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Afghanistan, i cittadini evacuati in Italia andrebbero trattati come testimoni di giustizia

Davide Mattiello il . Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

L’Italia ha il dovere di fare sul serio con “coloro che hanno collaborato con la missione italiana” (Mario Draghi), per questo bisogna che venga garantito dallo Stato l’accesso al lavoro, anche attraverso l’assunzione nella Pubblica amministrazione, come accade da qualche anno per i Testimoni di Giustizia.

Il paragone non è peregrino. Chi sono infatti i Testimoni di Giustizia? Sono cittadini italiani che si espongono al grave pericolo di subire ritorsioni violente da parte delle organizzazioni criminali per aver preferito la legalità alla soggezione mafiosa. Chi sono i cittadini afghani di cui l’Italia si incarica della evacuazione? Sono persone che hanno preferito l’orizzonte dei diritti e della democrazia a quello totalitario e violento dei talebani. Sono afghani che hanno scelto da che parte stare, esattamente come i Testimoni di Giustizia.

L’assunzione nella Pa è stata introdotta per legge nella passata legislatura, quando il Parlamento con voto unanime ha riformato il sistema di tutela dei Testimoni di Giustizia, introducendo questa possibilità proprio per evitare la beffa della marginalità sociale ed economica a persone coraggiose, che spesso però devono ricominciare da capo una esistenza tutta in salita.

Sarebbe davvero vergognoso che i profughi afghani, dopo essere stati evacuati, accolti in Italia, riconosciuti legalmente come persone meritevoli di protezione, inseriti nella rete di inclusione per la prima fase del loro inserimento in Italia, non riuscendo a trovare un lavoro decoroso e quindi una casa e una stabilità esistenziale, fossero costretti alla precarietà, al sommerso o alla emigrazione dal nostro Paese.

Da quando il Presidente del Consiglio Mario Draghi la scorsa settimana si è pronunciato con chiarezza relativamente all’impegno italiano di evacuare i cittadini afghani che avevano collaborato con la missione italiana, la macchina si è messa in moto e ministero della Difesa, ministero degli Esteri e ministero dell’Interno hanno intensificato l’azione dello Stato italiano. Infatti abbiamo notizia dei primi arrivi in Italia: centinaia di persone che vengono sottoposte a quarantena e smistate in diverse strutture.

Parallelamente si è messa in moto la rete delle accoglienze, sulla scorta delle precedenti emergenze umanitarie: sindaci, associazioni del Terzo Settore, persone di buona volontà hanno cominciato a manifestare disponibilità ad accogliere i rifugiati afghani. È auspicabile che il modello seguito sia quello dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che ha garantito già in passato la migliore qualità dei percorsi di inclusione. Però non possiamo permetterci passi falsi proprio perché ci siamo già passati e sappiamo quali siano i limiti di questi percorsi, sappiamo quanto sia stato difficile uscire dalla logica assistenziale e garantire una vera e propria autonomia fatta di accesso al lavoro e di accesso alla casa.

Queste difficoltà oggi sono destinate ad aumentare, perché tra la crisi libica e l’attuale crisi afghana, in mezzo ci sono stati due anni di pandemia, che hanno messo ancor più a dura prova l’economia europea e soprattutto hanno modificato regressivamente il rapporto con le frontiere interne all’Unione stessa. L’Italia può trasformare queste difficoltà in opportunità anche di implementazione e arricchimento della Pa stessa che, con le giuste risorse (culturali ed economiche), potrebbe davvero rappresentare la migliore cerniera tra la guerra e la pace. In fondo stiamo parlando di persone che hanno collaborato con la missione italiana in un contesto di guerra al terrorismo e ricostruzione: la Difesa, gli Esteri, l’Interno potrebbero impiegarle proficuamente se soltanto lo volessero.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello

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