Gino, quel moto perpetuo da generoso utopista
“In alcuni posti ho lasciato la salute”. Rispose così Gino Strada a Francesco Battistini che lo intervistava per il “Corriere”.
Era il gennaio del 2019, Emergency compiva 25 anni. Alla domanda se si sentisse stanco spiegò che l’anno trascorso in Sierra Leone fronteggiando Ebola, nemico tra i più feroci e subdoli che avesse conosciuto, era stato “devastante”. E che per lui valeva alla fine la battuta di Woody Allen: “Non sono tanto gli anni, è il chilometraggio”. Il moto perpetuo tra guerre, chirurgie ardite, costruzioni di ospedali, diplomazie difficili e incontri segreti a rischio. E dibattiti, per far sapere agli ignari.
Dice che è stato il cuore. Se fosse così, e molte sono le conferme ufficiose, si potrebbe dire che Gino sia morto di generosità e di utopia. Ovvero delle sue qualità indomabili. Che sia stato un grande utopista non vi è dubbio. Lo è stato sempre. E accettava volentieri la qualifica.
L’utopia lo mosse giovanissimo, quando il vento del Sessantotto, di cui è stato uno dei figli migliori in assoluto, faceva librare nei pensieri di una generazione cose impossibili. Che quelli come lui cercarono di trasformare progressivamente in realtà. Fece parte dell’anima forse più realizzativa del movimento studentesco milanese, quella degli studenti di medicina, che misero sottosopra uno dei sistemi accademici e di potere più gerarchici e baronali, senza rifiutarne le competenze (il professor Staudacher fu uno dei maestri di Gino Strada) ma rovesciando le prospettive del mestiere, battendosi per la sanità come servizio (“al servizio delle masse popolari”, naturalmente), creando nuove branche disciplinari, a partire dalla medicina del lavoro e dalla medicina del territorio. Per non parlare dei consultori.
Gino prese una specialità di nicchia, la chirurgia di guerra, e in un mondo dove le guerre andavano moltiplicandosi e diventando endemiche, in cui i paesi più avanzati si arricchivano vendendo armi a quelli più poveri, ne fece il cuore di una nuova medicina universale. Battendosi tenacemente contro tutto ciò che generava il bisogno della sua chirurgia speciale. Ossia la guerra e tutto il resto.
Indimenticabile è nella mia memoria l’impegno assiduo, inesausto, contro le mine. Altro che chilometraggio se penso a quanto girava e si spendeva contro la prassi disumana che in Afghanistan produceva schiere di ragazzi e di bambini senza gambe o senza braccia. Mi aprì il mondo un giorno – era la seconda metà degli anni novanta- a un convegno sulle armi a cui lo avevo invitato a Milano: ne vedeva a centinaia di ragazzi da amputare e aveva ancora addosso l’indignazione della prima volta. Perché non si abituò mai alla guerra, Gino. Non si abituò mai alle sofferenze degli innocenti.
Nasceva anche da lì il moto perpetuo, la sensazione di dovere fare sempre di più. Ogni tanto mi è stata sussurrata l’immagine di Emergency come un “impero”, la stessa parola usata per “Libera”, quasi che il lavoro sociale di frontiera debba per definizione essere povero, precario e odorare di elemosina.
L’impero erano ospedali nuovi, medici, infermieri, logistiche coraggiose, nei luoghi in cui nessuno avrebbe investito sulla sanità, a partire dal Sudan, dall’Iraq o dallo Yemen. Riuscì a farne ovunque, in aree del pianeta dove la stessa idea di Stato era una scommessa. Si rammaricava di non esserci riuscito in Somalia e in Cecenia. Perché anche l’utopista sbatté nel concetto di impossibile.
Fatto sta che Emergency, la grande creatura allevata insieme a Teresa, la moglie da tutti amata e stimata persa nel 2009, ha portato ovunque la sua sola missione – salvare vite umane – senza parteggiare per nessuno, benché Gino le sue idee politiche le avesse eccome. Soprattutto sulla guerra e sulla pace. Solo a sentire certe parole scattava imbufalito, intransigente, tagliente. Sempre disponibile a discutere, però, appena riconosceva nell’altro la buona fede.
Con lui se ne va un cittadino del mondo che all’Italia, nel mondo, ha dato dignità e prestigio. Peccato che ogni volta che, nelle occasioni più svariate, si sono pomposamente compilati elenchi dei nostri concittadini illustri in campo internazionale il suo nome non sia stato fatto. Peccato che quando si sono celebrate le gesta dei nostri medici davanti alla peste cinese, elogiando l’etica dei nostri camici bianchi, Gino Strada e gli altri medici che pure hanno lottato per decenni contro Ebola o le bombe, non siano stati citati di rimbalzo nemmeno per sbaglio.
Il suo nome era segno e causa di contraddizione, è vero. E il bon ton non gli si addiceva. Ma la verità è che gli innovatori autentici, e lui lo era, non trovano mai tappeti rossi.
Speriamo solo che quel che ha fatto e dato gli venga riconosciuto ora che il chilometraggio ha fatto il suo lavoro sporco. Ora che la sua splendida utopia lo ha portato, una tappa dopo l’altro, fino all’ultimo traguardo possibile.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 14/08/2021
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