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Giustizia. Il coraggio di affrontare i problemi

Gian Carlo Caselli * il . Giustizia, Istituzioni, Società

Il Coronavirus ha avuto (e continua ad avere) effetti devastanti sulla vita e la salute delle persone e sul versante economico-finanziario. Ma vi sono anche effetti indotti, per esempio sulla gestione dei processi.

Nel settore penale, cui principalmente si rivolge questo mio intervento, mentre l’attività requirente in pratica non si è mai fermata, per le altre attività vi è stato dapprima un blocco «ex lege», concluso il quale sono iniziate le fasi 2 e 3 della ripresa e della ripartenza, ancora caratterizzate da una decisa contrazione del numero dei processi trattati.

Ad un parziale recupero di quel che prima non si era potuto fare si accompagna però lo slittamento di vari processi già programmati per le fasi 1 e 2, a causa della necessità di far posto ai nuovi processi e in generale a quelli urgenti o non ulteriormente differibili. In sostanza, va accumulandosi un arretrato (sommandolo a quello «storico», già di per sé mastodontico, sono 2.676.720 i processi pendenti al 30.9.2020) che in futuro continuerà a pesare come un macigno sulle performances degli uffici giudiziari. Con la prospettiva che la temibile «terza ondata» dell’epidemia aggravi ulteriormente la situazione.

Il bilancio di chi esce

In questo quadro va inserito il cambio al vertice del Ministero della giustizia: Marta Cartabia al posto di Alfonso Bonafede (nel contesto di un nuovo Governo sostenuto da tutte le forze politiche salvo FdI).

È di moda parlare – dandolo per scontato – di un «cambio di passo» anche per il dicastero di via Arenula. Mi auguro che le cose vadano sempre meglio, ma penso che il «passo» del ministro Bonafede non sia poi stato così male come vorrebbero far credere coloro che non gli perdonano la «spazzacorrotti» e l’interruzione di una prescrizione altrimenti infinita.

Il Pg di Torino Franco Saluzzo (nemmeno ipotizzabile qualche sua «simpatia» verso posizioni di sinistra) inaugurando l’anno giudiziario ha pubblicamente dato atto a Bonafede di aver saputo imprimere – anche nel periodo peggiore della crisi sanitaria – una forte accelerazione sul fronte delle strutture e dell’innovazione, con «salti nel futuro» (il riferimento è al processo penale telematico) che in condizioni normali avrebbero richiesto anni. Nonché di aver proceduto ad una poderosa politica occupazionale che mancava da oltre vent’anni.

Dalla tragedia della pandemia possono venire opportunità

Sta di fatto, in ogni caso, che la pandemia ha per lungo tempo paralizzato la giustizia, salvo che per le attività indifferibili.

Le udienze da remoto, più che risolvere i problemi (o anche solo alleviarli) hanno suscitato polemiche, contestazioni e resistenze. Mentre lo «smart working», benché largamente praticato, è risultato in misura rilevante improduttivo. Anche per l’impossibilità tecnica del personale amministrativo di accedere da remoto ai registri. Sono tuttavia problemi che, per quanto gravi, si spera possano avviarsi a soluzione quando finalmente i tribunali saranno del tutto riaperti.

Ma ci sono altri problemi, nient’affatto contingenti ma strutturali, che rischiano di affossare definitamente la già asfittica macchina (si fa per dire…) della giustizia. Risolverli sarà un’impresa davvero titanica.

C’è tuttavia la speranza – un paradosso; ma anche no – che la guerra contro il Coronavirus possa produrre armi sociali di difesa (aumento del senso civico e della sensibilità verso gli interessi collettivi) utili per potenziare i valori della legalità e della giustizia.

In altre parole, dalla tragedia della pandemia potrebbero scaturire opportunità interessanti (non dico provvidenziali perché la parola suonerebbe blasfema).

In ogni caso – per non naufragare – si dovrà avere l’audacia ed il coraggio di affrontare i problemi, una buona volta, non con aggiustamenti e rattoppi, ma con decisioni e scelte radicali veramente innovative.

Una forte e decisiva spinta può venire dalle risorse del recovery fund, stanziate dall’Ue – com’è noto – per arginare l’impatto disastroso del coronavirus, sostenendo l’economia dei paesi membri.

Complessivamente il fondo è di quasi 209 miliardi di euro. Nel recovery plan (noto anche come Pnrr, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) di questi 209 miliardi alla giustizia ne sono assegnati 3, dei quali 2,3 per assunzione di personale a tempo determinato da destinare soprattutto al cosiddetto «ufficio per il processo» (instituito con una legge del 2014).

Il ministro Bonafede aveva elaborato un «Piano straordinario per la giustizia», al fine di aggredire (in un’ottica di complessivo miglioramento dell’efficienza del sistema), le criticità legate alle raccomandazioni della Commissione UE per il 2019-2020, che in estrema sintesi richiedono interventi sui seguenti aspetti:

  1. durata dei processi civili e penali nei tre gradi di giudizio;
  2. carico della sezione tributaria della Cassazione;
  3. necessità di semplificazione delle procedure;
  4. disomogeneità territoriali nella gestione dei processi;
  5. repressione della corruzione;
  6. posti vacanti di personale amministrativo;
  7. attuazione tempestiva dei decreti di riforma in materia di insolvenza;
  8. promozione di soluzioni sostenibili per i debitori solvibili colpiti dalla crisi.

I nodi strutturali

Si tratta in sostanza dei principali problemi strutturali della nostra giustizia (alcuni dei quali determinanti per un’azione economica di recupero del sistema produttivo). Per ognuno di essi il progetto Bonafede indicava analitiche risposte. Tra l’altro prevedeva l’assunzione di 10.000 persone nel 2021 e l’assorbimento dell’arretrato entro il 2026; – e poi la destinazione di 470 milioni all’edilizia giudiziaria, in un’ottica green e di sicurezza sismica.

Senonchè con il nuovo Governo si dovrà ricominciare da capo, anche occupandosi preliminarmente della congruità della cifra stanziata nel Pnrr per la giustizia.

Nel suo discorso introduttivo al senato il premier Draghi si è limitato a ripetere le raccomandazioni della Ue. Toccherà al ministro Cartabia redigere un nuovo piano concreto, rimaneggiando in tutto o in parte quello di Bonafede. Per cui l’unica cosa che allo stato degli atti si può dire è che il «cambio di passo» per ora si è risolto in un rallentamento.

Va da sé (monotono ma indispensabile ripeterlo) che nevralgico è il problema della durata irrazionale del nostro processo.

La Cepei (Commissione per l’efficienza della giustizia) del Consiglio d’Europa certifica i nostri record tristemente negativi. Nel processo civile peggio di noi (527 giorni) solo la Grecia (559), a fronte di una media europea di 233 giorni. Nel penale, 361 giorni per il primo grado (media europea 144).

Peggio ancora i dati elaborati dal Sole-24 ore, dai quali risulta che mediamente il processo penale in Italia dura 1589 giorni (circa 4 anni e 4 mesi) così ripartiti: 323 in procura, 375 in tribunale, 759 in appello, 132 in cassazione. Come si vede, l’appello «brucia» da solo il 48% dell’intera durata del processo penale.

Il nodo da sciogliere prima di ogni altro è quindi proprio in questa fase. Quantomeno introducendo dei «filtri» che impediscano di fare ricorso sempre e comunque inceppando tutto, perché comunque (col divieto di reformatio in pejus, retaggio medievale) non c’è nulla da perdere e tutto da guadagnare, soprattutto se la prescrizione non si interrompe mai.

Una soluzione «terremoto» (che comunque avrebbe il pregio di allinearci ai paesi di rito accusatorio) sarebbe abolire tout court l’appello. Personalmente penso (per le ragioni che ho già avuto modo di esporre su «Rocca», prima ancora che la pandemia peggiorasse le cose) che si dovrebbe trovare il coraggio di operare proprio in tale direzione.

L’aria che tira

Ma l’aria che tira (grazie soprattutto alla potente lobby degli avvocati) non è sicuramente favorevole. E già si ricomincia a parlare di amnistia e indulto che – si sostiene – non sarebbero colpi di spugna, ma nobili strumenti per preparare e accompagnare, nel nuovo clima di solidarietà, una più ampia riforma della giustizia.

Istanza assai discutibile, ma staremo a vedere.

Intanto «accontentiamoci» di una depenalizzazione incisiva che da un lato elimini vari reati e dall’altro cancelli soltanto la sanzione penale, sostituendovi serie misure o condotte riparatorie, insieme a risarcimenti alternativi. Così intesa, la depenalizzazione – oltre ad avere effetti di sfoltimento – sarebbe anche un importante segnale ai cittadini.

Concludo ricordando che una priorità di agenda non potrà non essere la lotta alla mafia. Se vogliamo, una segnalazione banale, ma necessaria: se si considera che il premier Draghi nel suo primo intervento al Senato alla mafia non ha fatto alcun cenno, inducendosi a parlarne soltanto in replica, dopo la sollecitazione di un senatore.

* Fonte: Rocca n°06 – 15 marzo 2021

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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