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Meglio di un Europeo

Donatella D’Acapito il . Cultura, Giovani, L'analisi, Società, Sport

Fa caldo. Troppo per studiare e troppo anche per raccontarsi le solite storie, le solite mezze frasi che dicono di una esistenza divisa fra la voglia d’essere qualcuno, magari un piccolo boss, e quella di essere solo un ragazzo.

La scuola è finita ma non per loro, i figli scordati di una istruzione che non si cuce addosso alle loro esigenze.

Vengono da “Torbella” – scritto e detto tutto attaccato – oppure da Torre Angela, Giardinetti, Pantano. Italiani, pakistani, romeni, albanesi, cinesi, russi, sinti, senegalesi, bengalesi: se fossimo in un quartiere della Roma bene, l’accento sarebbe messo sulla bellezza della multiculturalità e dell’idea di integrazione. E invece, quando parli in giro di istituti come questi, e in zone come queste, son quasi tutti pronti a dirti che parli del ricettacolo degli scarti delle scuole, quelle vere.

C’è un fondo di verità, in questo giudizio. Alcuni di loro vengono qui solo per assolvere l’obbligo scolastico, altri perché non hanno voglia di studiare. C’è chi ha già una vita segnata da precedenti penali e chi ha solo questa come alternativa, e per motivi economici e per motivi culturali. Qualcuno, invece, sceglie la scuola professionale perché ha le idee chiare, anche quando queste idee non corrispondono a quelle che i più sognano per i propri figli.

Potrebbe essere utile sospendere il giudizio per mettersi nei panni di ciascuno di loro. Chiedersi se la vita abbia dato a questi ragazzi un carico più grande di quello che i loro anni possono sopportare. Sarebbe utile e sarebbe anche corretto farlo per rompere quel circolo vizioso che vuole gli ultimi relegati a vita nel posto degli ultimi.

Allora io oggi mi incanto a guardare i miei scarti, questi ragazzi unici e bellissimi che non riesco proprio a tenere in classe, figuriamoci se riesco a tenerli fermi su una sedia…

Basta letteratura, basta discutere d’attualità. Stavolta lascio che siano loro a farmi lezione.

C’è chi è venuto a scuola col pallone e perciò si va tutti in palestra, ché tanto la dad ha lasciato a casa molti alunni. Ci saranno trentacinque gradi, lì dentro, ma è sempre meglio della lingua d’asfalto del cortile. Le squadre si fanno in quattro e quattr’otto senza un criterio preciso. Via le magliette e in qualche caso anche le scarpe, troppo nuove per giocarci a calcio.

Palla al centro e via! Già corrono, sudano, urlano. Si insultano e si abbracciano come fanno i giocatori veri. Esultano e si dannano per un gol. Si buttano su ogni pallone, tirano fortissimo e non si lamentano dei falli. Non esiste il fuorigioco, non esiste la rimessa laterale. Non esiste nemmeno quel po’ di spazio dalle pareti utile a non farmi tremare di paura ogni volta che qualcuno di loro si lancia per tenere in gioco la palla, incurante di poter scivolare e farsi male.

Adesso esiste solo il loro essere “ragazzi”.

È l’estate degli Europei, tifo Italia ma non mi è mai passato per la testa di vedere una partita. Invece stavolta mi perdo in questi 90 minuti che mi sembrano più emozionanti di una finale. Mi piazzo in un angolo con una sedia e tifo manco fossi una quindicenne.

Eccoli, i miei scarti preziosi. I miei Azzurri a maggioranza estera. Adolescenti che a volte ti fanno dannare, è vero, e di cui non sempre riesci a giustificare atteggiamenti e scelte. Ragazzi con cui devi scendere a patti nella speranza di ricordare loro che c’è una realtà diversa da quella brutta che spesso li circonda. Una realtà e un futuro possibile che possono sognare e realizzare, con fatica e col tempo. Sono quei ragazzi di cui don Lorenzo Milani diceva: “Se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Potrebbe risultare stancante occuparsi di loro, addirittura frustrante, quando ci si accorge che in certi casi anche la struttura scolastica rimanda al concetto di brutto. Ma, come ci ricorda lo sport, le soddisfazioni più grandi te le danno le sfide impossibili. E questa rischia di esserlo davvero, perché dovremmo giocare tutti nella stessa squadra, adulti e ragazzi. Niente maglie diverse, solo un’amichevole che prepari alla partita vera che è la vita.

Crediamo nella gioia di un gol ai supplementari, di un mondiale vinto o di un record battuto. Mi piace pensare che molti di più sperino nella vittoria quotidiana e futura dei nostri giovani, perché questo sì che è meglio di un Europeo.

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Cosa non ci possiamo dire sulla DAD

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