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Si parla tanto di prescrizione ma la vera riforma da fare è sull’Appello

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Società

Parliamo di prescrizione. Un testo nero su bianco non c’è ancora, ma le anticipazioni degli orientamenti della ministra Marta Cartabia sembrano andare nel senso di modificare radicalmente o persino cancellare la norma del 1° gennaio 2020, secondo cui la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado (anche di assoluzione) fino alla sentenza definitiva.

Impossibile calcolare gli effetti di questa norma dopo soli 14 mesi, anche perché nel 2020 il Covid ha stravolto tutto, causando una pesante contrazione del numero dei processi trattati. Per cui la fretta e la voglia di tornare all’antico – senza possibilità di valutare in concreto il nuovo – sembrano evocare schemi ideologici precostituiti, piuttosto che analisi concrete. Un buon motivo per andarci piano.

Prescrizione significa che il reato si estingue e non è più procedibile dopo il  decorso di un tempo prestabilito. Accade in tutti i Paesi, ma solo da noi si litiga ferocemente. Perché? I nostri processi hanno tempi infinitamente più lunghi che ovunque altrove, il che causa centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno.

Per cui, se di solito la prescrizione funziona come rimedio fisiologico per i pochi casi che l’ingranaggio non riesce a concludere, da noi è diventata una vera patologia. Prova ne sia che noi abbiamo una percentuale di prescrizioni del 10/11%, contro lo 0,1/0,2% degli altri paesi europei. Un disastro. Indubbiamente favorito dal fatto che soltanto in Italia (prima della riforma del 1° gennaio 2020) non erano previsti casi in cui la prescrizione si interrompesse definitivamente; c’erano solo sospensioni temporanee.

Sta di fatto che “abbiamo una procedura ipertrofica, invadente, confusionaria, assordante padrona della casa penalistica. L’exploit tecnico ormai sta nell’eludere i temi capitali: se quel fatto sia avvenuto, chi l’abbia commesso, come qualificarlo. L’antagonista nouveau style parla d’altro, finché la prescrizione chiuda i conti seppellendo le carte in archivio”. A sostenerlo non è quel bieco giustizialista che alcuni sofisticati giuristi vedono in me. Ho usato uno scritto di Franco Cordero, partendo dal quale – tanto per non deludere i sullodati giuristi – provo a ricordare ancora una volta che nel nostro sistema penale coesistono due distinti codici. Uno per i “galantuomini” (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, per bene a prescindere…); l’altro per cittadini “comuni”.

Nel primo caso il processo – con la sua interminabile durata – mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che tutto cancella, vuoi – mal che vada – ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni e leggi ad personam assortite.

Nel secondo caso invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone. Dunque un forte contributo a questo sistema distorto lo dà proprio la prescrizione infinita (senza mai uno stop definitivo), in quanto incentivo a far durare all’infinito certi processi, perché i “galantuomini” non paghino dazio. E ciò mi porta addirittura a dire (rieccolo il giustizialista forcaiolo….) che non sono gli aspetti tecnici, ma l’importanza di certi interessi in gioco a scatenare la bagarre sulla prescrizione.

Chi vede nella norma del 1° gennaio 2020 una specie di “fructum diaboli” da estirpare a ogni costo sostiene che l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado avrebbe come devastante conseguenza una durata infinita dei processi.

C’è già l’ergastolo come fine pena mai – si osserva – figuriamoci se si può aggiungere la pena di un fine processo mai! Argomento suggestivo, ma attenzione. È vero che alcuni processi potrebbero rimanere “pendenti” in appello per un tempo relativamente più lungo, ma è altrettanto vero che il rischio riguarderebbe alcuni casi soltanto e non “tutti” i processi. E poi non dimentichiamo che ogni prescrizione certifica un fallimento della giustizia, nel senso che o si nega all’innocente l’assoluzione o si regala al colpevole l’impunità.

Il problema vero è che (in attesa della generale riforma del processo) andrebbe  fatto funzionare meglio proprio l’appello. Qui si brucia il 48% della durata totale del processo; perciò sta qui il vero collo di bottiglia su cui intervenire. Con riforme radicali, non con palliativi che fanno il solletico alle vere cause del male.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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