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Addaura, l’attentato fallito a Falcone: prove di una strage

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Verso le 11 del mattino del 9 luglio 1996 mi trovavo nel mio ufficio di Caltanissetta e ricevetti una telefonata dell’avvocato Alessandro Bonsignore, con la quale mi comunicò che il suo assistito Giovan Battista Ferrante, uomo d’onore di San Lorenzo, voleva urgentemente essere sentito da me, ma che poi non avrebbe più potuto curare la sua difesa.

Nel pomeriggio mi recai a Palermo e iniziai l’interrogatorio. Ferrante ammise la sua partecipazione alla strage di Capaci, manifestando il proposito di dissociarsi da cosa nostra. Pochi giorni dopo iniziò a collaborare a pieno titolo e, il 15 luglio, aprì uno squarcio sulla verità di uno dei più misteriosi e inquietanti episodi stragisti, da cui tutto partì: il fallito attentato all’Addaura, a Mondello, che avrebbe dovuto essere eseguito il 20 giugno 1989, ai danni del giudice Giovanni Falcone e dei componenti della delegazione elvetica (il giudice istruttore Claudio Lehmann e il pubblico ministero sottocenerino Carla Del Ponte; il commissario di polizia Clemente Gioia) in quei giorni presenti a Palermo per il compimento di una rogatoria.

Ferrante mi raccontò che tre giorni prima Antonino Madonia aveva richiesto a Salvatore Biondino di procurargli l’esplosivo e che quest’ultimo, avuta l’autorizzazione da Salvatore Riina, si era attivato per recuperarlo, chiedendo il suo aiuto; prelevarono dal deposito clandestino, ubicato in un terreno di contrada Malatacca, alla periferia di Palermo, i candelotti rivestiti di carta oleata di colore marrone del tipo Brixia, riconosciuti dal collaborante in una foto che avevo mostrato in aula durante un’udienza del processo di Capaci e che ritraeva l’esplosivo rinvenuto il 21 giugno 1989 nella casetta metallica inserita nella borsa di plastica riposta sulla piattaforma in calcestruzzo antistante alla villa abitata nel periodo estivo da Giovanni Falcone.

Raccontò di essere certo che “l’artefice di tutto” fosse stato Antonino Madonia. Successivamente, Francesco Onorato confessò il proprio coinvolgimento nell’attentato e consentì con le sue dichiarazioni di ampliare le conoscenze sulle modalità organizzative ed esecutive, riferendo di una riunione preparatoria tenutasi presso l’abitazione di Mariano Tullio Troia, delle attività di sopralluogo svolte nella zona teatro dell’attentato e che era stato Angelo Galatolo a collocare “la borsa” contenente l’ordigno.

Gli esiti delle indagini eseguite, l’apporto di altri collaboratori di giustizia (fra i quali, Giovanni Brusca e, in seguito durante il giudizio d’appello, Antonino Giuffré e Baldassare Ruvolo) hanno consentito di ottenere importanti e granitiche verità, riconosciute da un duplice verdetto della Corte di Cassazione del 6 maggio 2004 e del 26 marzo 2007, che hanno individuato: Riina, quale mandante; Biondino, Madonia, Onorato, Vincenzo e Angelo Galatolo, quali esecutori del delitto di strage; Ferrante quale responsabile della detenzione e del porto dell’esplosivo.

Una verità che è stata corroborata, a seguito di una successiva indagine, dal rinvenimento dell’impronta del DNA di Angelo Galatolo sulla maglietta rinvenuta a ridosso dell’ordigno e che ha resistito ai tentativi di depistaggio dell’artificiere Francesco Tumino e derivanti dalle dichiarazioni del mafioso dell’Acquasanta Angelo Fontana, che si è accusato falsamente di aver partecipato all’agguato.

L’attentato è risultato diretto a uccidere, l’ordigno era nelle condizioni di esplodere e aveva un raggio di letalità pari a circa 60 metri. Fu preceduto da una raffinata intossicazione dell’informazione finalizzata al discredito e all’umiliazione di Giovanni Falcone, con la falsa accusa, contenuta in numerose lettere anonime, di aver impiegato il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno per catturare latitanti e per eliminare appartenenti al gruppo dei “corleonesi” e con la diffusione della falsa notizia di un incontro a Palermo di Tommaso Buscetta con il barone Antonino D’Onufrio.

Un’attività preparatoria capace di giustificare dinanzi all’opinione pubblica, l’uccisione del magistrato, di delegittimare i collaboratori di giustizia, che costituivano gli elementi probatori fondamentali del processo “maxi uno”, istruito dallo stesso Falcone, di scardinare il sistema antimafia con le sue proiezioni internazionali. Falcone doveva essere ucciso per motivi di vendetta, ma non solo.

A distanza di trentadue anni, non c’è più tempo per la verità giudiziaria perché il reato di strage si è prescritto. Non sarà più possibile dare un volto a quelle menti raffinatissime che potrebbero avere avuto un interesse convergente nell’ideazione dell’attentato e agli ulteriori esecutori intravisti, e per sciogliere i nodi irrisolti che vi ruotano attorno.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 25/06/2021

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Perché la mafia uccise Falcone

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