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Nuove generalità per i collaboratori di giustizia: problemi aperti e nuove soluzioni

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie

Al fine di consentirne il reinserimento sociale e di sottrare loro ed i familiari a rappresaglie spesso sanguinose , ai collaboratori di giustizia vengono attribuite nuove generalità. Ma su tali generalità vengono poi trasferite le risultanze del casellario giudiziario e del centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’Interno. Con l’effetto di ostacolare le ricerche di lavoro dei collaboratori e di esporli, in caso di ordinari controlli di polizia, ad accertamenti rivelatori della loro precedente identità. Di qui l’esigenza di individuare nuove soluzioni, anche valorizzando nella prassi norme già introdotte  a tutela della riservatezza delle persone ammesse a speciali misure di protezione. 

I collaboratori di giustizia, in uno alle attività intercettive, rappresentano strumenti fondamentali nell’azione di contrasto al crimine organizzato, che continua ad essere fortemente radicato nella nostra Nazione.

A far data dagli anni Ottanta, l’apporto dei c. d. “pentiti” si è rivelato e continua a essere decisivo per arginare il potere mafioso e dei gruppi terroristici, per individuare i responsabili e i moventi dei delitti più efferati, per comprendere le strategie criminali, per sequestrare e confiscare beni di provenienza illecita, per la cattura dei latitanti, per scoprire covi, ove vengono conservati arsenali di armi ed esplosivi, libri mastri che documentano le attività delle cosche.

Ed è per questo che i collaboratori e i loro familiari sono stati bersaglio di vendette di ogni genere, molto spesso “trasversali” quando i mafiosi non sono riusciti a individuare e a colpire direttamente il collaboratore di giustizia.

Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla falcidia dei parenti di Francesco Marino Mannoia[1], di Tommaso Buscetta[2] e di Salvatore Contorno[3], al rapimento e all’uccisione del giovane figlio di Mario Santo Di Matteo[4], Giuseppe, all’uccisione, mediante simulazione di suicidio, del padre di Gioacchino La Barbera[5].

Fu l’assassinio del giudice Rosario Livatino, avvenuto il 21 settembre 1990, a scuotere il Paese – vituperato da una lunga scia di sangue e dall’uccisione di molti rappresentanti delle istituzioni (presidenti di Regione e di Provincia, prefetti, segretari di partiti, statisti, sindaci, giudici, procuratori della repubblica, esponenti delle forze dell’ordine, consulenti di ministri del lavoro, sindacalisti) – e a rappresentare la causa determinante per far approvare il 15 gennaio 1991 la prima normativa sui collaboratori di giustizia.

Una regolamentazione che ha dato dignità giuridica all’istituto, prevedendo uno “speciale programma di protezione” per proteggere e assistere economicamente chi collabora e i loro familiari.

Al fine di consentire a costoro il reinserimento sociale e la possibilità di intraprendere una nuova vita, iniziando anche un’attività lavorativa, è stata prevista la possibilità, su richiesta degli interessati, di cambiare le generalità, garantendo la necessaria riservatezza.

Il cambiamento delle generalità è stato oggetto di un’attenta disciplina specifica nel corso del tempo dal D. Lgs 29 marzo 1993, n. 119 (artt. 3 e 6 c. 6 e 7) alla L. 13 febbraio 2001, n. 45 (art. 10) e ai Decreti del Ministro dell’Interno del 23 aprile 2004, n. 161 (art. 16 e 17 c. 4 e 5), e del 13 maggio 2005, n. 138[6].

Con il decreto di cambiamento sono attribuite alle persone ammesse allo speciale programma di protezione nuovi: cognome e nome, indicazioni del luogo , della data di nascita e degli altri dati concernenti lo stato civile nonché dei dati sanitari e fiscali.

È previsto, invece, che le risultanze del casellario giudiziario (ove sono riportate, fra l’altro, tutte le sentenze di condanna passate in giudicato e le misure di prevenzione) e del centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’Interno, di cui all’art. 8 della legge 10 aprile 1981, n. 121 (ove sono riportati, fra l’altro, tutti i precedenti di polizia), vengano trasferite alle nuove generalità attribuite ai collaboratori di giustizia, sulla base dell’art. 17 comma 4 del DM 23 aprile 2004, n. 161[7].

I trasferimenti di tali dati alle nuove generalità, in concreto, impediscono l’attuazione dell’obiettivo del reinserimento sociale del collaboratore, dal momento che ogni datore di lavoro, per procedere all’assunzione di propri dipendenti, richiede il certificato del casellario giudiziario.

Si è verificato, infatti, che più collaboratori, in stato di libertà, dopo aver espiato le condanne loro inflitte, hanno dovuto rinunciare a lavorare proprio per impedire che chi aveva dimostrato disponibilità o che li aveva assunti venisse a conoscenza dei suoi precedenti.

Conoscere le imprese criminali compiute significa disvelare la loro vera identità e far rivivere il loro passato, vanificando lo scopo del cambio delle generalità, esponendo a pericolo il collaboratore di giustizia e i suoi familiari.

Vi sono mafiosi, anche detenuti, che continuano a coltivare i propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni.

Occorre chiedersi, poi, quale imprenditore o pubblica amministrazione assumerebbe ex stragisti, assassini, estortori, rapitori, mafiosi o terroristi alle proprie dipendenze, pur sapendo che hanno collaborato ed espiato il loro debito con la giustizia.

Similmente, l’attuale normativa non assicura l’anonimato se un collaboratore viene fermato per strada e sottoposto a un normale controllo di polizia, come è già avvenuto[8].

La verifica routinaria compiuta attraverso la consultazione della banca dati, tenuta presso il Ministero dell’Interno (sdi), fa emergere la sequela dei precedenti. Si pensi a cosa può accadere se un carabiniere si trova di fronte a un soggetto, che risulta aver commesso stragi, omicidi, estorsioni, che passeggia con persone e conoscenti ignare del suo passato: arrivo di pattuglie, trasferimento del collaboratore in ufficio di polizia per approfondire la situazione, disorientamento delle persone che si trovano in sua compagnia, compromissione della sua copertura, ecc..

Sarebbe auspicabile una riflessione al riguardo per valutare l’opportunità di un intervento proiettato a evitare i travasi informativi in questione, rivalutando gli interessi che interagiscono sul punto, allo scopo di offrire una effettiva nuova identità, che recida definitivamente i ponti con il passato, per chi ha deciso di cambiare vita e ha concretamente fornito un apporto collaborativo, pagando molto spesso un caro prezzo in termini di uccisione dei propri familiari.

Le collaborazioni con la giustizia vanno incentivate, soprattutto quelle qualitativamente rilevanti, in grado di colmare i vuoti di conoscenza sul nostro tragico passato e per far conoscere le attuali dinamiche criminali. E in tale prospettiva creare le condizioni per un reinserimento sociale effettivo dei collaboratori e dei loro familiari è un fattore fondamentale.

Si potrebbe muovere in questa direzione valorizzando nella prassi una norma regolamentare che già esiste, ma non è attuata, vale a dire l’art.  8 del DM 13 maggio 2005, n. 138, innanzi citato che si occupa della Tutela della riservatezza delle persone ammesse a speciali misure di protezione che svolgono attività lavorativa, prevedendo che: «Nei confronti dei soggetti ammessi a speciali misure di protezione che svolgono attività lavorativa durante il periodo di sottoposizione alle stesse, le amministrazioni e gli enti competenti adottano, d’intesa con gli Organi preposti all’attuazione delle speciali misure o del programma, idonei accorgimenti per impedire, in caso di consultazione di banche dati o archivi informatici, l’individuazione degli interessati e del luogo di lavoro delle località in cui gli interessati effettuano le prestazioni».

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Fonte: Questione Giustizia

Note

[1] Francesco Marino Mannoia, affiliato ventiquattrenne da Bontate ed accolto poi dai corleonesi per la sua abilità nella raffinazione dell’eroina, come emerge dalle risultanze delle prove acquisite agli atti ed anche da sentenze coperte dall’irrefragabilità del giudicato, come quelle relative al c.d. “maxi uno”, ha rappresentato un collaboratore fondamentale per il buon esito proprio del maxiprocesso, istruito dal pool guidato da Antonino Caponnetto, del quale facevano parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta. È utile osservare che la Corte di Cassazione, che ha definito il c.d. “Maxi 1”, e la Corte d’Assise d’Appello di Palermo hanno ritenuto la sua collaborazione «ampia talvolta addirittura essenziale per la ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità di moltissimi associati« e gli hanno attribuito il «ruolo del più attendibile dei pentiti» (cfr. pag. 1134, sent. 30.1.1990, nr. 80, VI vol., della Corte di Assise e pagg. da 714 a 720, III vol., e pag. 3096 e segg., XII vol. della II Sez., della Corte d’Assise d’Appello). La collaborazione di Mannoia è stata ritenuta così dannosa per Cosa Nostra che gli è stata sterminata la famiglia dagli appartenenti a Cosa Nostra. Sono stati uccisi: madre, sorella, zii, fratello e cugino. Un tardo pomeriggio, dal balcone del soggiorno dell’abitazione in cui viveva, suo padre assistette impotente ad una scena straziante. Mentre erano intente a posteggiare l’auto a ridosso della casa di Bagheria, in cui erano rifugiate da qualche giorno, sua moglie, sua figlia e sua cognata venivano avvicinate da un manipolo di sanguinari mafiosi e, senza esitazione alcuna, crivellate da colpi di arma da fuoco. Era il 23 novembre 1989. In pochi attimi una furia omicida gli cancellava gli affetti più cari che per una vita aveva gelosamente custodito. Morivano così la madre, la sorella e la zia di Francesco Marino Mannoia (cfr. sent. dell’11.6.2004, della III sez. della Corte di Assise di Palermo, emessa nell’ambito del proc. pen. 12/94 c\Agate Mariano e altri).

[2]  Tommaso Buscetta ha iniziato a collaborare con la giustizia nel luglio 1984 e gli sono stati uccisi, fra l’altro, due figli che non erano nemmeno uomini d’onore.

[3] Salvatore Contorno è scampato a più attentati e ha patito l’eliminazione di una ventina tra parenti e amici.

[4] Giuseppe Di Matteo aveva undici anni quando veniva rapito. Mario Santo Di Matteo è stato il primo collaboratore che ha confessato il proprio coinvolgimento nella c. d. strage di Capaci del 23 maggio 1992 e a indicare i soggetti che con lui avevano contribuito alla sua realizzazione, permettendo di ricostruire, tra l’altro, taluni significativi momenti delle fasi preparatorie ed esecutive dell’attentato. Il promotore e l’organizzatore di tale forma di micidiale pressione è stato Giovanni Brusca, colui che svolse un ruolo fondamentale nella strage e che ad azionò il congegno il 23 maggio 1992 provocando l’esplosione, e nel ruolo nell’esecuzione del delitto hanno avuto Leoluca Bagarella e Giuseppe Agrigento (coinvolto nell’attentato solo sulla scorta delle dichiarazioni di Di Matteo).

[5] Il padre di La Barbera veniva assassinato nel giugno del 1994 (veniva indotto a impiccarsi così simulando un suicidio), quando Gioacchino La Barbera aveva assunto atteggiamento di collaborazione, a far data dal 25 novembre 1993, dopo aver avuto un confronto con Mario Santo Di Matteo. Gioacchino La Barbera si è autoaccusato della strage di Capaci, degli omicidi di Ignazio Salvo, di Vincenzo Milazzo e della di lui fidanzata, di Salvatore Tortorici, di Giuseppe Villari, di Calogero Sciortino, di Rosario Dragotta, di Rosolino Filippi e ha contribuito a far rinvenire i corpi esanimi di Francesco e di Vincenzo Milazzo, nonché della fidanzata di quest’ultimo, unitamente a un deposito di armi, sito in una località di campagna di Altofonte, di proprietà di Domenico Raccuglia. Giovanni Brusca ha spiegato di aver inviato i sicari per ucciderlo.

[6] D.M. 13 maggio 2005, n.138, Misure per il reinserimento sociale dei collaboratori di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione, nonché dei minori compresi nelle speciali misure di protezione. (Gazzetta Ufficiale Serie Gen.- n. 166 del 19 luglio 2005).

[7] Regolamento ministeriale concernente le speciali misure di protezione previste per i collaboratori di giustizia e i testimoni, ai sensi dell’articolo 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, introdotto dall’articolo 19 della legge 13 febbraio 2001, n. 45. (GU Serie Generale n.147 del 25-06-2004), entrato in vigore del provvedimento: 10/7/2004. L’art. 17 c. 4 e 5 di tale regolamento così prevede: «Nel caso in cui il destinatario del procedimento di cambiamento delle  generalità  è  un  collaboratore  di  giustizia, il Servizio centrale di protezione, con modalità atte a garantire la riservatezza delle informazioni, deve provvedere a comunicare per l’inserimento nel centro elaborazione dati di cui all’articolo 8 della legge 1° aprile 1981, n. 121, le situazioni soggettive di cui all’articolo 12, comma 1, della legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni, e gli altri dati iscritti nel registro di cui al comma 2 dell’articolo 3 del decreto legislativo 29 marzo 1993, n. 119, riferendoli alle nuove generalità. Il  Servizio  centrale  di  protezione  provvede,  altresì,  a comunicare,  con  modalità  idonee a garantire la riservatezza delle informazioni, le risultanze del casellario giudiziale all’Ufficio del casellario  presso  il  Tribunale  di  Roma,  riferendole  alle nuove generalità».

[8] Un fatto analogo si è di recente verificato, coinvolgendo proprio un collaboratore di giustizia.

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