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A Catania il 90 per cento degli imprenditori non denunciano il pizzo

Di Laura Galesi il . Sicilia

A Palermo si chiama “mesata”, a Catania “stipendio”, ma è comunemente conosciuto come “pizzo”: quella “tassa” illegittima che come un cappio strangola l’economia siciliana, costretta a subire le conseguenze di questo fardello. E’ stato presentato a Catania, alla Facoltà di Scienze Politiche,  Il Cappio. Pizzo e tangenti strangolano la Sicilia, scritto a quattro mani dal giornalista di Repubblica Enrico Bellavia e dal giudice della Direzione nazionale antimafia Maurizio De Lucia, l’Asaec – Associazione antiestorsione “Libero Grassi” di Catania – è riuscita nel tentativo di scoprire il velo che fa ombra sul fenomeno dell’estorsione in Sicilia, dando voce a chi, per mestiere o per esperienza di vita, lo conosce o lo combatte quotidianamente. Un dato su tutti, significativo quanto allarmante: la stragrande maggioranza delle attività economiche sul territorio etneo sono sottoposte ad estorsione e il 90% di chi subisce il pizzo non denuncia. A confermarlo è stato Bruno Di Marco, presidente della II sezione Penale del Tribunale di Catania: «I maxi processi per estorsione – ha sottolineato Di Marco – non sono nati da denunce delle singole vittime, ma dai nomi, dalle cifre e dagli indirizzi emersi dai “libri mastri” sequestrati». Paura, sfiducia nello Stato o convenienza? Alla presenza del questore di Catania, Domenico Pinzello, le risposte sono arrivate da un dibattito che ha alternato alle riflessioni degli autori le significative testimonianze di chi, come Saro Barchitta, imprenditore e presidente dell’Associazione antiracket di Scordia, ha detto “no al pizzo”. Giustizia e stampa, un giudice e un giornalista: entrambi sul campo, entrambi uniti nell’idea che il vero contrasto alla criminalità organizzata deve partire dal basso, per poi risalire ai livelli più alti: «La forza del “sistema mafia” è il suo radicamento sul territorio – ha affermato De Lucia – occorre un lavoro sistematico di individuazione di tutti i soggetti perseguibili, per riuscire a sottrarre territorio all’illegalità. Sarà poi compito delle Istituzioni riappropriarsene, colmando i vuoti di potere che si creano». Il libro, che ha richiesto oltre un anno di lavoro, «devono leggerlo i non siciliani – ha spiegato Bellavia – lanciando il messaggio che è possibile liberarsi da un’aria economica divenuta irrespirabile, che è possibile dire di no al racket: gli alibi sono crollati, l’apparato repressivo funziona, la messa in sicurezza di chi denuncia è ormai una realtà. Per vincere la battaglia serve il sostegno delle Istituzioni e delle Associazioni a tutela del singolo, dall’atto di denuncia in poi. E’ necessario non abbassare mai la guardia e rendere pubblici gli arresti». Qual é dunque la strada da seguire? Quale la “strategia” migliore per rompere i silenzi? Rassicurare l’imprenditore estorto, garantendo una tutela fisica ed economica lungo il percorso giudiziario, potrebbe essere un buon punto di partenza. «L’Asaec – ha affermato il presidente Linda Russo Zangara – ha sempre sostenuto e incoraggiato gli imprenditori a denunciare, la fiducia non deve mai venire meno, c’è la certezza dell’aiuto e un reale sostegno per chi compie questa scelta virtuosa. L’incontro di oggi è segno di una presa di coscienza della reale portata del fenomeno in Sicilia e di come l’unione delle forze può e deve avere la meglio». Dall’intervento del consigliere della Corte d’Appello di Catania Marisa Acagnino e dal lavoro di tesi realizzato da Alfio Stissi sono emersi i dati sul “mercato” dell’usura nella città etnea, i lunghi tempi giudiziari e la complessità del sistema criminale catanese, che «a differenza della gerarchia strutturata di “Cosa Nostra” palermitana – ha sottolineato la Acagnino – si fonda sull’alleanza tra clan che controlla singole “fette” di territorio».

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