Referendum sulla giustizia. E’ possibile parlarne nel “merito”?
Dei sei referendum sulla giustizia si parla molto. Ai toni enfatici e propagandistici dei proponenti fanno da contraltare i commenti generici, allusivi, tattici di politici di altri schieramenti. In entrambi i casi l’indifferenza al contenuto effettivo dei quesiti referendari regna sovrana. Non è un bene. Solo entrando nel merito si comprende quanto siano vuote le formule che parlano di “questi” referendum come pungolo, utile stimolo o messa in mora dell’esecutivo e del parlamento per una nuova politica della giustizia. Di qui l’esigenza di esaminare più da vicino le “domande” che si vogliono porre ai cittadini e di misurane il significato e l’impatto sulla giustizia del nostro Paese.
Sommario: 1. Sulla scalinata del Palazzaccio… – 2. L’istituto del referendum e “questi” referendum. – 3. Sulla incandidabilità di persone condannate per gravi e gravissimi reati con sentenze definitive. Un quesito travolgente. – 4. Sul ruolo dei laici nei Consigli giudiziari. Un quesito discutibile e controverso. – 5. Sui presentatori delle candidature dei magistrati al CSM. Un quesito irrilevante e ingannevole. – 6. La riscrittura di un fondamentale presupposto della custodia cautelare. Un quesito boomerang. – 7. Sulla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Un quesito monstre. – 8. Sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Un quesito “ricorrente”. – 9. Concludendo.
1. Sulla scalinata del Palazzaccio…
Roma, 3 giugno 2021. Con il deposito di sei quesiti referendari in Cassazione inizia la campagna referendaria sulla giustizia.
Fedelmente, puntualmente, sinteticamente, il cronista – in questo caso è una cronista, Anna Maria Greco su Il Giornale – annota l’avvenimento.
Non rubiamole il mestiere, che conosce meglio di noi, e diamole la parola per introdurci rapidamente ai fatti.
«Sulla scalinata del Palazzaccio uno striscione annuncia: “Referendum Giustizia”. Lo espongono i promotori di Lega e Radicali, prima di entrare in Cassazione per depositare i sei quesiti. È il primo atto di una campagna che Matteo Salvini e gli altri aprono per pungolare governo e Parlamento su alcuni dei temi più delicati di questi anni.
Il secondo è la raccolta i primi di luglio delle firme necessarie per il via libera ai referendum: per la Costituzione ne servono almeno 500mila, il Capitano punta al doppio. Terzo atto, prima del 30 settembre, il deposito delle firme raccolte all’ufficio centrale per i referendum della Cassazione, che dovrà vagliare la validità e il numero delle sottoscrizioni. Se dal Palazzaccio ci sarà il via libera, la parola passerà alla Consulta, per l’esame della legittimità costituzionale dei quesiti. E se sarà superato anche questo, il quinto e ultimo atto sarà la convocazione alle urne, in genere in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno (salvo rinvii per eventuale scioglimento delle Camere).
In Cassazione, accompagnano Salvini, Giulia Bongiorno, Jacopo Morrone e il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, per i Radicali ci sono il segretario Maurizio Turco, Irene Testa e l’avvocato Giuseppe Rossodivita».
Sulla scena animata e tormentata della giustizia italiana irrompono dunque, ancora una volta, i referendum, investendo profili diversi – o meglio estremamente disparati – dell’assetto della giustizia penale e della magistratura.
I promotori li presentano – e ancor più lo faranno nel corso della raccolta delle 500.000 firme necessarie a sostenerli – come tasselli di un programma di rinnovamento e come atti di impulso dell’iniziativa riformatrice in tema di giustizia.
Di qui l’interesse di una Rivista come la nostra a guardare i quesiti più da vicino, nella loro oggettiva sostanza e nei loro possibili effetti.
2. L’istituto del referendum e “questi” referendum
L’indiscutibile valore, nel quadro della nostra democrazia, dell’istituto referendario deve sempre misurarsi con il concreto impiego dello strumento. Valutandolo di volta in volta in termini politici e di coerenza giuridica ed istituzionale.
In questo caso l’esito della valutazione è particolarmente impietoso.
Già sul piano politico appare sorprendente e discutibile che una forza politica che sta al governo promuova o si accodi a referendum abrogativi su temi di giustizia nel momento in cui è in atto, su tale terreno, una complessa iniziativa legislativa della compagine governativa di cui fa parte.
Concepito come mezzo classico a disposizione di minoranze estranee al potere per promuovere l’abrogazione di leggi ritenute ingiuste o non più adeguate, il referendum viene messo in campo come mezzo di pressione di chi il potere lo ha già e decide di usare l’arma referendaria per sovrapporre i suoi obiettivi all’indirizzo politico di maggioranza o per alterarlo e condizionarlo dall’esterno.
Ma è sul versante istituzionale e giuridico – quello che qui più interessa – che i quesiti referendari rivelano i loro aspetti più sconcertanti.
Non solo occasionalità e frammentarietà, che potrebbero essere giustificati dalla intrinseca natura del referendum abrogativo, ma anche, e soprattutto, improvvisazione e sovrana indifferenza alla tenuta (ed all’immagine) delle architetture alle quali si propone di sottrarre, in taluni casi, delle vere e proprie pietre portanti e, in altri, mattoni più o meno significativi.
Una prima, rapida rassegna delle domande che si vogliono porre ai cittadini varrà a dimostrare che queste notazioni non sono il frutto di un pregiudizio.
Al contrario: la speranza è che, collocando la discussione sui referendum sul solido terreno dei fatti istituzionali e delle norme coinvolte, si riesca a sottrarre il necessario confronto ai toni politicisti, allusivi, di mero posizionamento tattico e di indifferenza al merito che lo stanno caratterizzando in queste prime battute.
E poiché già sull’effettivo tenore dei quesiti circolano sui media molte notizie inesatte o fantasiose risulterà utile perfino la pedanteria del giurista che suggerisce di riportare per intero il testo di ciascun quesito cui far seguire brevi considerazioni.
Note impressionistiche e ancora assai poco approfondite, ma tali da introdurre i lettori in medias res, facendo comunque un significativo passo in avanti sul terreno di una informazione effettiva e sul merito degli obiettivi referendari.
Cominciamo.
3. Sulla incandidabilità di persone condannate per gravi o gravissimi reati con sentenze definitive. Ovvero: un quesito travolgente
«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?»[1].
A chi scrive è stato necessario controllare più e più volte che il testo del quesito sopra riportato – apparso dapprima come “testo provvisorio” sul sito del partito radicale – fosse effettivamente quello definitivo ed ufficiale.
Ora, la lettura della Gazzetta Ufficiale n. 132 del 4 giugno 2021 vale a dissipare ogni dubbio.
L’intenzione dei proponenti è di chiedere ai cittadini di abrogare l’intero testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità (il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235).
Parliamo di una normativa estremamente articolata e complessa – elaborata dal Governo in attuazione di una delega legislativa – destinata a regolare le ipotesi di incandidabilità (di persone condannate con sentenze definitive per reati gravi o gravissimi) a “tutte” le cariche elettive decisive per il corretto funzionamento della democrazia e dell’amministrazione pubblica e ad introdurre un parallelo divieto (per coloro che sarebbero incandidabili alle elezioni) di assumere cariche di governo nazionale.
Il Testo Unico contiene infatti le norme che precludono la partecipazione alle competizioni elettorali per il Parlamento europeo, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali di mafiosi, terroristi, rei di fatti di corruzione e di altri gravi reati, che siano stati condannati in via definitiva.
E’ perciò ingannevole la vulgata per cui il referendum sarebbe indirizzato solo contro la norma (l’art. 11 del Testo Unico) che disciplina la sospensione (anche a seguito di una condanna non definitiva per determinati reati) e la decadenza di diritto (a seguito di una condanna definitiva) degli amministratori locali in condizione di incandidabilità.
Certo, la radicalità del quesito potrebbe essere rivendicata dai proponenti come manifestazione di fiducia estrema nella funzione rieducativa di una pena ormai scontata. Ma non si comprende come questa impostazione possa essere fatta propria da chi, accodatosi successivamente all’iniziativa referendaria, professa quotidianamente in questa materia opinioni totalmente diverse.
Oltre che discutibile, il quesito referendario risulterà anche inammissibile?
Se, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, si esclude la possibilità di “reviviscenza” delle norme regolatrici delle incandidabilità anteriori al testo unico, l’inammissibilità del quesito sembra per più ragioni l’opzione obbligata.
Da un lato l’eterogeneità delle disposizioni racchiuse nella legge preclude all’elettore ogni possibilità di compiere una scelta chiara ed univoca nel rispondere con un si o con no al quesito posto.
Dall’altro lato, le regole sulle incandidabilità hanno un così stretto collegamento con principi e norme della Costituzione da far ritenere che nessun referendum abrogativo possa cancellarle in toto senza incidere, alterandoli, sui fondamentali meccanismi di provvista degli organi democratici e sugli equilibri costituzionali.
Queste prime osservazioni vanno lette anche come un saggio della “qualità” – sul piano culturale e tecnico giuridico – dell’iniziativa referendaria di cui stiamo discutendo e rappresentano, sotto questo profilo, un utile viatico nel percorso di lettura degli altri quesiti.
4. Sul ruolo dei laici nei Consigli giudiziari. Ovvero: un quesito discutibile e controverso.
«Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?».
Il quesito investe le modalità di partecipazione dei componenti laici ai lavori dei Consigli giudiziari e del Comitato direttivo della Corte di cassazione.
Partecipazione che i promotori intendono rendere piena, estendendola a tutte le attività di tali organismi, inclusa quella di formulazione dei pareri sulle valutazioni di professionalità dei magistrati che il ddl n. 25 del 2006 riserva solo ai componenti magistrati.
Tale estensione è affidata all’abrogazione delle norme che attualmente limitano l’apporto dei laici a profili generali di natura organizzativa (pareri sulle tabelle degli uffici, sui criteri di assegnazione degli affari, sulla sostituzione di giudici impediti) e – con riguardo ai Consigli giudiziari – alle funzioni di vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari ed alla materia dei pareri sull’organizzazione e sul funzionamento dei giudici di pace del distretto. Si ricorderà che in una prima formulazione l’art. 26 del disegno di legge delega sulla proposta di modifica normativa dell’ordinamento giudiziario, rubricato «Riforma del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario, delle valutazioni di professionalità e della progressione economica dei magistrati» assegnava ad un decreto legislativo delegato il compito di «introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari (dei Consigli giudiziari, n.d.r.) di assistere alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25».
Successivamente l’articolo 3 del disegno di legge delega di riforma del Ministro Bonafede (AC n. 2681, presentato il 20 settembre 2020) indicava come linea direttrice per il legislatore delegato «il riconoscimento del diritto ai componenti non togati di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni delle pratiche relative alla progressione in carriera trattate dal consiglio giudiziario», ampliando così la sfera di azione dei laici chiamati non solo ad assistere ma anche a discutere.
A seguito di tali proposte e dell’iniziativa di alcuni Consigli giudiziari – che avevano autonomamente riconosciuto ai componenti laici dei Consigli un diritto di parola e di intervento anche nelle discussioni riguardanti le valutazioni di professionalità – si è svolto in magistratura e sulle pagine di Questione Giustizia [2] un significativo confronto sull’esistenza o meno e sull’ampiezza da attribuire al c.d. diritto di tribuna dei membri dei Consigli non togati nella materia delle valutazioni di professionalità
Diritto da taluni negato in radice, da altri interpretato come un diritto di “stare in tribuna” assistendo ai lavori e da altri ancora come un diritto di “parlare dalla tribuna”, concorrendo così attivamente all’opera di formulazione dei pareri sulle valutazioni professionali.
Il referendum ha come scopo di andare ben oltre questo confronto, riconoscendo ai componenti laici una competenza piena e paritaria nella delicata materia dei pareri sulla professionalità.
Un approdo destinato, come si può immaginare, a suscitare discussioni e controversie se si ha presente che ad avvocati che esercitano la professione in un distretto di Corte d’appello sarebbe affidato un ruolo attivo nel redigere pareri su magistrati che incontrano quotidianamente nel loro lavoro come controparti o come decisori di cause da loro patrocinate.
Non solo sarebbero possibili – si badi: in egual misura – ostilità preconcette e indebite compiacenze, ma, quel che più conta, sul compito difficile e delicato di valutare la professionalità dei magistrati potrebbero addensarsi sospetti capaci di inquinare le determinazioni consiliari e di privare della necessaria serenità i magistrati destinatari dei pareri.
Ad avviso di chi scrive, è utile e maturo il riconoscimento di un ampio diritto di tribuna dei laici nei Consigli giudiziari, inteso come “diritto di parlare dalla tribuna”, fornendo un fattivo contributo di conoscenza e di giudizio ai fini della redazione dei pareri.
Tale forma di partecipazione- unita ad un maggiore impegno dei dirigenti degli uffici nel fornire informazioni complete e fedeli sull’attività dei magistrati – è infatti uno strumento indispensabile per migliorare la qualità delle attuali valutazioni di professionalità da molti ritenute, e con ragione, insoddisfacenti.
Non sembra invece desiderabile che la formulazione dei pareri, spesso decisivi per orientare le decisioni che spettano al CSM, si svolga nel clima di conflittualità e di sospetti che potrebbe derivare da una diretta partecipazione dei laici non solo alla discussione ma anche alle deliberazioni dei Consigli giudiziari.
5. Sui presentatori delle candidature dei magistrati al CSM. Ovvero: un quesito irrilevante e ingannevole
«Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”?»
Contrabbandato con la formula passepartout di mezzo di “contrasto al correntismo”, il quesito propone di cancellare dal sistema elettorale vigente la (esigua) lista di magistrati che presentano la candidatura di un loro collega alle elezioni per Il CSM.
Nel sistema elettorale atomistico oggi in vigore (nel quale non compaiono mai liste collettive ma solo candidature individuali) il numero dei presentatori delle candidature è già molto limitato – almeno venticinque presentatori – ed opportunamente circoscritto anche verso l’alto – non più di cinquanta presentatori – per scongiurare il rischio di candidature plebiscitarie.
Eliminando del tutto i presentatori delle candidature, il referendum propone di optare per un sistema di candidature individuali libere, prive di ogni preventivo supporto o sostegno.
Ora, immaginare che questa modesta escogitazione sia in grado di limitare efficacemente il ruolo delle aggregazioni collettive nelle elezioni significa non capire nulla di elezioni (non solo di quelle dei membri togati del CSM ma di qualunque elezione, che è fenomeno di per sé eminentemente collettivo), né di candidature e meccanismi elettorali.
Pensare poi che l’abrogazione del limite di venticinque presentatori della candidatura nell’ambito di un corpo elettorale composto di circa novemila persone apra la strada a validi outsider, eliminando un significativo ostacolo al libero dispiegarsi delle energie di candidati non partecipi di alcuna aggregazione (sia essa di natura ideale, territoriale o peggio clientelare) equivale a non fare i conti con la realtà.
Sostanzialmente irrilevante sul piano giuridico il quesito rivela però il tratto che accomuna i diversi referendum: il loro carattere meramente propagandistico, la loro strumentalità, la loro inidoneità a risolvere problemi reali. In una parola la loro natura ingannevole.
6. La riscrittura di un fondamentale presupposto della custodia cautelare. Ovvero: un quesito boomerang
«Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?».
Come è sin troppo noto l’art. 274 del codice di rito elenca tre tipo di esigenze idonee a giustificare l’applicazione di misure cautelari: il pericolo di inquinamento delle prove, la fuga o il pericolo di fuga concreto e attuale e il pericolo di reiterazione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata.
A quest’ultimo elenco il codice aggiunge il pericolo di reiterazione di reati «della stessa specie di quello per cui si procede», aggiungendo: «Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni».
Sono appunto quest’ultime le disposizioni di cui i referendari sollecitano l’abrogazione, incuranti di generare un colossale squilibrio dell’intero impianto cautelare del codice.
Ciò significa che, se non vi sarà rischio di inquinamento delle prove (come avviene ad es. nel caso di un arresto in flagranza o nei casi di immediata evidenza di un attività criminosa), e se non ricorra un serio ed attuale rischio di fuga dell’indagato, le misure cautelari diverranno inapplicabili al di fuori della sfera ristretta dei delitti di criminalità organizzata, di eversione o commessi con l’uso della violenza o di armi.
Dunque, nell’ipotesi di successo del referendum, i potenziali autori “seriali” di gravi delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’economia, contro il patrimonio, contro la libertà personale e sessuale (purché non commessi con violenza) e così via, saranno inattingibili da misure cautelari motivate sulla base di una prognosi di ripetizione degli atti criminosi per cui si procede penalmente.
E’ naturalmente legittimo ritenere che una scelta così radicale, non condivisa da chi scrive, sia valida e desiderabile.
A patto però di impegnarsi a rispettarla in concreto. Non alimentando critiche feroci per le decisioni giudiziarie conformi al nuovo assetto cautelare disegnato dal referendum e non imprecando, alla prima occasione, contro il lassismo giudiziario incapace di impedire la prosecuzione di allarmanti attività delinquenziali.
Sul che, sia detto con franchezza, non scommetteremmo un euro.
Molto più realistico immaginare invece che pubblici ministeri e giudici dovrebbero prepararsi a subire le ondate di malcontento generate da decisioni obbligate ma incomprensibili a vasti settori di opinione pubblica e che la giustizia italiana ne subirebbe un ulteriore pregiudizio di immagine e di credibilità.
7. Sulla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Ovvero: un quesito monstre
«Volete voi che siano abrogati: l'”Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.”?».
E’ il quesito più complicato ed astruso. Ben cinque le leggi coinvolte dalla iniziativa referendaria. Una lunghissima serie di quesiti di ardua lettura e comprensione anche da parte degli addetti ai lavori.
L’intenzione è di tagliare tutti i ponti tra giudici e pubblici ministeri, disarticolando il concorso di accesso alla magistratura, la normativa che regola i limitati passaggi oggi esistenti tra le due funzioni, bloccando i percorsi formativi che accompagnano i mutamenti di funzione.
Ancora una volta, come avviene per altri quesiti referendari qui passati in rassegna, ai proponenti non interessano affatto i richiami alla realtà del fenomeno sui cui vogliono incidere: il numero estremamente limitato dei passaggi di funzioni tra magistrati requirenti e giudicanti; i severi paletti normativi posti a tali passaggi (che implicano il trasferimento ad un altro distretto di Corte di appello); la sostanziale eccezionalità dell’eventuale mutamento di funzioni nell’arco della vita professionale di un magistrato e gli ausili formativi che lo accompagnano.
E’ l’effetto simbolico che domina incontrastato, il messaggio che si vuole inviare ad una opinione pubblica frastornata dai clamori sulla giustizia per orientarla verso una soluzione additata come salvifica.
Lo sappiamo: sono in molti a ritenere che la separazione delle carriere sia un traguardo da raggiungere con ogni mezzo a disposizione.
E sono molti, soprattutto nel ceto politico, a volere ardentemente un pubblico ministero “avvocato della polizia”, privato dello statuto di indipendenza di cui gode attualmente e ricondotto nella sfera dell’esecutivo.
Resta invece più difficile da comprendere l’ansia di molti avvocati penalisti di assistere alla replica italiana dei processi all’americana che iniziano con la formula «lo Stato dell’Alabama contro l’imputato XY» che sottolinea, sin dall’esordio, l’immenso squilibrio di potere tra accusa e difesa.
La realtà potrebbe rivelarsi ben diversa dalla figura del pubblico ministero che si presenta al giudice «con il cappello in mano» propagandata in anni ormai lontani dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a sostegno di una proposta di legge del suo Ministro della Giustizia, Angelino Alfano [3].
Ed ugualmente ci appare incomprensibile il desiderio degli avvocati di avere di fronte non più il pubblico ministero tenuto ad agire come parte imparziale nelle indagini e primo garante dei diritti dell’imputato ma un accusatore “puro” interessato, anche per ragioni di carriera, a vincere il processo.
Gettiamo la spugna: dopo anni di discussioni e di confronti abbiamo perso la speranza di convincere sul punto questi nostri stretti interlocutori e non replicheremo qui le ragioni di natura professionale ed istituzionale che militano contro il progetto separatista, ragioni che occupano molte pagine di scritti giuridici e di articoli pubblicati anche sulle colonne di Questione Giustizia.
Ma a tutti – politici, avvocati, cittadini – bisognerà ricordare che la separazione delle carriere e il mutamento dello status del pubblico ministero potranno essere frutto solo di modifiche radicali dell’assetto costituzionale e della fisionomia del processo penale.
Non sarà l’impervia scorciatoia referendaria di cui parliamo a permettere di raggiungere la meta, grazie all’esercizio – in questo caso particolarmente maldestro – del taglia e cuci referendario.
Da questa attività è infatti scaturito solo un quesito chilometrico, oscuro, disomogeneo, assolutamente impossibile da ricondurre alla netta opzione tra un si ed un no all’interrogativo posto con il referendum.
Un quesito destinato, con ogni probabilità, a cadere sotto la scure della inammissibilità e magari proposto proprio al fine di alimentare una campagna vittimistica contro un eventuale diniego del giudice costituzionale allo svolgimento del referendum.
8. Sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Ovvero: un quesito “ricorrente”.
«Volete voi che sia abrogata la Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1,limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2,limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1,limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa,”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”?».
Ultimo, ma non certo ultimo, anzi ricorrente, immancabile [4], il tema della responsabilità civile diretta dei magistrati.
Prima di gettare lo scandaglio sul testo del quesito referendario, una considerazione di senso comune che si è costretti a ripetere, nonostante la sua assoluta ovvietà.
Data la natura degli interessi in gioco nelle migliaia di cause civili e penali quotidianamente celebrate nel nostro Paese (libertà, onore, reputazione, risarcimenti di danni modesti, ingenti o ingentissimi, tutela di diritti patrimoniali e di impresa etc.) nessuna persona sensata può pensare che un’azione civile “diretta” contro il magistrato che abbia sbagliato aumenti le garanzie di ristoro economico del danneggiato.
Il magistrato è di regola un “salariato dello Stato” che vive del proprio lavoro e che, anche in ragione delle giuste preclusioni poste alle fonti di guadagno diverse dalla sua retribuzione, nella stragrande maggioranza dei casi, non dispone di un cospicuo patrimonio.
A fronte di danni ingiusti provocati dall’attività giudiziaria, l’unica vera ed effettiva garanzia economica del cittadino è dunque quella offerta dallo Stato. Come prevede la normativa oggi in vigore nel nostro Paese e come ripetono incessantemente le alti Corti italiane ed internazionali.
E’ giustificato che le norme in materia di responsabilità dei magistrati prevedano – oltre alle conseguenze penali e disciplinari, che sono naturalmente le più incisive – anche una forma di responsabilità civile personale e diretta, id est una sanzione più propriamente economica per il magistrato che incorre in gravi “sbagli”.
Esattamente come prevede la legge sulla responsabilità civile, la n. 117 del 1988, oggi in vigore [5].
Ma, al di là di questo, è una mera illusione far credere ai cittadini che il magistrato che sbaglia potrà effettivamente risarcirli di tasca sua.
Questo lo sanno tutti? Forse. Anche se non tutti lo dicono, preferendo insistere sul topos del “chi sbaglia paga” da applicare per eguaglianza ed equanimità anche ai magistrati.
Spesso tacendo volutamente che non ogni smentita dei giudici dell’impostazione accusatoria del pubblico ministero, non ogni assoluzione, non ogni riforma in appello della sentenza di primo grado, non ogni annullamento di provvedimenti giudiziari da parte della Corte di cassazione sono la dimostrazione di un “errore” – e meno che mai di un errore fonte di responsabilità – ma l’espressione di una fisiologica dialettica alla quale l’ordinamento affida la più elevata possibilità di ottenere decisioni giuste.
Ricordato l’abc, del quale comunque molto si dovrà discutere nel corso di una eventuale campagna referendaria, si può ritornare agli aspetti tecnico- giuridici del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati.
L’analisi delle formulazioni normative che i proponenti intendono far abrogare e la lettura della normativa di risulta consegnano all’interprete non poche incertezze.
L’impressione – ma allo stato solo di una impressione si tratta – è che i referendari mirino ad affiancare all’azione di responsabilità nei confronti dello Stato una parallela ed autonoma azione civile “diretta” contro il magistrato.
Un’azione che – per quanto si è prima accennato sulla limitatezza e sulla incapienza dei patrimoni dei magistrati – il cittadino che si ritenga danneggiato eserciterebbe non tanto per essere effettivamente risarcito ma piuttosto per dare uno sbocco alle critiche, ai risentimenti, alle avversioni maturate nel corso di un giudizio a lui sfavorevole.
Le parti soccombenti in giudizi civili di vitale interesse, i condannati che ritengano ingiuste le iniziative e le decisioni adottate nei loro confronti avrebbero nell’azione civile diretta l’ultimo mezzo giuridico a disposizione e, già prima, nel corso dei giudizi, un’arma da brandire per influenzare e intimorire.
9. Concludendo
Se i referendum appaiono tessere sparse e disparate inidonei a comporre alcun mosaico ed ad esercitare stimoli positivi, sarebbe utile che la politica, nel discuterli, desse una prova di dignità e di onestà intellettuale, ragionandone nel merito e non usandoli solo come pretesti per inviare segnali e assumere posizioni di pura tattica.
Sinceramente, dopo tanti esempi di approssimazione e di vacuità, siamo scettici sulla possibilità che questo accada.
Resta la speranza che un esecutivo caratterizzato da una forte leadership e dalla presenza di una Ministra della Giustizia di vasta e solida cultura istituzionale sappiano guidare con mano ferma il percorso riformatore della giustizia di cui c’è bisogno.
Il rapporto che si è “guastato” tra magistrati e cittadini potrà essere ricostituito solo da comportamenti collettivi adeguati all’altezza ed alla delicatezza delle funzioni giudiziarie.
Ma è altrettanto indispensabile che il legislatore disegni una cornice istituzionale adeguata a favorire un pieno recupero di credibilità della magistratura italiana.
Ed a questo scopo c’è bisogno di buone leggi e non di referendum improvvisati.
* Direttore di Questione Giustizia
Note
[1] L’art. 1, comma 63 della legge 6 novembre 2012, n. 190 conteneva la seguente delega legislativa al Governo: «Il Governo è delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di amministrazione e di presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all’articolo 114 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267, e successive modificazioni, di presidente e di componente degli organi esecutivi delle comunità montane».
[2] Cfr., al riguardo, S. Perelli, Diritto di tribuna agli avvocati nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, in questa Rivista on line, 6.11.2019 e P. Cervo, Diritto di tribuna e consigli giudiziari: perché dire no, in questa Rivista on line, 25.11.2019.
[3] Su questo tema mi sia consentito rinviare ad un mio scritto, N. Rossi, Avvocato della polizia. Storia recente e minacce sul futuro del pubblico ministero, in questa Rivista, 2010, fasc. n. 1.
[4] Il senso di déjà vu che traspare dal testo non è segno di pregiudiziale insofferenza verso il referendum in esame ma deriva piuttosto dalla pluralità di interventi da lui pubblicati sul tema nella fase iniziale della collaborazione con Questione Giustizia. Ci riferisce ai seguenti articoli: N. Rossi, I referendum sulla giustizia in questa Rivista, 1986, pp. 1-31 (scritto in collaborazione con M. Pivetti); N. Rossi, La responsabilità civile dei magistrati, in questa Rivista, 1986, pp. 901-931 (scritto in collaborazione con M. Pivetti); N. Rossi, La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati e gli organi collegiali, in questa Rivista, 1988, pp. 241-270. Per una accurata ricostruzione storica del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati è d’obbligo il riferimento a E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari, Laterza , 2018, cap. V, par. 7 , pp. 207 e ss. Vedi inoltre G. Palombarini, G. Viglietta, La Costituzione e i diritti. Una storia italiana, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011. Ampia la letteratura giuridica sull’argomento: cfr. G. Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento. Prospettive di riforma, in Giurisprudenza costituzionale,1982, I, p. 780 e ss.; M. Cappelletti, Giudici irresponsabili?, Giuffrè, Milano, 1988; A. Pignatelli, Responsabilità civile e indipendenza dei magistrati, in questa Rivista, 1986, n.3 p.576 ss. . A. Giuliani, N. Picardi, La Responsabilità del giudice, Milano 1987, p.205 e pp.247-248.
[5] L’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1998 stabilisce infatti che «La misura della rivalsa non può superare una somma pari alla metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L’esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore ad un terzo dello stipendio netto».
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