Ergastolo ostativo: incostituzionalità esibita e ritardi del legislatore
Nel commentare l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale in tema di ergastolo ostativo, l’autore ripercorre i sentieri della Corti nazionali e sovranazionali, procede a una ricca anatomia della decisione, scrutina le soluzioni sinora messe in campo dal legislatore e dà conto del lavoro, compiuto e da compiere, dei magistrati di sorveglianza.
La decisione ed il lungo percorso per arrivarci
Con l’ordinanza 15 aprile 2021 n. 97, depositata l’11 maggio 2021, la Corte costituzionale, dopo una camera di consiglio significativamente prolungatasi dall’udienza del 23 marzo, ha rinviato all’udienza del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza del 3 giugno 2020, concernenti il paventato contrasto con gli artt. 3, 27 co. 3 e 117 co. 1 Cost. delle disposizioni contenute negli artt. 4 bis co. 1 e 58 ter ord. penit. e nell’art. 2 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito con mod. in l. 12 luglio 1991 n. 203, nella parte in cui precludono l’ammissione alla liberazione condizionale al condannato all’ergastolo per delitti commessi con finalità o metodo mafioso, che non abbia collaborato con la giustizia.
Preceduta ed accompagnata da una campagna stampa dai toni allarmati rispetto alle possibili decisioni assunte, spiegata mediante due comunicati stampa della stessa Corte costituzionale ed ulteriormente chiosata dal Presidente della Corte Giancarlo Coraggio nel corso di una conferenza stampa relativa a molti altri temi il 13 maggio, l’ordinanza segna un ulteriore storico passo nel percorso di progressivo bando dei meccanismi preclusivi assoluti all’accesso dei benefici penitenziari che il Giudice delle leggi porta avanti ormai da tempo.
In questo senso la pronuncia si pone in linea di continuità con gli interventi che si sono succeduti, con ritmo accelerato, negli ultimi anni e che progressivamente hanno intaccato le preclusioni assolute di cui all’art. 4 bis co. 1 ord. penit. in relazione ad esigenze umanitarie particolari (ad esempio la sent. 76/2017), e poi hanno toccato preclusioni particolarmente pervicaci, che alle prime si aggiungevano, come quella di cui all’art. 58 quater co. 4 ord. penit. In tale ultimo caso, per altro, le motivazioni della pronuncia offrono all’interprete una chiave di lettura che, ben più ampiamente del contesto in cui lo si è scritto con espressioni giustamente ormai celebri, paiono in grado di illuminare il senso stesso di una esecuzione penale costituzionalmente orientata: «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento» (sent. 149/2018).
Segnato l’orizzonte d’azione, restava però il profilo più problematico e cioè la compatibilità costituzionale e convenzionale in sé di quel meccanismo, contenuto nell’art. 4 bis co. 1 ord. penit., che non consente in tutti i casi alla magistratura di sorveglianza di indagare in modo individualizzato l’eventuale evoluzione positiva della personalità del condannato per reati che vi sono compresi (tra i quali quelli di mafia e terrorismo), poiché il legislatore ha apposto la condizione per ammettere una simile valutazione di merito che l’interessato abbia collaborato con la giustizia, facendo assurgere questo elemento a prova legale della rescissione da parte sua del vincolo associativo con il gruppo criminale di riferimento.
Questo meccanismo ostativo è stato toccato, attraverso strade diverse, ma convergenti negli esiti fondamentali, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 13 giugno 2019 Viola n. 2 contro Italia e poi dalla sent. Corte Cost. 253/2019. Come noto, la prima ha concluso per l’incompatibilità convenzionale della preclusione assoluta all’accesso alla liberazione condizionale da parte di un condannato alla pena dell’ergastolo che non abbia collaborato con la giustizia, sottolineando che tale collaborazione non può costituire l’unico parametro sul quale misurare l’eventuale percorso di cambiamento del condannato, poiché la scelta di non farlo potrebbe non connettersi con la perduranza del vincolo associativo, ma legarsi ad esempio al timore di subirne drammatiche conseguenze per sé e per i propri cari. La seconda, invece, che è giunta dopo la pronuncia della CEDU, ma sulla base di ordinanze di rimessione redatte prima di quell’essenziale decisione della Corte di Strasburgo, pronuncia l’incostituzionalità dell’art. 4 bis co. 1 nella parte in cui non prevede che ai condannati per reati di mafia possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter ord. penit., purché però siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo di un loro ripristino.
In quella sede, per altro, la Corte Cost. da un lato si arrestò prudentemente nei limiti del petitum rispetto al beneficio che gli interessati richiedevano, ma dall’altro ritenne comunque doveroso per evitare “una paradossale disparità”, che l’incostituzionalità fosse in via conseguenziale estesa alla posizione degli autori di reati diversi da quelli di mafia, ma pur sempre compresi nell’elenco dell’art. 4 bis co. 1, tanto più che rispetto a costoro, nonostante la scelta legislativa di comprenderveli, poteva risultare privo di giustificazione il requisito della collaborazione con la giustizia e la dimostrazione di una assenza di legami con un gruppo criminale organizzato (magari inesistente).
L’ordinanza 97/2021 non può dunque che essere letta come il precipitato di questi fondamentali precedenti, e tuttavia la Corte sceglie una strada diversa. Non ci si trova infatti di fronte ad una declaratoria di incostituzionalità in questo caso anche se si legge chiaramente che le disposizioni normative indagate “esibiscono” tale incostituzionalità. Si lascia tuttavia al Parlamento un anno di tempo per elaborare una modifica delle norme pertinenti, che da un lato sia coerente con le linee di indirizzo fornitele dalla Consulta, e dall’altro però eviti le conseguenze, ritenute gravi, di un intervento meramente “demolitorio”, come quello che la Corte avrebbe potuto assumere e che, si dice, avrebbe messo “a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa”.
La “posta in gioco”, come espressamente si afferma, appariva questa volta troppo alta, poiché la misura della liberazione condizionale è il massimo beneficio che può immaginarsi, in particolare, per il condannato alla pena dell’ergastolo. Si tratta infatti, ricorda la Consulta, di una misura dal significato tutto particolare: «l’accesso alla liberazione condizionale ha accentuato il proprio ruolo di riequilibrio nella tensione tra il corredo genetico dell’ergastolo (il suo essere una pena senza fine) da una parte, e l’obbiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato dall’altra». Non può però non ricordarsi, con lo sguardo e la prospettiva di un magistrato di sorveglianza, che l’istituto del permesso premio, sciolto dal meccanismo preclusivo assoluto con la sent. 253/2019, pur con le stringenti allegazioni sui collegamenti, cui si è fatto cenno, costituisce la vera e propria chiave di volta nel percorso trattamentale intramurario del condannato e la valutazione sulla sua concessione è quella in cui il magistrato di sorveglianza è chiamato a vagliarne i progressi ed a confrontarsi, di fatto una volta per tutte se l’esito è favorevole all’interessato, con la sussistenza di profili di pericolosità sociale ancora attuali. E’ in sostanza in quel momento che occorre effettuare il vaglio più rigoroso, nel caso dei condannati per reati di mafia, in relazione ai collegamenti con il gruppo criminale organizzato. Ed è infatti in relazione a quel beneficio che la Corte ha fornito importanti chiarimenti all’a.g. su come procedere al serio esame che risulta necessario.
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte costituzionale con l’ordinanza in commento procede da una mirabile, partecipata, sintesi, in cui si consente al lettore di apprezzare il percorso compiuto, dalla giurisprudenza costituzionale e dallo stesso legislatore, per armonizzare la pena perpetua ex art. 22 cod. pen. con il principio costituzionale dell’art. 27 co. 3, ed in particolare con l’indefettibile tensione di ogni pena verso il rientro in società della persona. Senza ripercorrere i passaggi di questa luminosa presa di coscienza di come l’unico “volto costituzionale della pena” dell’ergastolo sia quello che lo renda, ad un certo punto del pur lungo percorso penitenziario del condannato, modificabile in una pena che ha una fine, occorre ricordare come nella prospettiva della Consulta la liberazione condizionale, concedibile da un’autorità giudiziaria, allo stato dopo almeno ventisei anni di pena espiata, a rigorose condizioni, tra le quali il raggiunto sicuro ravvedimento, sia perciò l’unica ragione della sua compatibilità con la Costituzione.
D’altra parte si tratta di una ricostruzione che ben si armonizza anche con l’insegnamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo (con indirizzo seguito a partire dalla sentenza Kafkaris c. Cipro del febbraio 2008), che sottolinea come finisca per configurare un trattamento inumano e degradante, ai sensi dell’art. 3 CEDU, quello che non consente al condannato alla pena dell’ergastolo di poter contare sull’esistenza di un meccanismo certo di rivalutazione dei suoi progressi trattamentali, all’esito del quale, ove positivo, la pena perpetua possa interrompersi, consentendo il ritorno in società.
La sent. Viola c. Italia, per come già ricordato, ha riconosciuto che questo diritto alla speranza è in effetti tolto al condannato alla pena dell’ergastolo per reati di mafia che decida di non collaborare con la giustizia, perché la mera riducibilità della pena “de iure”, compatibile con l’affermazione secondo la quale l’interessato sceglie di non collaborare e dunque gli è offerta la possibilità contraria, in realtà si traduce in un impedimento “de facto” all’accesso, altrettanto incompatibile con i parametri convenzionali, perché le ragioni sottese alla non collaborazione si connettono tra l’altro ai timori per sé e per la propria famiglia ed impediscono che si parli perciò di una scelta libera.
Di qui, dunque, muove la Corte cost., ripercorrendo le ragioni che hanno già condotto alla sent. 253/2019 e riconoscendo che il meccanismo che considera la collaborazione con la giustizia quale prova legale della rescissione del vincolo associativo, idonea a far superare il giudizio di pericolosità sociale desumibile dal reato commesso, non è compatibile con gli art. 3 e 27 co. 3 Cost.
Tale assolutezza è infatti irragionevole, poiché basata su una equazione non sempre ravvisabile. Non è detto che la collaborazione sia sempre sintomo di un credibile ravvedimento, e allo stesso modo quindi il suo contrario “non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento”. Può esservi un approccio utilitaristico in chi collabora, può esservi una ragione diversa dal voler mantenere collegamenti con la criminalità organizzata in chi decide (ma non sceglie veramente) di non farlo.
Qui la Corte utilizza parole vibrate ed evidenzia come l’alternativa tra collaborazione e libertà e silenzio e carcere non possa che rivelarsi drammatica, in particolare se riferita a chi ha a suo carico una pena perpetua. Una drammaticità che la priva, per altro, della genuinità di intenti che, sola, ci consentirebbe di trarne elementi dirimenti in senso favorevole in ordine al cambiamento dell’interessato.
La collaborazione con la giustizia, in questa logica, non perde il suo rilievo centrale e la sua caratteristica di scelta idonea a rimuovere in modo privilegiato la presunzione di permanenza dei legami con il gruppo criminale di appartenenza dell’interessato, che deriva dall’esperienza del fenomeno mafioso, purché però sia lasciato spazio ad ulteriori strade.
Il precedente in materia di permessi premio e le prime pronunce di merito
La sent. 253/2019, per come già ricordato, ridefinita la presunzione di permanenza dei legami in assenza di collaborazione in termini relativi, delineava gli ulteriori presupposti idonei a rimuoverla, identificandoli nella necessità di fornire perspicue allegazioni contrarie in relazione all’attualità dei collegamenti e all’assenza di pericolo di un loro ripristino.
La magistratura di sorveglianza, successivamente a quella pronuncia, ha dunque iniziato a valutare le istanze di permesso premio che le persone condannate (a pena temporanea o all’ergastolo) per reati di cui all’art. 4 bis co. 1 ord. penit. le facevano pervenire, anche alla luce della nuova strada aperta dalla Consulta.
L’istanza di permesso premio è ordinariamente ammissibile, ove provenga da un condannato per taluno di quei delitti, innanzitutto quando l’interessato alleghi di aver collaborato con la giustizia (art. 58 ter ord. penit.), anche in una forma poi ritenuta irrilevante, ma in quest’ultimo caso soltanto ove applicate le circostanze attenuanti di cui agli art. 62 n. 6, o 114 o 116 co. 2 cod. pen., oppure di non essere in grado di farlo, pur volendolo, a fronte di un integrale accertamento dei fatti di cui alla sua condanna (collaborazione impossibile) oppure in ragione del ruolo marginale ricoperto nella compagine criminale organizzata di riferimento (collaborazione inesigibile), ipotesi contemplate nell’art. 4 bis co. 1 bis ord. penit., come forme surrogatorie della collaborazione effettiva, introdotte nel testo normativo all’esito di importanti, ormai risalenti, interventi della Corte costituzionale.
L’istanza è ora divenuta ammissibile anche quando l’interessato, pur silente rispetto ai profili collaborativi, alleghi significativi elementi dai quali sia deducibile che ha rescisso i suoi collegamenti con la criminalità organizzata e non vi è pericolo che li ripristini. Tali requisiti, ed in special modo il secondo, non derivabile dal testo normativo, ma di fatto aggiunto, in questa forma espressa, dalla Corte costituzionale, sono stati comprensibilmente oggetto dei timori della dottrina che ne hanno parlato come di una sorta di probatio diabolica per il condannato, chiamato a dar prova impossibile di qualcosa che si proietta nel futuro.
All’esito di poco più di un anno di concreta applicazione di questo nuovo meccanismo, al netto della contingenza per la quale i permessi premio, in ragione dell’emergenza pandemica, sono stati tra i benefici penitenziari più compromessi e meno utilizzati, si apprezza la lettura di un numero assai contenuto di prime concessioni, in particolare nei confronti di condannati alla pena dell’ergastolo. Si comprende dai numeri come sia stato esercitato con estrema prudenza l’apprezzamento che la Corte costituzionale ha restituito alla magistratura di sorveglianza e dalle motivazioni come appaiano valorizzati una serie di severi indici, idonei a riempire il giudizio prognostico richiesto all’a.g., e che potrebbe dirsi richiamino quelli descritti nell’art. 41 bis co. 2 bis ord. penit. come legittime ragioni di proroga della sottoposizione al regime differenziato in peius.
Ci si riferisce al vaglio relativo all’effettivo profilo criminale dell’interessato e della posizione dallo stesso rivestita nell’associazione di riferimento, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni, degli esiti del trattamento penitenziario (che da soli, ricordava la Corte costituzionale, non avrebbero potuto dirsi mai sufficienti) e del tenore di vita dei familiari.
E’ d’altra parte la stessa ordinanza 97/2021 a sottolineare come la sottoposizione al 41 bis concerna proprio i detenuti per i quali siano dimostrati e persistenti i legami con i gruppi criminali sul territorio e perciò, si aggiunge, sinché permanga l’assoggettamento a quel regime “l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile”. Viene con ciò utilizzata un’espressione che coglie un nesso di sicuro rilevante nell’esame di merito che la magistratura di sorveglianza è chiamata a fare delle istanze che le pervengano, ma che non può assurgere a causa di inammissibilità delle istanze di benefici penitenziari da parte di condannati ristretti al 41-bis. Quest’ultimo regime compendia, infatti, una serie di limitazioni alle regole intramurarie, imposte con decreto del Ministro, ma per antica giurisprudenza della stessa Corte costituzionale deve escludersi che invece le limitazioni possano attingere le misure «che incidono sulla qualità e quantità della pena, quali quelle che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali)» (sent. 349/1993). Si tratta di un insegnamento che appare confermato per altro dalle decisioni della S.C. che hanno censurato i provvedimenti della sorveglianza che, invece che valutare sul piano del merito le istanze pervenutele da condannati in 41 bis, opportunamente valorizzando gli elementi posti a base del decreto ministeriale nel confronto con l’intero compendio istruttorio a disposizione e con l’istanza dell’interessato, abbiano invece arrestato all’inammissibilità il proprio esame (cass. 21946/2020 e 9669/2016, non mass.).
Al condannato spetta fornire con la sua istanza elementi che, come ricordato ancora una volta nell’ordinanza in commento, è poi compito della magistratura di sorveglianza verificare mediante la più ampia istruttoria che ritenga necessaria e che, in quest’anno, si è ad esempio ritenuto di concretizzare nella richiesta di informazioni aggiornate alla DDA competente ed alla DNA, alle forze dell’ordine sul territorio, al Comitato per l’ordine e la sicurezza (come previsto già espressamente dall’art. 4 bis co. 2 ord. penit.) e naturalmente all’istituto penitenziario, che può fornirne tanto sulla condotta conforme alle regole e sulla disponibilità all’osservazione penitenziaria, in particolare evidenziandone la riflessione critica rispetto ai fatti di reato, quanto in ordine ai comportamenti concretamente assunti in carcere, ed eventualmente sintomatici ancora di approcci prevaricatori tipici della subcultura criminale di appartenenza. Anche a fronte dell’acquisizione di queste note, per altro, è garantita alla parte la possibilità di fornire elementi in grado di provare le proprie allegazioni e di superare quanto attestato dalle agenzie territoriali coinvolte dall’a.g.
La cassazione, poi, ha chiarito, dopo iniziali contrapposte decisioni, come l’opzione offerta dalla Consulta non si sovrapponga, eliminandone la pregnanza, alle ipotesi surrogatorie della collaborazione attiva (cd. collaborazione impossibile o inesigibile), ma vi si aggiunga, perché la sent. 253/2019 (l’ordinanza 97/2021 offre sotto questo profilo ulteriori spunti conformi), non ha toccato i contenuti dell’art. 4 bis co. 1 bis ord. penit. (cfr. sent. cass. 5553/2020 e 29151/2020).
I primi arresti di merito che aprono condannati all’ergastolo ostativo alla esperienza di permessi premio (si vedano ad esempio i decreti Mag. Sorv. Padova 17.07.2020, inedita, Mag. Sorv. Sassari 17.12.2020, inedita, Mag. Sorv. Siena 30.04.2021, inedita, e le ordinanze Trib. Sorv. Perugia 3.12.2020, in www.giurisprudenzapenale.it, 11.12.2020, e 15.04.2021, inedita) costituiscono, evidentemente, altrettanti tentativi di sperimentarsi con un istituto che richiede alla magistratura valutazioni complesse, che sono però il proprium del lavoro della giurisdizione rieducativa. I casi riguardano condannati ristretti in carcere da almeno vent’anni e in alcuni casi da quasi trenta. I permessi concessi sono generalmente limitati a poche ore (in un caso a tre giorni), al contesto locale, ben lontano dai luoghi di provenienza, vincolati in qualche ipotesi all’accompagnamento di volontari o familiari. In tutte le ipotesi giungono al termine di istruttorie complesse, in cui sono state coinvolte le Procure interessate e sono confluite molteplici fonti informative. Sempre vi si legge come sia sto scrutinato, con particolare acribia, il contesto socio-familiare esterno.
I giudizi di prognosi che sono ordinariamente affidati alla magistratura di sorveglianza non sono d’altra parte mai ciechi rispetto ai pericoli di recidiva nel delitto ove il condannato sia reimmesso, anche temporaneamente, nel contesto esterno, e poggiano invece su informative in ordine alla pericolosità che tanto più la aiutano a valutare correttamente quanto più sono approfondite ed aggiornate. Allo stesso modo l’a.g. utilizza i dati relativi all’osservazione penitenziaria, da cui apprezzare l’evoluzione della personalità del condannato in quel tempo della pena, che la Consulta più volte ci ha ricordato non dover mai essere parentesi ed occasione di mera incapacitazione, ma invece fecondo ed aperto al cambiamento; un tempo che si prolunga ed abbraccia mesi, anni ed intere stagioni di vita, come succede nel caso dei condannati alla pena dell’ergastolo.
In questa chiave l’effetto prodotto dalla sent. 253/2019 si è potuto cogliere, con gli occhi del magistrato di sorveglianza, anche negli istituti penitenziari, dove ha portato una ventata di aria nuova nelle Case Reclusione, in cui da decenni alcune persone erano ristrette, pietrificate in una dimensione in cui, non perseguita la scelta collaborativa, non sembrava più esservi spazio alla speranza. Non soltanto dunque alle persone detenute è stata fornita una nuova occasione per misurarsi con il proprio passato e con quel che resta del proprio futuro (in alcuni casi vengono oggi all’esame della magistratura di sorveglianza, per la prima volta nel merito, posizioni di condannati che hanno già affrontato più di due decenni di carcere effettivo), ma agli stessi operatori penitenziari si è chiaramente ricordato quanto sia fondamentale il loro lavoro di osservazione e trattamento, destinato, oggi più che mai, a fare la differenza.
Una incostituzionalità esibita ma non ancora dichiarata: il compito del legislatore
Se le questioni di costituzionalità a monte della sent. 253/2019 concernevano un beneficio, come il permesso premio, che avvia il percorso extramurario del condannato, qui la S.C. aveva richiesto alla Corte di intervenire sull’ultimo esiziale passaggio che consente all’ergastolano, ove la liberazione condizionale sia concessa dal Tribunale di sorveglianza, di riacquistare la libertà, seppur vigilata per cinque anni e, all’esito di questo ulteriore periodo, di ottenere l’estinzione della pena.
La Corte, dunque, ribadisce che anche in questo caso la collaborazione con la giustizia non può costituire l’unica via per superare l’ostatività assoluta, anche se il rifiuto di fornirla integra indubbiamente una presunzione relativa, vincibile mediante adeguate allegazioni, di mancata rescissione del vincolo associativo criminale. Tuttavia non le appare possibile qui pervenire immediatamente ad un accoglimento della questione, limitando eventualmente il suo intervento ortopedico a precisare di nuovo quali elementi integrativi debbono essere forniti alla magistratura di sorveglianza affinché quest’ultima possa considerare ormai insussistenti tanto i collegamenti attuali con la criminalità organizzata, quanto il pericolo di un loro ripristino.
Si fa riferimento ad una triplice “apicalità” dei profili che, posti alla sua attenzione in questa occasione, fanno la differenza: condannati per reati di criminalità organizzata mafiosa, per i quali sia stata inflitta la massima pena prevista nell’ordinamento (l’ergastolo) e che domandino la liberazione condizionale, il più ampio beneficio concedibile, quello in grado di sostituire al tendenziale “fine pena mai” una fine della pena.
Un intervento che si limitasse alla censura del meccanismo della ostatività assoluta in questo contesto finirebbe per minare, come già ricordato, “il complessivo equilibrio della disciplina” e le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, che ancor oggi non sono affatto affievolite rispetto al fenomeno mafioso. La Corte costituzionale, dunque, evocando esigenze di leale collaborazione istituzionale con il Parlamento, gli chiede di intervenire in modo sistematico, esercitando la propria discrezionalità tanto per evitare incongruità e disarmonie in una materia tanto importante, quanto per dettagliare adeguatamente come si debba declinare il concetto del sicuro ravvedimento di cui all’art. 176 cod. pen. rispetto ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, e si riserva però di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte.
Sotto il primo profilo la Corte pare evocare la conseguenza che deriverebbe, altrimenti, dall’accoglimento della questione, citando la parificazione della condizione temporale di accesso alla liberazione condizionale (ventisei anni di pena) per il condannato di mafia collaboratore e per il non collaboratore. Non ci si riferisce, evidentemente, in questo modo, alla disciplina premiale prevista nell’art. 16 nonies d.l. 8/1991 conv. in l. 82/1991, che consente al collaboratore di accedere, a particolarissime condizioni, alla liberazione condizionale dopo appena dieci anni di pena invece di ventisei. Il caso evocato dalla Consulta è piuttosto quello del condannato all’ergastolo che richieda la valutazione da parte del Tribunale di sorveglianza ai sensi dell’art. 58 ter ord. penit. Effettivamente, se ad essere richiesto è un permesso premio, tenuto conto del rinvio operato dall’art. 58 ter all’art. 30 ter co. 4 ord. penit., il condannato all’ergastolo ostativo collaborante potrà lucrarlo senza particolari quote di pena da espiare, a differenza di ciò che accade al condannato all’ergastolo non collaborante che, dopo la sent. 253/2019, può vedersi valutato nel merito, ove alleghi gli elementi sopra ricordati in materia di collegamenti, solo quando ha già espiato almeno dieci anni di pena. Se invece lo stesso soggetto richiede la semilibertà o la liberazione condizionale non ottiene un simile proporzionato vantaggio. Si tratta, per la verità, di una ipotesi che nella prassi è piuttosto residuale, però, proprio per il peculiare favor che la disposizione di cui all’art. 16 nonies garantisce a chi abbia collaborato nei modi e con l’utilità per la giustizia ivi ampiamente descritti e che comunque già oggi sussiste una parificazione (criticabile) tra chi abbia prestato collaborazione attiva e chi rivendichi l’impossibilità della propria collaborazione.
Per quanto concerne, invece, le scelte rimesse al legislatore circa la nozione di ravvedimento, la Corte costituzionale segnala alcune possibili strade che appaiono esplicitamente indicate a titolo di mero esempio. In questa chiave si citano «l’emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione» oppure «l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata» dell’eventualmente ammesso alla liberazione condizionale.
Deve ritenersi, perciò, che spetterà al legislatore misurarsi con la declinazione concreta di questi elementi. In questo senso, ad esempio, se nulla osta a tener conto di una maturata capacità da parte dell’interessato di verbalizzare le ragioni della sua passata mancata collaborazione, all’interno di un più vasto ripensamento delle proprie condotte di vita anteatte, non sarebbe ipotizzabile far dipendere da questa emersione la concessione della misura, poiché la Corte costituzionale, in particolare in alcuni luminosi passaggi della sent. 253/2019, ha chiarito come sussista un diritto al silenzio dell’interessato rispetto alle condotte che potrebbero condurlo ad una autoincriminazione (nemo tenetur se detegere) e come gli debba essere comunque sempre riconosciuta una libertà di non rendere dichiarazioni collaborative, dalla quale non possono derivare effetti negativi, mentre può al contrario premiarsi una eventuale condotta collaborativa.
In tal senso deve rilevarsi come sia la stessa Corte a ribadire che possono essere molte le ragioni, diverse dalla volontà di mantenere legami con il gruppo criminale organizzato, che possono leggersi alle spalle di una non collaborazione, drammatica fin quando vi si colleghi l’unica via per la fine della pena dell’ergastolo. Tra quelle citate dalla Corte ve ne sono alcune, come il timore di subire ritorsioni o di esporre i propri familiari alle stesse, che di fatto non appaiono circostanziabili a meno di non richiedere che l’interessato spieghi proprio ciò che non può dire, senza mettere a repentaglio se stesso o il suo nucleo familiare.
D’altra parte, invece, sembra che i contenuti della libertà vigilata che si dispone all’esito della concessione della liberazione condizionale ben possano essere adattati a differenziare tali misure ove concesse ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, mediante opportune prescrizioni di tipo riparatorio (già per altro sperimentate nella prassi dalla magistratura di sorveglianza, che ha ad esempio valorizzato la disponibilità ad adoperarsi in iniziative pubbliche di contrasto alla criminalità organizzata) oppure ancora con inibizioni rispetto al rientro in alcuni territori che, comunque, si ritengano inopportuni in rapporto all’operatività di gruppi mafiosi. In queste ipotesi, in sede di concessione della liberazione condizionale, ad essere significativa sarebbe ad ogni modo la sola disponibilità a sottoporvisi, mentre la valutazione sul concreto adoperarsi del condannato sarebbe rimessa al momento dell’estinzione della pena al termine del quinquennio.
Per quanto sin qui accennato, si comprende come il compito del Parlamento non sia affatto semplice e non è forse un caso che, pur avendo la sent. CEDU Viola c. Italia già richiesto un intervento del nostro legislatore per risolvere il problema, riconosciuto come strutturale, della ostatività assoluta della mancata collaborazione a consentire l’accesso da parte del condannato all’ergastolo per reati di mafia alla liberazione condizionale, non si sia pervenuti ancora, a distanza di quasi due anni, ad una modifica della disciplina.
La Consulta cita invece, quali segnali di dinamismo in tal senso, i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, che hanno elaborato una Relazione sull’istituto di cui all’art. 4 bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale datata 20 maggio 2020 e l’esistenza di un disegno di legge (A.C. n. 1951 XVIII legislatura), che seguiva la sentenza Viola, ma occorre dare atto che in effetti da entrambi non si è fino ad ora tradotto nulla in testo normativo.
Non può essere questa la sede per diffondersi adeguatamente sulle proposte contenute in particolare nella ampia Relazione della Commissione Antimafia che, per l’autorevolezza della fonte, impone una speciale attenzione. Può solo sottolinearsi come l’intervento, in cui emergeva la consapevolezza che la pronuncia in materia di permessi premio sarebbe stata presto seguita da probabili pronunce in relazione alle misure alternative alla detenzione ed alla liberazione condizionale, richiede che in sede normativa si preveda un’istruttoria più rigorosa ed ampia per decidere delle istanze che provengono dai condannati per delitti di mafia, nel più vasto novero dei reati di cui all’art. 4 bis co. 1 ord. penit., ove le stesse non concernano persone che abbiano collaborato con la giustizia (posizione da considerarsi comunque “privilegiata” nell’accesso ai benefici); che tali istanze siano corredate di allegazioni specifiche rispetto ai profili individuati dalla Corte cost. con sent. 253/2019; che sia coinvolta nell’istruttoria, tra gli altri, la Procura Nazionale Antimafia e che il raggio di approfondimento concerna gli elementi che, ad esempio, sono descritti nell’art. 41 bis ord. penit. co. 2 bis in materia di proroga; che sia previsto un termine congruo (trenta giorni) per l’attesa delle risposte istruttorie. Vengono inoltre prospettate due soluzioni alternative in ordine alla competenza alla concessione dei benefici penitenziari in tali ipotesi. La prima propone, per favorire una omogeneità nelle decisioni, la devoluzione al Tribunale di sorveglianza di Roma di tutte le istanze provenienti da condannati ai sensi dell’art. 4 bis co. 1 ord. penit., similmente a quanto accade per i reclami concernenti la legittimità della sottoposizione al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. penit. In questo caso anche le istanze di permesso andrebbero proposte all’unico organo collegiale, mentre dovrebbe rinunciarsi ad un grado di merito oppure immaginarsi la competenza di una sezione di Corte d’appello o dello stesso Tribunale di sorveglianza di Roma in altra composizione. La seconda ipotesi, invece, riguarda una variazione di competenza meno invasiva, con devoluzione delle sole concessioni di permessi premio direttamente al Collegio, ma quello territorialmente competente. In questo caso l’impugnazione di merito potrebbe venir meno, oppure essere affidata al Tribunale di sorveglianza di Roma o ad una sezione di corte d’appello.
Queste ultime soluzioni, a differenza di quelle sull’istruttoria (le uniche in qualche modo sollecitate dalla Corte costituzionale), che valorizzano scelte già in larga parte sperimentate con l’esperienza della magistratura di sorveglianza, appaiono esporsi, per la verità, a non pochi rilievi critici. Una competenza accentrata al Tribunale di sorveglianza di Roma, infatti, da un lato appare difficilmente percorribile in concreto per l’enorme mole di lavoro che vi si concentrerebbe, ma d’altra parte sembra anche porsi in contrasto con il normale riparto di competenza previsto in materia di sorveglianza, e poggiante sulla natura stessa di giurisdizione di prossimità che la caratterizza, con evidente frizione rispetto al principio del giudice naturale, anche in assenza di profili per i quali il tribunale di sorveglianza di Roma possa ritenersi portatore di una specializzazione in materia.
Anche la proposta di modifica della competenza con impegno nella concessione dei permessi premio in capo al Tribunale di sorveglianza territorialmente competente, in luogo del magistrato monocratico, pur meno dirompente, non sembra esente da criticità, poiché determinerebbe un impegno del Collegio rispetto ad un gran numero di posizioni, con conseguente notevole aggravio dei già sovraccarichi ruoli di udienza. Occorrerebbe poi precisarsi comunque che tale competenza concerna la sola concessione della prima esperienza premiale, altrimenti di fatto determinandosi la conseguenza di una ingestibilità di un percorso fatto di ripetute concessioni di permessi, che normalmente proseguono per opportuna continuità trattamentale, dopo il primo, senza la necessità di una ulteriore ampia istruttoria, a meno di segnalate involuzioni.
Un ultimo rilievo, pure contenuto nella Relazione, con riguardo alla necessità di prevedere termini più ampi delle sole ventiquattro ore previste per l’impugnazione dei permessi premio, infine, appare conforme a quanto medio tempore già statuito dalla Corte Cost. con sent. 113/2020 (che li ha portati a quindici giorni).
La proposta di legge (d’iniziativa B. Bossio) XVIII Leg. N. 1951, pure citata dalla Consulta, si segnala invece soprattutto per la volontà di precisare come le informazioni che si richiedono ai fini della concessione dei benefici non debbano contenere pareri, ma fornire invece elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto. Al di là della formulazione, si sottolinea un profilo importante, che ad esempio non è stato adeguatamente considerato dal legislatore nel descrivere come “pareri” le informative di cui al d.l. 28/2020, poi conv. in l. 70/2020.
Il compito della magistratura di sorveglianza in attesa dell’intervento del legislatore o della sentenza della Corte
Per come si è già provato a raccontare nelle pagine che precedono, l’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale tratteggia nitidamente l’incostituzionalità della disciplina attuale e costituisce perciò un passaggio epocale in ordine alla disciplina del c.d. ergastolo ostativo, da molto tempo attesa.
Pur rispetto alla particolare complessità della vicenda, coinvolgente diritti fondamentali e massime esigenze di sicurezza pubblica, la Corte non ha arretrato, anche se le è parso di intravedere spazi che soltanto il legislatore avrebbe potuto adeguatamente colmare. Non può non ricordarsi come invece in passato il self restraint della Corte rispetto alla assenza di “rime obbligate”, abbia condotto a dichiarazioni di inammissibilità di altrettante questioni di costituzionalità propostegli. Si pensi, solo per restare al mondo penitenziario, alla sent. 279/2013, nella materia scottante del sovraffollamento penitenziario, che era completata da un pur severo monito al legislatore. In quel caso, però, come purtroppo in altri, non si sono poi ottenuti dal Parlamento i risultati sperati. Si pensi alle inascoltate proposte degli Stati Generali dell’esecuzione penale ed alle numerose soluzioni indicate dalla Commissione di riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso, che operò a cavallo degli anni 2016-2017, poi non confluite in significative novelle normative, in particolare in materia di misure alternative alla detenzione.
Proprio dalle Proposte di riforma licenziate in quella sede (cfr. Commissione Giostra, Il Progetto di riforma penitenziaria, Nuova editrice universitaria, 2019), per altro, potrebbero oggi trarsi spunti utili ad un complessivo ripensamento ed ammodernamento dell’istituto della liberazione condizionale, ed in particolare della nozione di ravvedimento, già tanto criticata in dottrina per i suoi possibili connotati moralistici, un’occasione che la stessa Corte costituzionale, con la sua autorevolezza e con lungimiranza, sembra effettivamente evocare con l’odierna pronuncia. Allo stesso modo nei documenti degli Stati Generali potrebbero rinvenirsi schemi utili di intervento sulla disciplina assolutamente ostativa dell’art. 4 bis co. 1 ord. penit.
Certo, il giudice delle leggi nel caso, per molti versi analogo, del permesso premio, era pervenuto alla soluzione dell’incostituzionalità, ma i requisiti per accedervi sono descritti in modo sicuramente meno impegnativi del ravvedimento. Si era per altro pronunciata anche con riguardo alla posizione, che altrimenti ne sarebbe risultata discriminata, dei condannati per reati rientranti nel disposto dell’art. 4 bis co. 1 ord. penit., ma non di mafia. Con l’ord. 97/2021 ha invece ritenuto che, rispetto a temi apicali sotto il triplice profilo sopra ricordato, il rischio di eventuali discrasie ed incongruenze fosse troppo elevato.
Anche con la sent. 149/2018 la Corte aveva proceduto diversamente, ricordando che la pronuncia avrebbe pur potuto creare disparità di trattamento, ma che tale consapevolezza non poteva «costituire ostacolo alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, ciò in base al costante insegnamento della giurisprudenza costituzionale, secondo cui anche se qualunque decisione di accoglimenti produce effetti sistemici, questa Corte non può tuttavia negare il suo intervento a tutela dei diritti fondamentali per considerazioni di astratta coerenza formale (sent. 317/2009)». Doveva essere il legislatore a porvi rimedio. Si trattava però di disparità, poi in realtà colmate solo con un nuovo intervento della Corte giunto a distanza di circa un anno (sent. 229/2019), che riguardavano i condannati a pena temporanea per sequestro di persona a scopo di estorsione, fattispecie oggettivamente rare e non invece, come quelle oggi all’esame della Corte, al cuore del sistema del c.d. “doppio binario” penitenziario.
Al magistrato di sorveglianza resta da chiedersi quali risposte potrà offrire alle persone detenute che, prima della scadenza del rinvio annuale disposto dalla Corte costituzionale, gli proporranno istanze volte ad ottenere benefici penitenziari, pur essendo condannate non collaboranti per delitti rientranti nel disposto dell’art. 4 bis co. 1 ord. penit.
Non è dubbio, infatti, che sotto questo profilo sia peculiare la portata dell’ord. 97/2021, rispetto alle situazioni in cui l’analoga strategia di differimento della decisione è stata adottata dalla Consulta (ord. 207/2018 e 132/2020), in ipotesi nelle quali venivano in rilievo norme incriminatrici ancora da applicare ed in cui quindi non si determinava, come qui accade, un prolungamento della detenzione già in corso senza che l’autorità giudiziaria, nel caso di specie la magistratura di sorveglianza, potesse valutarne nel merito le istanze di misura alternativa.
Proprio tale peculiarità impone allora innanzitutto al legislatore di operare con la massima celerità, considerando il tempo di un anno concessogli dalla Corte per trovare “il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità attualmente esibite dalla normativa censurata” quale spazio che è fondamentale non occupare per intero. Occorre agire al più presto, anche in considerazione dei quasi due anni già trascorsi dalla analoga richiesta pervenuta, sulla stessa materia, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nel frattempo, provando ad azzardare un contributo al dibattito, nella consapevolezza che si tratta di prime riflessioni in una materia in cui i profili giuridici appaiono di peculiare novità, può intanto considerarsi scontato che l’istanza dell’interessato, che ha dato origine alla questione di costituzionalità, sia congelata in attesa del previsto rinvio. Le istanze, analoghe alla sua, provenienti da condannati all’ergastolo per reati di mafia non collaboranti analogamente non sembra che possano essere decise alla luce di una normativa che “esibisce” una simile incostituzionalità, e dunque si affaccia la necessità di sollevare altrettante questioni di legittimità costituzionale oppure di abbracciare ipotesi di sospensione impropria (che si espone a non poche critiche in dottrina), di fatto mediante un rinvio della trattazione a data successiva al maggio 2022. Anche le domande di liberazione condizionale di ergastolani per reati, diversi da quelli di mafia, ma compresi nel disposto dell’art. 4 bis co. 1, apparirebbero da trattarsi alla stessa stregua, tenuto conto dell’espresso riferimento a tali ultime posizioni nel par. 11 dell’ordinanza.
Differenti sembrano invece le soluzioni possibili con riguardo alle richieste di diversi benefici penitenziari da parte del condannato all’ergastolo o di richieste di benefici provenienti da condannati a pene temporanee per reati di cui all’art. 4 bis co. 1.
Pacifico che si potrà continuare a lavorare sui permessi premio, anche seguendo la strada delle allegazioni indicate nella sent. 253/2019, per le richieste di misure alternative la soluzione appare rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che non sembra trovare un limite invalicabile nella pronuncia della Corte, che si occupa soltanto della richiesta di liberazione condizionale che provenga da un condannato all’ergastolo per reati ostativi. Dai rilievi che però vi si traggono univocamente, il giudice potrà certo estrapolare argomenti per immaginare di sollevare questioni di costituzionalità, che d’altra parte hanno già condotto all’accoglimento nel caso dei permessi premio.
In particolare in relazione ad istanze di semilibertà o di affidamento in prova al servizio sociale, provenienti da condannati per delitti di 4 bis co. 1 ord. penit. a pena temporanea non collaboranti (esclusa la concedibilità di misure domiciliari ex art. 47 ter co. 1 bis ord. penit.; cfr. sent. Corte Cost. 50/2020), le questioni di costituzionalità sollevate potrebbero di certo essere rinviate ad un vaglio successivo ad un eventuale ripensamento globale della materia da parte del legislatore, che non decidesse, però, di limitarsi a intervenire sul solo caso dell’ergastolo ostativo, ma potrebbe pure esservi una soluzione diversa, di accoglimento alla stregua della soluzione adottata con la sent. 253/2019, posto che non saremmo più di fronte a scelte tre volte apicali, ma a domande relative ad autori di delitti assai gravi (anche di mafia), che sono stati però condannati a pena detentiva temporanea e che richiedono una misura meno ampia della liberazione condizionale, non presupponente per altro il sicuro ravvedimento del reo tra i suoi requisiti.
Se una iniziativa legislativa dovesse, infine, tradursi in legge, la Corte, per come già detto, si è riservata il compito di un vaglio ex post di conformità a Costituzione delle scelte adottate che, seppure non costituisca la via obbligata e sempre seguita, potrebbe passare per un rinvio al giudice a quo, per nuovo esame della non manifesta infondatezza delle questioni, alla luce del mutato quadro normativo determinatosi per effetto dello ius superveniens, come la Consulta ha di recente fatto, in materia penitenziaria, in un caso in cui successivamente alla proposizione di una quaestio, il legislatore aveva mutato la disciplina in senso parzialmente conforme alla via indicata dal rimettente (ord. 185/2020).
L’allegoria della Prudenza
Alla National Gallery di Londra è conservato un olio su tela di Tiziano, che raffigura tre teste d’uomo, che si danno le spalle. Un vecchio, canuto e accigliato, affonda nell’ombra, un giovane, pallido e dall’espressione piena di incertezza, fissa la luce, e un uomo maturo, dalla barba curata, al centro della scena, pare l’unico perfettamente a fuoco. A ciascuno è giustapposto un animale, un lupo dal ghigno crudele al primo, un cane ansimante al secondo, un leone orgoglioso al terzo. Sopra le teste si legge: “Ex praeterito praesens prudenter agit ni futura(m) actione(m) deturpet” (tenendo conto del passato il presente agisce prudentemente affinché non sia rovinato il domani). Nonostante sia controversa la destinazione dell’opera ed il suo significato, la si considera un’allegoria dell’agire prudente, tenendo a mente ciò che è stato per costruire al meglio il futuro, che ancora non è che un’ombra pallida di ciò che deve venire.
Il lungo percorso che ha condotto la Corte costituzionale ad una progressiva erosione dei meccanismi preclusivi assoluti ha segnato una parallela riespansione della discrezionalità della magistratura di sorveglianza, cui è affidato il compito di accompagnare l’esecuzione penale delle persone condannate verso la risocializzazione, in attuazione dell’unico obbiettivo costituzionale espresso della pena. Il bagaglio di esperienza della giurisdizione rieducativa è però da sempre l’esame individualizzato delle evoluzioni della personalità dei condannati, attraverso l’attenta lettura dei loro trascorsi criminali, la conoscenza, grazie alle plurime fonti informative cui può attingere, del grado di affidabilità raggiunto dagli interessati e la proiezione nel futuro della credibilità dei loro propositi, a fronte del contesto socio-familiare riscontrato. Un giudizio certamente complesso, ma basato su elementi concreti.
Nell’attesa che il legislatore provveda, nella materia così delicata che si è anche in queste note provato a succingere, l’auspicio è che, rimossa anche la preclusione assoluta connessa alla collaborazione con la giustizia, si operi, ove ritenuto indispensabile, in modo da rendere, per come per altro richiesto dalla Corte costituzionale, eventualmente più ricco il compendio istruttorio da consegnare alla magistratura di sorveglianza, al fine di consentirle decisioni ancor più informate. Ciò potrà accadere, per altro, non senza continuare a richiedere un importante sforzo di cooperazione alle Procure della Repubblica e alle forze dell’ordine sui territori, ed insieme un impegno, che non può che passare anche per un irrobustimento delle aree interne coinvolte, di più perspicua osservazione intramuraria degli interessati. Occorre, in sostanza, una convinta fiducia nell’azione della magistratura di sorveglianza, e nella sua capacità di costruire percorsi credibili per i condannati e perciò tali da costituire un elemento di forza nella tutela della sicurezza della collettività.
La riflessione tradizionale sulle età dell’uomo non è d’altra parte che lo specchio di una antica consapevolezza circa il mutare nel tempo delle motivazioni e dei propositi degli individui e di questo tempo, ci ricorda il Giudice delle leggi, occorre farsi carico, perché le pene non diventino un presente eterno, perciò immemore di quel che c’è stato ed impossibilitato a proiettarsi in un futuro. Offerta infatti la possibilità di concepire per sé un futuro, si restituisce dignità ad ogni condannato, anche se ha commesso il più orribile dei reati, ma gli si restituisce insieme anche la responsabilità di prendere atto del male, a volte tragicamente irreparabile, che ha commesso.
* Magistrato di sorveglianza presso l’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto
Fonte: Questione Giustizia
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