudenza amministrativa nega la valenza dell’elemento soggettivo) per errori di diritto che, in nome dell’incertezza normativa, giustamente si “affrancano” a chi istituzionalmente dovrebbe averla?
La responsabilizzazione del privato è strettamente legata alla liberalizzazione e alla rinuncia alla necessità del controllo preventivo della pubblica amministrazione per lo svolgimento di numerose attività. Di fronte all’impossibilità per la pubblica amministrazione di rispondere in tempi ragionevoli alle richieste del privato, la tendenza della legislazione è stata quella di ampliare i confini del silenzio assenso. La conseguenza è che attività in grado di incidere sulla salute pubblica, sull’ambiente, perfino sulla sicurezza sono sostanzialmente liberalizzate e l’esistenza in capo ai gestori dei requisiti minimi è rimessa a controlli sporadici e casuali. Il sistema può reggere solo se sono previste sanzioni certe ed interdittive per quanti abbiano fornito dati falsi o svolgano l’attività in assenza dei requisiti minimi. Chi tradisce la fiducia della comunità deve essere immediatamente e definitivamente espulso dal mercato. Ci sono due aspetti che però non vanno sottovalutati. Da una parte c’è l’esigenza di tutelare chi sbaglia in buona fede. In questo caso, credo, c’è anzitutto un problema di chiarezza delle regole e di possibilità di dialogo fluido con la pubblica amministrazione come avviene in altri Paesi. D’altra parte, desta preoccupazione la tendenza legislativa a trasferire la responsabilità dal pubblico al privato: ne è testimonianza il nuovo comma 2 bis dell’art. 20 della l. 241/1990, introdotto dal d.l. 71/21, che prima lega il silenzio assenso ad un’attestazione del decorso dei termini “e dell’intervenuto accoglimento della domanda” del privato da parte della pubblica amministrazione e poi, in ipotesi di mancato rilascio di tale documento, prevede inspiegabilmente che essa sia sostituita da una dichiarazione dell’interessato resa ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 445/2000 che, com’è noto, è penalmente sanzionata in caso di falsità.
Dietro l’alibi dell’accelerazione sembra annidarsi un trasferimento del costo e soprattutto del rischio dell’inefficienza della pubblica amministrazione sul soggetto privato richiedente.
Torniamo a qualche profilo più prettamente tecnico della disciplina degli appalti. Personalmente, ho molto apprezzato la Sua proposta di istituire un albo dei commissari dal quale attingere mediante sorteggio per garantire trasparenza e imparzialità delle decisioni. Che ne pensa dei nuovi Collegi Consultivi tecnici con funzioni di assistenza, consulenza e di eventuale risoluzione delle controversie nella fase esecuzione dei lavori che il decreto semplificazioni del 2020 impone alle stazioni appaltanti di costituire per ogni opera? Per evitare che si crei una cerchia ristretta di decisori arbitrali non sarebbe, almeno, opportuno prevedere anche per questi un albo con un sistema di sorteggio e un sistema di rotazione accompagnato da regole che impediscano tanto ai membri di parte pubblica quanto agli studi professionali associati o caratterizzati da rapporti di collaborazione stabile tra più professionisti di vanificare tali principi?
Considerata la delicatezza delle funzioni svolte dal Collegio mi sembra indispensabile una disciplina che assicuri il rigoroso controllo dell’imparzialità e della professionalità dei suoi membri. Quanto accaduto in passato con i collegi arbitrali dovrebbe spingere a grande cautela nell’individuazione dei componenti di questi collegi.
Il decreto-legge governance alza le soglie oltre le quali non può procedersi agli affidamenti diretti. Lei però ha segnalato il tema dei finti affidamenti diretti degli appalti sotto soglia. Come vede quindi l’innalzamento delle soglie?
Il progressivo innalzamento delle soglie in ogni legge di riforma degli appalti credo sia lo specchio della lacerazione della politica tra voglia di semplificare – togliendo ogni regola – e amara consapevolezza che l’assenza di regole è fonte di spreco e malaffare. Di aumento in aumento, però, stiamo rapidamente arrivando alle soglie comunitarie e quindi il problema della scelta temo non si porrà più.
Il libro è di massima attualità in questo momento in cui l’Italia deve riprendersi dalla crisi e, per non perdere la straordinaria e irripetibile occasione offerta dai fondi europei, deve poter contare su appalti celeri ed efficaci. Il libro è stato però scritto prima della pandemia, e quindi non si parla né di PNRR né più in generale delle misure messe in campo per uscire dall’emergenza sanitaria ed economica creata dalla pandemia. Se potesse aggiungere a “L’Italia immobile” un capitolo su questo, cosa ci scriverebbe?
Scriverei di un Paese che è riuscito a reagire all’emergenza, di un Paese che nei momenti più gravi riesce a dare il meglio di sé, di un Paese che sta provando giorno per giorno a ricostruire e che sta dimostrando che, pure di fronte alla crisi più grave e inaspettata, è possibile coniugare legalità e sviluppo non rinunciando alle regole. Sì, credo aggiungerei un capitolo dedicato al futuro e alla speranza.
Fonte: Giustizia Insieme
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