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Riforma Cartabia sbagliata. I processi non si velocizzano per decreto

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

La prescrizione, più che un problema tecnico-giuridico, è ormai una disputa fra contrapposti schieramenti politico-ideologici. Oltre tutto condotta con intolleranza verso chi osi criticare l’emendamento approvato l’8 luglio dal CdM su proposta del Guardasigilli Marta Cartabia.

Eppure gli scontri, per quanto accesi, non possono cancellare il fatto che a rigor di logica il dibattito sulla prescrizione dovrebbe rimanere congelato almeno per qualche anno, perché di “trippa per gatti” – per dirla alla romana – oggi come oggi ce n’è poca.

Mi spiego. La controversia verte sugli effetti della legge (cosiddetta Bonafede) che il 1° gennaio 2020 ha stabilito che la prescrizione si interrompe con la pronunzia della sentenza di primo grado. Cancellando così un’anomalia che diversificava il nostro sistema da ogni altro.

Poiché la disfida oggi è regolata anche sulla modalità “catastrofe”, verrebbe da pensare che senza emendamento Cartabia il crollo dei palazzi di giustizia sia questione di ore. Non è così.

Le cassandre sono smentite da un dato inoppugnabile che riprendo dal Fatto del 10 luglio: nella relazione Lattanzi, presidente della commissione di riforma istituita dalla ministra, sta scritto (pag.51) che gli effetti del blocco Bonafede “si produrranno a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti”, per cui “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente (una nuova) riforma della prescrizione”. È la conferma “ministeriale” che per ora, appunto, non c’è “trippa per gatti” su cui valga la pena dividersi.

Nonostante ciò, si litiga ferocemente, con il paradosso che la tenzone si è imprevedibilmente allargata: dagli effetti non ancora misurabili delle legge Bonafede a quelli, fin d’ora tracciabili, della riforma Cartabia. La quale, come si sa, da un lato spranga la porta (confermando il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado) ma subito dopo la spalanca: se entro due anni non si conclude la fase d’appello, il processo svanisce nel nulla. Come con la prescrizione, che però in questo caso si chiama “non procedibilità”.

Gli effetti? Ecco due pareri fra i più autorevoli.

Primo: secondo l’avv. Franco Coppi la pena inflitta all’imputato in primo grado ovviamente non può essere eseguita. Ma che sarà del  risarcimento riconosciuto alla parte civile? L’imputato può ben dire che se si fosse celebrato l’appello lui sarebbe stato assolto. Insomma, un groviglio. “Meglio la riforma Bonafede che se non altro aveva il pregio della chiarezza”.

Secondo: sostiene il prof. Paolo Ferrua che in caso di prescrizione del reato il giudice può entrare nel merito stabilendo ad esempio, se vi è prova evidente, che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso; l’improcedibilità invece impedisce qualunque accertamento nel merito prevalendo su ogni altra sentenza; per cui se il Pm impugna la sentenza di assoluzione di primo grado e l’appello non si conclude entro due anni l’assoluzione si converte in improcedibilità: una “esilarante reformatio in peius per decorso del tempo”.

Lasciamo l’empireo del diritto e proviamo a fare due conti, come usa dire, facili facili.

Prendiamo un reato fra i più diffusi, il furto, con prescrizione di dieci anni. È realistico prevedere che l’imputato raggiunto da prove sufficienti possa essere condannato in primo grado entro quattro anni (tra indagini e dibattimento). Se la mancata conclusione dell’appello entro due anni fa scattare l’improcedibilità, tutto svanisce in sei anni, ovviamente molto meno dei dieci previsti dalla legge al netto di ogni  blocco.

Secondo alcuni, la riforma Cartabia tutto sommato andrebbe sostenuta perché il suo vero obiettivo è spingere i magistrati ad essere più efficienti nella fase dell’appello, che spesso costituisce un vero e proprio collo di bottiglia nel sistema.

Resta però che i processi non si velocizzano per decreto, ma con misure adeguate che supportino efficacemente il lavoro dei magistrati.

A partire dall’abolizione del “divieto di reformatio in peius”: se soltanto l’imputato ricorre contro la sua condanna, questa non può essere peggiorata neppure di un giorno o di un euro. Morale? Non rischiando niente, tutti ricorrono sempre, il sistema si ingolfa e i processi non finiscono mai.

Mantenere un simile obbrobrio è puro masochismo processuale! A che serve? Di certo non a rendere la  giustizia più efficiente.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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