Ergastolo ostativo, Caselli: “Non indebolire le misure antimafia”
“È grazie anche all’ergastolo ostativo se siamo riusciti a impedire che Cosa nostra trasformasse la democrazia italiana in un narco-stato controllato da criminali stragisti. Bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera”. Intervista al magistrato Gian Carlo Caselli.
A che punto siamo con l’ergastolo ostativo? Una questione confusa per molti italiani e anche per molti di coloro che, in quanto parlamentari, saranno chiamati da maggio a valutare il da farsi. La Corte Costituzionale, infatti, ha esaminato le questioni di legittimità sollevate dalla Corte di Cassazione sul regime applicabile ai condannati all’ergastolo per reati di mafia e terrorismo che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale da cui finora erano esclusi.
Un percorso a ostacoli di cui parliamo con Gian Carlo Caselli, magistrato, già giudice istruttore a Torino, che ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo (nel periodo seguìto alle stragi del 1992); quindi procuratore generale e procuratore della Repubblica di Torino. Oggi dirige l’Osservatorio della Coldiretti sulle agromafie ed è presidente onorario di Libera.
Dottor Caselli che ne pensa, ergastolo ostativo sì o no?
L’ergastolo ostativo rientra in un “pacchetto” di misure antimafia che si integrano reciprocamente. Questo “pacchetto” è costituito dalla legge che prevede benefici in favore di chi collabora significativamente con lo Stato nella lotta alla mafia e da due articoli dell’Ordinamento penitenziario: il 4 bis (la norma che direttamente concerne l’ergastolo ostativo) e il 41 bis, che disciplina il regime detentivo dei mafiosi. Il “pacchetto”, avviato in parte da Giovanni Falcone prima della sua morte, è stato sviluppato e definito subito dopo le stragi del 1992, lo tsunami che aveva fatto dire a Nino Caponnetto (il capo di Falcone e Borsellino) “è tutto finito; non c’è più niente fare”.
Invece siamo riusciti, tutti quanti insieme, a impedire che Cosa nostra trasformasse la democrazia italiana in un narco-stato controllato da criminali stragisti. È stata una vera Resistenza. Cosa nostra ha ricevuto colpi durissimi, segno che il “pacchetto” ha funzionato bene. Ora, siccome la Mafia c’è ancora ed è ancora pericolosa (Cosa nostra è ammaccata, ma le altre mafie – ‘ndrangheta, camorra e criminalità pugliese – sono sempre più agguerrite) non possiamo permetterci il lusso di farne a meno.
Chi dice che il “pacchetto” è stato varato in una situazione di emergenza che ora è finita per cui non serve più e addirittura non si giustifica più, mi ricorda Alice nel paese delle meraviglie. Soprattutto in questa stagione di pandemia, che spinge la mafia (col suo dna di sciacallo/avvoltoio, pronto a sfruttare le disgrazie altrui) all’assalto dell’economia in difficoltà per impadronirsi dei settori in crisi. È in questo contesto che va realisticamente inserito il problema dell’ergastolo ostativo.
Dunque conferma la posizione, fermissima, che ha espresso in questi ultimi due anni?
Sì, anche se c’è un’obiezione che mi ha fatto e mi fa molto pensare. Qualcuno sostiene che la Consulta non poteva decidere diversamente (sull’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, sia pure con la delega al legislatore di intervenire entro un anno) perché la Costituzione o è uguale per tutti (mafiosi compresi) o non è. Un argomento suggestivo.
Però, attenzione: la nostra Carta (all’art. 49) stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma a questo principio costituzionale è la stessa Costituzione (nell’art. XII disposizioni transitorie e finali) che deroga, vietando “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Ora io non sono un costituzionalista, e ho tutto da imparare da chi invece lo è, ma mi sembra di poter argomentare che la Costituzione vuole che ai nemici della democrazia sia dedicata un’attenzione particolare.
Qual è, infatti, il rapporto dei mafiosi con la democrazia? Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana.
In altre parole?
Il mafioso è la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dell’articolo 3 su cui si fonda la Costituzione. E allora chiediamoci: i mafiosi – con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (l’essenza dell’ art. 416 bis) – calpestano i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? In caso di risposta affermativa, si può trarne la ragionevole conseguenza che i mafiosi devono offrire prove certe di ravvedimento per poter essere ricompresi in un’area che l’organizzazione criminale vuole distruggere? E non è del pari ragionevole richiedere la rinunzia allo status di uomo d’onore mediante il pentimento, posto che questa è l’unica condotta davvero univoca? Si può dire che la Costituzione non è un bancomat?
E a chi obietta ‘così finiamo a Guantanamo’, che risponde?
Il terreno è indubbiamente scivoloso e richiede la massima cautela per evitare qualunque possibilità di sconfinamento indebito e arbitrario. In ogni caso i mafiosi in carcere ci finiscono non come a Guantanamo, ma all’esito di tre gradi di un giudizio, condotto con tutte le garanzie previste per ogni altro imputato, a partire dall’assistenza di affermati professionisti liberamente scelti come difensori di fiducia. Quanto all’esecuzione della pena (irrogata – ripeto – all’interno di un sistema garantito) è la legge che prevede soluzioni differenti in ordine al circuito carcerario, alle modalità di detenzione, alla durata della pena, all’ammissione o meno ai benefici penitenziari.
Si tratta quindi di vedere se le differenze stabilite dalla legge per i mafiosi rispondono o meno a criteri di ragionevolezza. Ciò comporta, in tema di ergastolo ostativo, prendere in considerazione alcuni aspetti. L’esperienza e gli studi più qualificati dell’identità mafiosa, ci dicono che i mafiosi giurano fedeltà perpetua all’associazione; chi non si pente conserva lo status di “uomo d’onore” per sempre. Tale realtà è assolutamente incompatibile con ogni prospettiva di recupero, salvo che il mafioso pentendosi – lo ribadisco – dimostri concretamente di voler disertare dall’organizzazione criminale. E dunque, sulla base di queste premesse si può dire che il “doppio binario” previsto dalla legge per i mafiosi non pentiti (fino all’ergastolo ostativo) risponde a criteri di ragionevolezza, basati sulla concreta specificità del problema.
E poi, il “pericolo” Guantanamo è escluso – paradossalmente – proprio dal ruolo istituzionale affidato a quella Consulta di cui stiamo ora parlando a proposito di ergastolo ostativo. Perché è la Consulta l’argine democratico eretto contro simili degenerazioni. Il che non esclude che si possa discutere (col dovuto rispetto) di qualche singola pronunzia.
C’è un altro punto “scivoloso” per via della sua importanza in democrazia: una delle ragioni su cui la Consulta poggia l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo è la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che vieta la tortura e ogni trattamento inumano o degradante.
Uno spaccato di come stiano le cose in Italia per i mafiosi del “famigerato” 41 bis, quelli per i quali si pone appunto il problema dell’ergastolo ostativo, si trova nel volume “Lo stato illegale” (Caselli, Lo Forte – Laterza editori). Ne risulta che (nel linguaggio a loro è proprio) ai mafiosi carcerati in difficoltà economiche “l’impegno è di ‘darci’ dai tre ai quattro appartamenti ciascuno”; i costruttori “debbono ‘uscire’ questi appartamenti”; “se qualcuno ‘babbìa’ è un infame” e “gliela si deve far pagare”; a tutti i carcerati spetta un “mensile” per le spese correnti; un boss può arrivare a spendere “venti milioni al mese di avvocato, vestiti, ‘libretta’ e colloqui”.
Proprio una vita grama non è… Certo si tratta di uno spaccato che non fotografa la condizione carceraria dei mafiosi in tutta la sua complessità, ma è quanto basta per sollevare più di un dubbio sull’utilizzabilità delle categorie dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come effettivamente rispondenti alla realtà concreta della situazione italiana.
Lei è un magistrato, ma è anche un cattolico: che idea ha del perdono?
È vero, sono un credente, sia pure coi miei limiti e difetti. Ma dalla lezione del Concilio ho imparato, come giurista, l’importanza della laicità. Nel senso che bisogna evitare la contaminazione tra fede e professione, altrimenti si corre il rischio di un conto circuito, che per un magistrato comporterebbe la sostituzione del codice col Vangelo. Occorre distinguere, ma distinzione significa giusta distanza, non separazione. Vuol dire che è possibile rinvenire nella fede un orientamento dell’azione.
Come?
Ricordando che “fame e sete di giustizia” equivale a dire che essa deve essere al servizio degli uomini, soprattutto dei più deboli. Ed è quel che si trova anche nell’art. 3 cpv. Costituzione (fondamentale nel disegno della Carta): la difesa del debole, appunto, affinché chi è diseguale possa crescere in eguaglianza rispetto agli altri. Per me la legge deve essere al servizio dell’uomo e non contro; significa che il magistrato deve impegnarsi il più possibile per gli altri. L’I care deve valere anche per un magistrato: i tuoi diritti mi stanno a cuore, io li difendo. Anche contro i mafiosi che non vogliono riconoscerteli. Buonismo e perdonismo sono altre categorie.
In effetti, di recente, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha parlato, a proposito degli arresti dei terroristi in Francia, di un “diritto di subire la pena” che queste sue parole ricordano. Il nodo dell’ergastolo ostativo, invece, ricorda il dibattito – anche quello accesissimo – sul pentitismo.
Non solo lo ricorda, ma lo investe direttamente e pesantemente. È evidente che se la concessione dei benefici penitenziari agli ergastolani mafiosi non è più vincolata al pentimento, la sua importanza si riduce di molto. E dire che un mantra di Riina contro il pentitismo, da lui classificato come il peggior nemico dell’organizzazione, era che si sarebbe giocato anche i denti, cioè tutto…
Questa decisione indebolirebbe la normativa antimafia? E, se sì, in che modo?
La stessa Corte Costituzionale mette in guardia contro il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva della normativa antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera.
E la Consulta usa proprio questo “rischio” per spiegare il differimento di un anno dell’effettività della sua ordinanza di incostituzionalità in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale. Di questo rischio, esplicitato dalla Corte, nell’anno a venire il legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi.
Nel caso di un’abrogazione dell’ergastolo ostativo chi ha scontato 26 anni potrà uscire anche se non ha collaborato. Sembrerebbe uno schiaffo alle vittime e ai loro familiari, come ha commentato Salvatore Borsellino: è così?
Con i familiari delle vittime di mafia abbiamo tutti un debito inestinguibile. Troppo spesso ci si dimentica o non si tiene nel debito conto che i familiari sono anch’essi vittime, perché vivono un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Con una fermezza che è per tutti un monito a non dimenticare e un punto di riferimento morale.
Trovo quindi assolutamente ingiusto e incomprensibile che qualcuno pensi anche soltanto di poter svalutare le loro parole. Eppure c’è chi teme un “approccio accentuatamente vittimo-centrico” ai problemi di mafia, per cui si sostiene “che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, da affidare alla competenza di esperti in grado di aiutarle nell’elaborazione del dolore con strumenti psicologicamente adeguati”. Ci manca solo questo…
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