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Il dolore, la rabbia e la buona giustizia

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Società

La tragedia del Mottarone ha provocato nel Paese rabbia e sdegno. A questi sentimenti si è ora aggiunto un diffuso sgomento, per il contrasto tra il Pm di Verbania che ha incarcerato i tre attuali indagati e il GIP che ne ha invece liberati due concedendo al terzo i domiciliari.

Sono moltissimi, forse tutti, a chiedersi come sia stato possibile. Stessi fatti, stesse prove, due magistrati della stessa sede giudiziaria che giudicano a poche ore l’uno dall’altro: eppure un quadro nero in un caso, decisamente “sbianchettato” nell’altro. Difficile da accettare.

Com’è difficile da spiegare che la quintessenza del mestiere del magistrato è l’interpretazione (cioè la ricostruzione dei fatti e l’individuazione della norma applicabile da adattare al caso concreto); e che i processi riguardano di solito vicende incerte, prospettate con versioni  divergenti o contrastanti. In ogni caso si tratta di accertare fatti che il giudice non ha visto, di cui non è stato spettatore, per cui la sua conoscenza è per definizione “debole”.

Quel che il sistema gli chiede è di valutare la persuasività (o la non persuasività) degli “indicatori” acquisiti con gli accertamenti. Indicatori che sono perlopiù controvertibili ma che, proprio per questo, richiedono la valutazione di un soggetto preposto per legge a prendere una decisione. L’accertamento deve avvenire secondo regole prefissate e stringenti, ma la valutazione del materiale raccolto è per sua stessa struttura opinabile: donde la necessità della motivazione, per consentire alle parti di contestarla e all’opinione pubblica di controllarla.

Negli ordinamenti che hanno più gradi di giudizio (come il nostro, dove Pm e GIP sono i primi due di una lunga serie) la possibilità di esiti contrastanti nei vari gradi è un dato, come dire, fisiologico. Comprensibilmente (soprattutto nei processi di maggior rilievo) può creare scandalo. E tuttavia, anche se può sembrare un intollerabile paradosso, la difformità di esiti può pure leggersi come segno di un sistema “sano”, in grado di  correggere i propri (eventuali) errori.

Difficile pensare che l’opinione pubblica e men che mai i familiari delle vittime si accontentino di queste considerazioni formali. Probabile che all’ipotesi “fisiologica” preferiscano quella di uno scarto patologico e che in qualche modo insorgano (specie di questi tempi, dopo che il “Sistema Palamara”, anche per il modo in cui viene “reclamizzato” dal suo autore, ha gettato sulla magistratura palate di fango). Vero che i magistrati possono risentire – poco o tanto, consapevolmente o meno – della cultura e degli umori della società. Ma è altrettanto vero che si insegna loro a condannare se ci sono le prove anche quando la piazza reclama l’assoluzione, e viceversa ad assolvere se le prove non ci sono.

Ovviamente non posso lasciare il piano dei principi per entrare nel merito del caso della funivia, schierandomi col PM o col Gip a riguardo delle misure cautelari adottate.

Voglio però concludere (anche dando per scontato che una tragedia come quella della  funivia spinge per sua stessa natura ad enfatizzare le reazioni emotive) che occorre comunque evitare – parafrasando Piero Calamandrei – che il  “severo tempio della giustizia” si trasformi in un “allucinante baraccone da fiera”. Se accadesse, sarebbe un insulto proprio alle vittime del Mottarone.

Fonte: La Stampa, 31/05/2021

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