Ora si può riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Mino Pecorelli
Da quando è stata ipotizzata la presenza di Paolo Bellini sul luogo della strage di Bologna del 2 agosto 1980 è lentamente riemersa, divenendo sempre più nitida, quella traccia delle trame nere che sembra rimettere insieme, questa volta anche in sede giudiziaria, i pezzi di una storia sempre sull’orlo di essere svelata eppure ancora incompleta.
Maurizia Bonini, ex moglie della “primula nera” di Reggio Emilia, non ha avuto dubbi nel corso della sua deposizione processuale, nel riconoscere proprio il volto di Paolo Bellini, casualmente ripreso da un turista, mentre si aggirava alla stazione di Bologna il 2 agosto di 41 anni fa, alcuni istanti dopo la terribile esplosione.
Bellini, all’epoca esponente di Avanguardia Nazionale, si era fatto scudo sin qui di un alibi sugli orari, fornitogli proprio dalla moglie, la quale all’udienza del 21 luglio scorso ha clamorosamente ammesso di aver mentito: “Chiedo scusa a tutti”.
Questo tassello può aggiungere molto alla ricostruzione delle responsabilità per la strage di Bologna e vale forse a completare un puzzle circa il ruolo avuto dalle organizzazioni di estrema destra in un contesto di violenza in cui si inseriscono altri due omicidi. Ossia quello del giudice istruttore Mario Amato, ucciso il 23 giugno del 1980, poche settimane prima della strage di Bologna; e quello del giornalista Mino Pecorelli, freddato in auto il 20 marzo del 1979.
Chi erano? E perché esiste un filo che collega le loro morti alla strage di Bologna? Una pista sempre seguita ma che adesso riprende vigore, grazie alle dichiarazioni dei pentiti e alle fondamentali motivazioni della sentenza di primo grado emessa a gennaio 2021 a carico di Gilberto Cavallini, condannato in primo grado proprio per il suo coinvolgimento nella strage di Bologna.
Mario Amato era l’unico giudice della capitale che si stava occupando del Nar e del rapporto esistente tra Nar e apparati dello Stato. Mino Pecorelli era l’unico cronista che alludeva, nei suoi articoli, ai rapporti tra gruppi della destra radicale e uomini dei Servizi, nonché all’esistenza di un canale finanziamento della P2 e di Licio Gelli ai gruppi eversivi. Tutto questo è riportato proprio nella sentenza a carico di Cavallini e anzi esiste un intero paragrafo dedicato alla figura e alla morte di Pecorelli, nonché alle indagini “sgradite” del giudice Amato.
Per inquadrare meglio quel periodo è utilissimo leggere proprio alcuni passaggi di quella sentenza, la quale, in primis, scardina una tesi tenuta in piedi per decenni dagli ex terroristi di destra e in particolare da quelli del Nar, ossia la loro autonomia rispetto ad altre formazioni neofasciste e dal sistema, che combattevano.
La sentenza della Corte d’Assise di Bologna dello scorso gennaio smentisce questo impianto e fornisce tutt’altra immagine, basata, questa sì, sulle dichiarazioni dei pentiti e successivi riscontri: “…la destra radicale ed eversiva – si legge nelle motivazioni della sentenza Cavallini – non era un insieme di sigle separate e fra loro indipendenti, ma un insieme di componenti che tra loro interagivano e cooperavano attraverso la compartecipazione e l’osmosi…”. C’era qualcuno che aveva compreso il melting pot della destra eversiva e questo qualcuno era appunto il giudice Mario Amato il quale intuì o scoprì ciò che molti altri, in quegli anni tormentati, non vollero vedere o coprirono.
La sentenza Cavallini restituisce a quel magistrato il merito di aver avviato un’indagine che avrebbe potuto cambiare il destino e la Storia di questo Paese. Quando cominciò ad indagare sui Nar rimase isolato all’interno della Procura di Roma. Era sulle tracce di legami, inconfessabili allora e scomodi ancora oggi, tra alcuni pezzi deviati dello Stato e i gruppi neofascisti che in quegli imperversavano a Roma. Per l’omicidio del giudice sono stati condannati, con sentenza passata in giudicato, lo stesso Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini, Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro.
Ebbene la sentenza di Bologna del gennaio scorso ci “ricorda” che i terroristi neri agirono su mandato (a pagamento) di soggetti che si servirono di quelli che all’epoca erano ragazzini dell’estrema destra “fagocitati dall’impazienza rivoluzionaria, privi di un progetto politico globale ma uniti nel desiderio di praticare azioni militari… giovani che vennero strumentalizzati da un gruppo ristretto di persone”, manovrati dunque da una “intellighenzia elitaria” che se ne servì per conservare il potere. Ecco perché Mario Amato doveva essere eliminato in quella tarda primavera del 1980.
Lo scrive in modo inequivocabile la Corte d’Assise nella sentenza Cavallini: “…Mario Amato aveva intuito i collegamenti fra i Nar (o quantomeno il nucleo di Fioravanti, Cavallini e soci) e Signorelli, Delle Chiaie e altri…”. Dell’omicidio del giudice Amato parla diffusamente Paolo Aleandri nell’udienza del processo Cavallini del luglio 2018. E dice: “Fu sin dal 1978 che vennero formulate, nell’ambito della destra eversiva romana… propositi di eliminare il dottor Amato… essi riscuotevano l’approvazione di tutto l’ambiente eversivo, per motivi legati alla struttura e all’efficacia delle indagini condotte dal dottor Amato. Infatti le indagini del giudice Amato apparivano pericolose, perché per la prima volta a Roma il fenomeno fascista veniva affrontato giudiziariamente cogliendolo nell’aspetto associativo, al di là dei singoli episodi…”. Pertanto era questa visione d’insieme che doveva essere fermata.
Nella sentenza Cavallini si affonda la lama in una piaga nera dell’Italia: “Amato… costituiva un pericolo eccezionale per l’eversione neofascista e per tutti coloro che erano in vario modo collegati e interessati. Gli erano stati delegati tutti i procedimenti aventi una qualche attinenza con il terrorismo nero ed era l’unico in grado di opporvisi seriamente, anche in anticipo sugli eventi. Andava quindi eliminato”. Come andava arginato qualunque altro tentativo di mettere insieme i tasselli dei collegamenti tra l’eversione nera e appartai dello Stato, soprattutto dentro il Ministero dell’Interno, ma non solo, cancellando altresì la possibilità che fosse svelata la fonte dei finanziamenti delle stragi, la P2 e il suo peso nella Storia e nelle decisioni politiche di quegli anni.
In questo contesto si inserisce il caso Pecorelli che trova a sua volta spazio nella pronuncia di primo grado sulle responsabilità di Gilberto Cavallini nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. In pratica quella sentenza in un lungo passaggio ricostruisce il contesto nel quale è stato pianificato l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, giungendo ad indicare espressamente l’esecutore materiale, ossia Giuseppe Valerio Fioravanti.
Carmine Pecorelli, detto Mino, era nato nel 1944 e la sera del 20 marzo 1979, verso le 20.45, si trovava nella sua auto in via Orazio a Roma, nel quartiere Prati; era uscito poco prima dalla redazione della rivista Osservatorio Politico su cui raccontava pezzi di verità e di storia dell’Italia più buia.
C’è una testimone di quel delitto: Franca Mangiavacca, segretaria di Pecorelli, ha detto di aver visto una sagoma in impermeabile bianco accanto all’auto del giornalista. Chi era? Secondo la sentenza Cavallini potrebbe trattarsi proprio di Fioravanti, anche se ad oggi il delitto Pecorelli resta impunito perché non si è risaliti agli autori o all’autore e il processo messo in piedi davanti al Tribunale di Perugia è finito con assoluzioni. Dunque un caso irrisolto, un mistero, uno dei tanti.
In realtà c’è assai poco di misterioso in questa storia e la sentenza Cavallini può rivelarsi, oggi, il riferimento più importante e autorevole da cui muovere nell’inchiesta ancora aperta sull’omicidio Pecorelli, come sottolineano sia la famiglia del giornalista che la Federazione Nazionale della Stampa, rappresentati rispettivamente dagli avvocati Claudio Ferrazza e Giulio Vasaturo.
La Corte di Assise di Bologna ha riconosciuto lo straordinario valore delle concordanti dichiarazioni rese dagli ex terroristi pentiti Sergio Calore, Stefano Soderini e Cristiano Fioravanti, fratello minore di Giusva. In sentenza è scritto a chiare lettere, in maniera lapidaria, che Giuseppe Valerio Fioravanti uccise Mino Pecorelli “in veste di sicario su mandato di altri”. Chi sono gli “altri”? Va detto che la posizione di Giuseppe Valerio Fioravanti insieme a quella di Licio Gelli, gran maestro della loggia massonica P2, nonché di Antonio Viezzer e di Cristiano Fioravanti è stata già valutata dalla Procura di Roma in relazione al medesimo delitto (quello di Pecorelli) e seguì un’archiviazione, ma allora non era intervenuta la sentenza Cavallini che, oggi, non si può trascurare.
In questa sentenza si ricostruisce in circa 30 pagine il movente del delitto Pecorelli: la necessità di tenere celata la struttura della P2 e le sue attività criminali. Pecorelli avrebbe potuto scriverlo e andava fermato. Un’altra fondamentale pronuncia, resa dalla Corte di Assise di Perugia all’esito del processo – conclusosi con una serie di assoluzioni a carico di Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Massimo Carminati e Pippo Calò – ha avuto il pregio di scardinare, una volta per per tutte, le ricorrenti maldicenze e mistificazioni che hanno accompagnato la vita e la morte di Mino Pecorelli, aggiungendo altro dolore ed una sequela di depistaggi. I giudici di quel collegio hanno mirabilmente sottolineato che “Pecorelli era un vero giornalista. Orbene non vi è dubbio che aveva rapporti con gli ambienti più disparati come quello dei servizi segreti, quello della politica, della magistratura, delle forze armate, dei carabinieri e della polizia…Rapporti personali che gli permettevano non solo di conoscere notizie riservate che si rivelavano importanti e vere, ma anche di entrare in possesso, ed in esclusiva, di documenti scottanti e importanti inerenti vicende di grande interesse pubblico.
Basta controllare, al riguardo, gli articoli di OP sul contenuto del dossier Mi.fo.biali, quelli sull’Italcasse, su Nino Rovelli della Sir estratti dalla relazione della Banca d’Italia sulla ispezione a detto istituto bancario, la pubblicazione delle lettere, con autentica in copia conforme, spedite dall’onorevole Aldo Moro durante il suo sequestro nonché di altri documenti con apposta la sigla ‘Riservato’ o ‘segreto’”.
Per questo la riapertura dell’indagine sull’omicidio del direttore di O.P. adesso avrebbe un valore più ampio della già importante restituzione di verità e giustizia ad un “caso irrisolto”. Oggi vi sono le condizioni per fare luce sull’omicidio ancora impunito di questo giornalista e di tante vittime innocenti delle trame oscure degli anni di piombo.
Fonte: Articolo 21
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