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Patrick George Zaki, l’Egitto e noi

Aldo Schiavello * il . Giustizia, Internazionale, Istituzioni, Società

La vicenda è nota[1]. Il 7 febbraio 2020 Patrick George Zaki, studente di un master internazionale in studi di genere e diritti umani presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna nonché attivista presso la ong Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR), è arrestato all’aeroporto del Cairo, dove era atterrato per una breve vacanza in Egitto, e viene sottoposto a detenzione preventiva su richiesta dei pubblici ministeri del tribunale di Mansoura, sua città natale.

L’accusa è di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo attraverso la pubblicazione sui social network di notizie false finalizzate a turbare la pace sociale e a rovesciare il regime egiziano. Anche l’ultima udienza per decidere sulla scarcerazione dello studente bolognese, il 28 febbraio scorso, ha dato esito negativo, nonostante l’attesa e le pressioni del mondo occidentale e, in primo luogo, dell’Italia.

 

“Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”

Il caso Zaki non è diverso da numerosi altri casi di grave violazione dei diritti umani in Egitto. A differenza della maggioranza di tali casi, la vicenda Zaki si caratterizza per l’attenzione, sia istituzionale sia mediatica, del mondo occidentale.

Le università italiane, a partire da una mozione dell’università di Bologna, hanno sottoscritto un appello di preoccupazione per la vicenda di Zaki all’indomani del suo arresto; un appello di Amnesty International che chiede la liberazione immediata dello studente egiziano è al momento stato sottoscritto da più di centocinquantamila persone; il senato accademico dell’Università di Palermo, di cui faccio parte, ha deliberato di attribuire a Patrick Zaki e alla memoria di Giulio Regeni il titolo di benemerito della nostra università; al fine di mantenere alta l’attenzione sul caso, numerose trasmissioni televisive italiane hanno sostituito gli spettatori, la cui presenza è inibita dalla pandemia in corso, con sagome di Patrick Zaki; i servizi e le inchieste giornalistiche e televisive sul caso Zaki non si contano; le città italiane sono invase da cartelloni stradali che invocano la liberazione di Patrick Zaki; la street artist Laika ha presentato – prima a Roma, vicino all’ambasciata egiziana e, poi, a Bologna, vicino al Rettorato dell’Università – un’opera toccante in cui Giulio Regeni abbraccia Patrick Zaki rassicurandolo che nel suo caso andrà tutto bene, e si potrebbe continuare a lungo.

Che tutto questo favorisca la scarcerazione di Zaki è discutibile. Basti pensare che il 3 dicembre scorso tutti i dirigenti dell’Eipr sono stati liberati mentre Zaki continua a essere ristretto in carcere. Ciononostante, ritengo che, quando sono in ballo violazioni così gravi di diritti, non sia moralmente lecito tacere nemmeno per ragioni tattiche o di opportunità. Si tratta di casi in cui bisogna farsi guidare dall’etica dei principi e non dall’etica della responsabilità, per usare le categorie di Max Weber.

L’indignazione per la continua violazione dei diritti umani perpetrata dal regime egiziano di Abdel Fatah al-Sisi è pienamente giustificata.

Al riguardo, si suggerisce la lettura del Report sull’Egitto di Amnesty International, pubblicato nel 2019, con l’emblematico titolo Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution.

L’esergo del rapporto riproduce una frase pronunciata da al-Sisi a seguito dell’uccisione di Hisham Barakat, procuratore che, dopo la caduta a seguito di un colpo di stato militare del Presidente Mohamed Morsi nel 2013, ha perseguito numerosi islamisti: «The hand of prompt justice is shakled by laws»[2]. Proprio per evitare che le garanzie processuali e il rispetto dei diritti umani potessero rallentare il perseguimento dei crimini perpetrati da terroristi sono stati ampliati a dismisura i poteri della Supreme State Security Prosecution (SSSP) sino a trasformarla, questa è l’accusa principale di Amnesty International, in un modo per reprimere qualsivoglia opposizione al regime di al-Sisi.

I centotrentotto casi approfonditi nel rapporto lasciano poco adito a dubbi e la raccomandazione di Amnesty International alla comunità internazionale di fare tutto il possibile affinché tale stato di eccezione permanente venga sostituito da un ritorno alla legalità e dal rispetto dei diritti umani è ineccepibile. Insomma, l’Egitto attuale è senz’altro uno di quegli stati che John Rawls definisce fuorilegge[3]; tali stati rappresentano una minaccia per i popoli liberali e decenti e, proprio per questo, non dovrebbero essere tollerati da questi ultimi.

È invece sul comportamento degli stati “decenti” che è opportuno fare qualche considerazione. Si può davvero dire che le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto siano state prese sul serio e combattute con intransigenza dai paesi che dovrebbero avere a cuore i diritti umani? La risposta a tale domanda è purtroppo negativa. Le azioni ufficiali intraprese nei confronti dell’Egitto non sono andate oltre la petitio principii e l’esortazione a rispettare i diritti umani.

La Risoluzione del parlamento europeo del 18 dicembre 2020, dopo aver posto l’accento sulle gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, ribadisce: a) l’esigenza che la cooperazione nei settori dell’emigrazione e del terrorismo non dovrebbe comportare un affievolimento delle pressioni per il rispetto dei diritti umani e la rendicontabilità per le violazioni dei diritti umani; b) l’invito agli stati membri a sospendere le licenze di esportazione in Egitto di qualsiasi attrezzatura che possa essere utilizzata a fini di repressione interna nonché a sospendere tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani; c) l’invito all’Unione europea di dare piena attuazione ai controlli sulle esportazioni in Egitto di beni che potrebbero essere utilizzati a fini repressivi o per infligger torture o la pena capitale.

Il 25 gennaio 2021 il Consiglio degli affari esteri dell’UE si è anche occupato brevemente del caso Regeni e, in generale, della situazione dei diritti umani in Egitto, esortando il paese africano a cooperare con l’Italia affinché venga fatta giustizia.

Il 12 Marzo 2021 il Comitato dei diritti umani dell’Onu ha approvato una Dichiarazione congiunta sottoscritta da 31 paesi, tra i quali l’Italia, in cui si si stigmatizzano per l’ennesima volta le gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e si esortano le autorità di questo paese a cooperare con il Comitato al fine di migliorare la situazione egiziana in relazione alla tutela dei diritti umani.

A fronte di queste pur flebili prese di posizione, il 7 dicembre 2020 il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha conferito ad al-Sisi la gran Croce della Legion d’onore, la massima onorificenza della Repubblica. Alle critiche veementi che sono seguite a questa decisione, Macron ha replicato laconicamente: «È più efficace avere una politica di dialogo esigente anziché un boicottaggio che ridurrebbe solo l’efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo»[4]. La Realpolitik prima di tutto!

Un comportamento non dissimile peraltro da quello tenuto dal governo italiano presieduto da Paolo Gentiloni che nel 2017 ha stipulato un accordo con la Libia – il cosiddetto Memorandum di intesa tra Italia e Libia – attraverso il quale si è perseguito l’obiettivo di una drastica riduzione degli sbarchi di migranti in Italia al prezzo di chiudere entrambi gli occhi sulle gravi violazioni dei diritti delle persone migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica e nei centri di detenzione libici.

L’Italia, pur apparentemente in prima fila per la tutela dei diritti in Egitto a causa dei casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki, è tra i principali esportatore di armamenti in Egitto. E questo nonostante non manchino leggi e direttive che vietino l’esportazione di armamenti verso paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani[5].

Inoltre, il nostro paese potrebbe compiere un passo concreto rispetto al caso Zaki attribuendo a quest’ultimo la cittadinanza italiana. In questo modo, le richieste di scarcerazione provenienti dall’Italia acquisirebbero ben altra forza e non potrebbero essere rispedite al mittente da parte delle autorità egiziane con l’argomento – comunque pretestuoso – che Zaki è un cittadino egiziano e, dunque, la comunità internazionale non ha titolo per intromettersi nei fatti interni dell’Egitto. Benché la richiesta di conferire a Zaki la cittadinanza italiana sia pervenuta da più parti, anche attraverso una mozione bipartisan presentata in Senato, è purtroppo facile prevedere che essa resterà lettera morta.

Volendo tirare le somme, il caso Zaki ci interroga più su noi stessi che sull’Egitto. Possiamo ancora dire che la cultura dei diritti umani – per usare l’espressione del filosofo argentino Eduardo Rabossi – sia ancora egemone nel nostro mondo? Rispondere a questa domanda non è semplice. In ogni caso, bisogna partire da una breve presentazione della cultura dei diritti che si è sviluppata nel mondo dopo il secondo dopoguerra.

 

L’età dei diritti

Per un lungo tratto della nostra storia recente la centralità dei diritti umani non può essere negata[6]. Non a caso Norberto Bobbio denomina l’epoca contemporanea l’età dei diritti. Egli spiega con chiarezza ciò che tale espressione connota: «dal punto di vista della filosofia della storia, l’attuale dibattito sempre più ampio, sempre più intenso, sui diritti dell’uomo, tanto ampio da aver ormai coinvolto tutti i popoli della terra, tanto intenso da essere messo all’ordine del giorno delle più autorevoli assise internazionali, può essere interpretato come un “segno premonitore” (signum prognosticum) del progresso morale dell’umanità»[7].

L’idea del “segno premonitore”, Bobbio la riprende espressamente da Immanuel Kant, che a sua volta individua nella Rivoluzione francese l’esperienza, l’evento, in grado di mostrare la disposizione e la capacità del genere umano «… a essere la causa del suo progresso verso il meglio e (poiché ciò dev’essere l’azione di un essere dotato di libertà) il suo autore»[8]. L’età dei diritti è l’esito di quella che Bobbio, sempre seguendo la lezione di Kant, definisce una rivoluzione copernicana che consiste nel considerare il rapporto tra governanti e governati non più dalla prospettiva dei primi ma da quella dei secondi, a partire dalla consapevolezza della priorità dell’individuo.

L’età dei diritti è dunque l’esito di una rivoluzione che parte dall’illuminismo, che ha messo al centro della riflessione politica l’individuo, non considerando più quest’ultimo come una mera parte del tutto rappresentato dalla società e dallo stato. Prendendo ancora in prestito le parole di Bobbio, si può esprimere questo concetto dicendo che “lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato”. Una emblematica vignetta del 1950 raffigura i componenti della commissione dei diritti umani che redasse la Dichiarazione universale come scolari che ascoltano la maestra, Eleanor Roosevelt, nella realtà presidentessa della commissione, la quale, con la bacchetta in mano li indottrina: «allora, bambini, tutti insieme: “i diritti degli individui sono superiori ai diritti dello stato”».

Dell’illuminismo, l’età dei diritti incorpora anche la fiducia nella ragione ed enfatizza il ruolo di quest’ultima nella costruzione di una cosmopoli di individui che hanno diritto a pari dignità e rispetto.

Da un punto di vista storico, l’età dei diritti designa il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale sino (quasi) ai giorni nostri. Essa intende marcare una radicale rottura rispetto ai totalitarismi e alle atrocità che hanno caratterizzato il periodo antecedente ed è espressione della fiducia dell’umanità nella possibilità di un reale progresso morale universale, che presuppone la condivisione di alcuni valori, il rispetto degli individui e dei loro diritti, il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. La fiducia e la scommessa in un futuro migliore sono, senza dubbio, la cifra dell’età dei diritti.

Si può anche dire che l’età dei diritti è la risposta dell’umanità all’orrore della Shoah. Per usare le parole di Isaiah Berlin, ciò che caratterizza la prima metà del novecento è «la divisione dell’umanità in due gruppi – gli uomini propriamente detti e un qualche altro ordine di esseri di rango più basso, razze inferiori, culture inferiori, creature, nazioni o classi subumane, condannate dalla storia […] Questo nuovo atteggiamento permette agli uomini di guardare a molti milioni di loro simili come ad esseri non completamente umani, e di massacrarli senza scrupoli di coscienza, senza che avvertano il bisogno di salvarli o di metterli in guardia»[9].

Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, pubblicato all’indomani della seconda guerra mondiale, individua il limite dei diritti umani, sino a quel momento, nel non garantire effettivamente tutti gli esseri umani ma solo i cittadini di uno stato sovrano. Scrive Arendt: «Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni status giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita»[10].

Significativo a questo proposito il racconto che Primo Levi fa del suo incontro ad Auschwitz con il dottor Pannwitz, capo del reparto di chimica. L’aspetto dell’incontro che più colpisce Levi è che non sembra un incontro tra esseri umani ma tra «… due esseri che abitano mezzi diversi» e che si scambiano sguardi «…come attraverso la parete di vetro di un acquario»[11]. Si può ricordare in relazione alla divisione dell’umanità in due parti anche il celebre dialogo tra la zia Sally e Huckleberry Finn[12]. Quest’ultimo, per trarsi d’impaccio, giustifica così il proprio ritardo: «non è stato perché ci siamo incagliati…quello ci ha fatto perdere poco tempo. È scoppiata la testa di un cilindro». La zia Sally, preoccupata, domanda: «Santo cielo! S’è fatto male qualcuno?». La risposta di Huck è perentoria: «Nossignora. È morto un negro». «Be’, è una fortuna, perché a volte la gente si ferisce», commenta sollevata la zia Sally.

I diritti umani, dunque, rappresentano un baluardo contro ciò che è insopportabilmente sbagliato o, ricorrendo ancora a Berlin, contro l’idiozia morale. Tutto questo può essere riassunto dicendo che i diritti umani tutelano la dignità di tutti gli esseri umani; impediscono che alcuni esseri umani possano guardarne altri come attraverso il vetro di un acquario. In definitiva, il progresso morale promesso dai diritti umani consiste nel rendere le nostre comunità sempre più inclusive.

L’ideologia dei diritti umani ha anche contribuito al passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale. Se la “sovranità” è il segno distintivo dello stato moderno, la “crisi della sovranità” lo è dello stato contemporaneo. Negli stati costituzionali contemporanei la sovranità viene duplicemente limitata. All’interno, la potestas legibus soluta e superiorem non recognoscens degli stati è negata mediante «…l’invenzione […] della rigidità delle costituzioni quali norme superiori alle leggi ordinarie e [la] conseguente penetrazione nel diritto positivo, in aggiunta all’originaria razionalità puramente formale e procedurale, di una razionalità assiologica o sostanziale»[13].. All’esterno (cioè nei confronti degli altri stati), la fine della sovranità «è sanzionata […] dalla Carta dell’Onu varata a San Francisco il 26 giugno 1945 e poi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»[14].

Riguardo a quest’ultimo aspetto della limitazione della sovranità, mi limito qui ad alcuni brevissimi cenni esplicativi. Il fatto che ogni stato nazionale fosse titolare, prima del 1945, di una sovranità assoluta implicava che l’ordine giuridico mondiale si presentasse come uno stato di natura hobbesiano i cui soggetti, anziché gli individui, erano gli Stati. Come rileva Ferrajoli, infatti, l’attributo principale della sovranità esterna degli stati era lo ius ad bellum.

Questa situazione comincia a mutare nel 1945 quando viene varata la Carta dell’Onu la quale, nel preambolo e nei primi due articoli, introduce il divieto della guerra.

La sovranità esterna degli Stati nazionali viene ulteriormente limitata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, attraverso la quale i diritti umani vengono trasformati «…in limiti non più solo interni ma anche esterni alla potestà degli Stati»[15].

Non stupisce che Bobbio individui tre condizioni necessarie dell’età dei diritti: riconoscimento e protezione dei diritti dell’uomo, democrazia e pace. «Senza diritti dell’uomo riconosciuti ed effettivamente protetti», scrive Bobbio, «non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi e tra quelle grandi collettività tradizionalmente indocili e tendenzialmente autocratiche che sono gli Stati, anche se sono democratiche coi propri cittadini»[16].

Quest’ultima osservazione di Bobbio fa comprendere con chiarezza come l’idea soggiacente alla cultura dei diritti sia l’indisponibilità a considerare questi ultimi come fini da perseguire tra gli altri fini. I diritti sono bilanciabili, sì, ma solo con altri diritti. Essi rappresentano la precondizione imprescindibile di un mondo che aspiri a che non si ripetano le tragedie della prima parte del secolo breve. Si può affermare che questa idea sia ancora in auge?

 

La crisi dell’età dei diritti

I diritti umani sono in crisi? Se si osserva la realtà da un certo angolo visuale e, aggiungerei, pervasi da uno stato d’animo incline all’ottimismo, la risposta non può che essere negativa. Amartya Sen ritiene che vi sia «…qualcosa di profondamente seducente nell’idea che ogni persona in ogni parte nel mondo, a prescindere dalla sua cittadinanza e dalla legislazione del suo paese, sia titolare di alcuni diritti fondamentali che gli altri devono rispettare» [17].

Stefano Rodotà, in uno dei suoi ultimi libri (il cui titolo, non a caso, riprende un’espressione di Arendt), osserva non senza soddisfazione: «Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni, i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi, i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali, luoghi in tutto il mondo vengono “occupati” per difendere i diritti sociali. E si potrebbe continuare»[18].

È innegabile che la rivendicazione di diritti soggettivi e, più in generale, l’uso massiccio del linguaggio dei diritti permeino il dibattito pubblico contemporaneo e la cultura giuridica. Questo lo abbiamo visto anche in relazione al caso Zaki: quanti appelli, quante iniziative in nome dei diritti umani! È anche del tutto evidente che il processo di costituzionalizzazione dei nostri ordinamenti giuridici sia compiuto. Le costituzioni, ed i diritti da esse riconosciuti, infatti, non rappresentano più soltanto – né principalmente – un argine all’esercizio discrezionale del potere (legislativo, in primo luogo); a seguito di un radicale mutamento di prospettiva, la funzione primaria del potere legislativo è divenuta quella di sviluppare i principi costituzionali. Ma questo è sufficiente a rassicurarci? Il fatto che i diritti vengano evocati ad ogni piè sospinto è una prova decisiva circa la buona salute del costituzionalismo?

Come si è detto (par. 2), un tassello cruciale dell’età dei diritti è la fiducia nel fatto che i diritti umani rappresentino una tappa importante del progresso morale dell’umanità. Non si tratta tuttavia di una fiducia ingenua, né della fiducia inerte di chi attende la manna dal cielo. E neanche della fiducia impaziente di chi vuole tutto e subito. Sempre Bobbio ci mette in guardia dai facili ottimismi: «la storia dei diritti dell’uomo, meglio non farsi illusioni, è quella dei tempi lunghi. Del resto, è sempre accaduto che mentre i profeti di sventure annunciano la sciagura che sta per avvenire e invitano a essere vigilanti, i profeti dei tempi felici guardano lontano»[19].

Casi come, tra gli altri, quelli di Giulio Regeni e Patrick Zaki minano la fiducia che caratterizza l’età dei diritti. Si deve ricordare, tuttavia, riprendendo le parole di Bobbio, che “la storia dei diritti umani è quella dei tempi lunghi”. Il monito di Bobbio ci aiuta a non cedere alla tentazione di decretare con troppa fretta e superficialità la fine dell’età dei diritti. Piuttosto, è il caso di domandarsi se il discorso dei diritti possegga o meno le risorse per superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino recuperando così il proprio ruolo di signum prognosticum del progresso morale dell’umanità.

Pur non ambendo ad essere annoverato tra i “profeti di sventura”, temo che la forza propulsiva della cultura dei diritti sia agli sgoccioli; ormai, infatti, il linguaggio dei diritti è l’idioletto attraverso il quale avanzare pretese e rivendicazioni nell’arena pubblica se si desidera che le une e le altre abbiano delle chance di essere accolte.

Non è forse troppo azzardato sostenere che l’uso retorico e spregiudicato del linguaggio dei diritti al fine di incrementare la forza delle proprie rivendicazioni politiche sia uno degli esiti pressoché inevitabili della costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici. È indicativo al riguardo che John Rawls, autore la cui influenza sul dibattito filosofico-politico contemporaneo difficilmente può essere sovrastimata, consideri la ragione pubblica – che non è altro che il “distillato” della cultura dei diritti – non come uno “sbarramento” ma, piuttosto, come un “linguaggio comune” o come un “traduttore” degli argomenti e delle ragioni che vengono presentati nel dibattito pubblico. La ragione pubblica richiede cioè che la discussione pubblica sugli elementi costituzionali essenziali e sulle questioni di giustizia fondamentale venga condotta entro i limiti della concezione politica della giustizia, ma non presuppone che vi sia un’unica concezione politica della giustizia condivisa da tutti.

La retorica dei diritti è particolarmente odiosa in relazione ai migranti che, oggi, presentano alcune analogie con gli ebrei nella Germania nazista. Osserva Gustavo Zagrebelsky che «le Convenzioni internazionali e, spesso, le Costituzioni nazionali non fanno differenze tra cittadini e stranieri, quando si tratta della protezione minima essenziale della dignità delle persone. Ma questa tutela, chiara dal punto di vista giuridico estratto, è oscura dal punto di vista della realtà concreta»[20].

È possibile che la situazione sia ancora peggiore di come la prospetti Zagrebelsky; almeno in alcuni casi, infatti, è già sul piano normativo che, a dispetto di un generico tributo al rispetto dei diritti fondamentali, si prevede in realtà una violazione degli stessi.

Un rapporto di Amnesty International pubblicato qualche anno fa, ad esempio, denuncia in modo circostanziato numerosi casi di violazioni dei diritti dei migranti da parte delle forze dell’ordine all’interno degli hotspot, dove si identificano i migranti al momento del loro primo ingresso nel territorio europeo. Come era prevedibile, alla pubblicazione del rapporto hanno fatto seguito polemiche e smentite. La questione rilevante tuttavia è che la normativa europea sugli hotspot a fatica può essere ritenuta compatibile con la cultura dei diritti. Il Consiglio dell’UE individua una serie di pratiche per “costringere” i migranti a…cooperare (un bell’esempio di ossimoro!). Tra queste è previsto, in casi estremi, anche l’uso della forza, in misura del “minimo necessario” e nel rispetto della dignità e dell’integrità fisica del migrante.

Ora, nonostante questi caveat, quasi delle formule di stile, è evidente che l’assenza di norme che disciplinino in modo dettagliato e pignolo i limiti all’uso della forza negli hotspot, apra le porte all’arbitrio e sia potenzialmente criminogena e contraria alla cultura dei diritti, assimilando il migrante ad un potenziale nemico. È significativo che, come sottolinea uno studio, il termine hotspot sia utilizzato, in tempi di guerra, per indicare le zone in cui sono attivi i combattimenti, nonché, in tempi di pace, le zone di guerriglia urbana[21].

Il passaggio ulteriore, che il caso Zaki, tra gli altri, mostra non essere così impensabile, consiste nel rinunciare anche a tributare un rispetto formale e di facciata ai diritti umani, considerando questi ultimi sacrificabili anche per esigenze di Realpolitik[22].

Si tratta di un passaggio senza ritorno rispetto al quale è opportuno opporre tutta la resistenza possibile.

* Università di Palermo

Fonte: Giustizia Insieme

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Riferimenti bibliografici

Rapporto annuale Amnesty International Italia 2017.  Come le politiche dell’unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti.

Amnesty International Report 2019. Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution.

Arendt H. 2009, Le origini del totalitarismo (1951), Torino, Einaudi.

Belardelli G. 2020. Ma per Macron al-Sisi è degno della Legion d’onore, in “Huffington Post”, 10/12/2020.

Berlin I. 1990. Il legno storto dell’umanità. Capitoli di storia delle idee, Adelphi, Milano.

Bobbio N. 1992. L’età dei diritti, Einaudi, Torino.

Cornet C. 2020. Il caso di Patrick Zaki e l’ambiguità delle relazioni tra Italia ed Egitto, in “Internazionale”, 13/02/2020.

Di Meo R. 2020. Il caso Zaki e i diritti umani in Egitto, in “Opinio Juris”

Ferrajoli L. 1997. La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari.

Kant I. 1965. Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino.

Levi P. 1992. Se questo è un uomo (1958), Einaudi, Torino.

Liverani L. 2021. Caso Regeni. Le Ong a Di Maio: l’Italia può bloccare le armi all’Egitto da tutta l’Europa, in “Avvenire”, 25/01/2021.

Neocleous M. & Kastrinou M. 2016. The EU hotspot. Police war against the migrant, in «Radical Philosophy 200», 2016, pp. 3-9.

Rawls J. 2001. Il diritto dei popoli (1999), Comunità, Milano.

Rodotà S. 2012. Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza.

Schiavello A. 2016. Ripensare l’età dei diritti, Mucchi, Modena.

Sen A. 2004. Elements of a Theory of Human Rights, in “Philosophy & Public Affairs”, 32, n. 4, pp. 315-356.

Twain M. 2007. Le avventure di Huckleberry Finn (1884), Rizzoli, milano.

Zagrebelsky G. 2017. Diritti per forza, Einaudi, Torino, p. 86.

 

Note

[1] Per una ricostruzione più articolata, si rinvia a Di Meo 2020.

[2] «La mano di una giustizia immediata è incatenata dalle leggi» (trad. mia).

[3] Cfr. Rawls 2001.

[4] Belardelli 2020.

[5] Cornet 2020 e Liverani 2021.

[6] Per una analisi più articolata delle questioni brevemente presentate in questo paragrafo mi permetto di rinviare a Schiavello 2016.

[7] Bobbio 1992, p. 49.

[8] Kant 1965, p. 218.

[9] Berlin 1990, p. 253.

[10] Arendt 2009, p. 409, corsivo aggiunto

[11] Levi 1992, p. 95.

[12] Twain 2007, p. 277.

[13] Ferrajoli 1997, p. 33.

[14] Ferrajoli 1997, p. 39.

[15] Ferrajoli 1997, p. 40.

[16] Bobbio 1992, p. 258-259.

[17] Sen 2004, p. 315.

[18] Rodotà 2012, p. 5.

[19] Bobbio 1992, p. 269.

[20] Zagrebelsky 2017, p. 86.

[21] Neocleous & Kastrinou 2016,.

[22] Ringrazio Alessandra Sciurba per avermi indotto a riflettere su questo ulteriore passaggio della crisi dei diritti umani.

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