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Corte Costituzionale, oggi la decisione sul Lodo Alfano

Di Stefano Fantino il . Istituzioni, Lazio

I giudici della Corte Costituzionale tornano a riunirsi oggi per
decidere della costituzionalità del Lodo Alfano. Da ieri mattina la norma voluta dall’attuale governo che sospende i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato, è al vaglio. Compito dei quindici giudici del massimo organismo giudiziario italiano stabilire se la legge approvata il 22 luglio 2008 sia in linea con i dettami della Costituzione.  Prima di analizzare gli aspetti salienti del “Lodo Alfano” facciamo un breve cenno ai tre ipotetici scenari che si configureranno dopo che la Corte si pronuncerà. Il primo caso è quello in cui si arrivi all’accettazione del Lodo Alfano così com’è,con un “no” sostanziale ai ricorsi. In seconda battuta l’accettazione parziale con la dichiarazione di parziale incostituzionalità del Lodo, le cui parti non approvate dalla Consulta potrebbero essere modificate con un disegno di legge; e infine la bocciatura integrale della legge.

Lodo Alfano, un articolo, otto commi

Cerchiamo ora di sintetizzare cosa prevede nello specifico il “Lodo”. Approvata il 22 luglio 2008 la legge, composta da un solo articolo e da 8 commi, propone la sospensione del processo penale nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato: il presidente della Repubblica, il presidente della Camera, il presidente del Senato e il presidente del Consiglio. I processi penali sono sospesi per tutta la durata della carica e il “Lodo” ha anche valenza retroattiva, ovvero, sono compresi quei reati  commessi e relativi procedimenti iniziati prima di assumere una delle quattro cariche “coperte” dalla legge. Gli unici procedimenti che non posso essere bloccati sono quelli per “alto tradimento o per attentato alla Costituzione” (articolo 90 della Costituzione) o per reati ministeriali (articolo 96). Le due principali peculiarità del “Lodo” riguardando i commi 2 e 5 dell’articolo 1 del decreto. Il comma 2 prevede la rinuncia alla sospensione da parte dell’imputato, di fatto non rendendo automatico il congelamento dei processi. Questo è il comma che ha recentemente utilizzato il presidente della Camera Fini, dopo la querela nei suoi confronti da parte dell’ex pubblico ministero di Potenza Henry John Woodcock, di fatto rinunciando al “Lodo”. Il comma 5 è invece frutto di un emendamento voluto dall’opposizione: il ricorso al “Lodo” non è reiterabile e non copre le quattro cariche qualora dovessero essere investite di altre funzioni. Una limitata eccezione è concessa al premier che nel caso di nuovo incarico assunto nella stessa legislatura potrebbe ancora usufruire dei benefici della legge.

Le tre mozioni di incostituzionalità

Contro il “Lodo” sono stati presentati tre ricorsi, da cui la necessità del parere della Corte Costituzionale. I primi due da parte dei giudici di Milano nell’ambito dei processi in cui il premier  Berlusconi è imputato per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato inglese David Mills (condannato in primo grado a 4 anni e 6 mesi) e per irregolarità nella compravendita dei diritti televisivi Mediaset. Il terzo è del giudice delle indagine preliminari di Roma chiamato a decidere se rinviare o meno a giudizio Berlusconi, indagato per istigazione alla corruzione di alcuni senatori eletti all’estero durante la scorsa legislatura. Nel settembre 2008 era stato il pm milanese Fabio De Pasquale a sollevare il dubbio sulla costituzionalità del “Lodo”: il suo ricorso è stato accolto dai giudici di entrambi i processi milanesi  che hanno presentato, quindi, la richiesta di pronunciamento alla Corte. Nel mirino dei pm alcuni parti che lederebbero in maniera visibile il valore di alcuni fondamentali articoli della Costituzione, nell’ordine di tre differente tipologie.
La prima si rifa principalmente a una motivazione “legislativa”: violando l’articolo 138 della Costituzione. Il “Lodo” attuarebbe tramite una legge ordinaria dello Sato qualcosa che invece richiederebbe una norma di rango costituzionale. In questo caso sarebbe praticamente impossibile, in caso di bocciatura,  ripresentare un “lodo bis”, dato che una tale sentenza ne metterebbe in discussione proprio la natura di legge ordinaria. L’altra critica verte sul principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”): in questo caso il “Lodo” creerebbe, de facto, dei cittadini di seria a e dei cittadini di serie b. Un’ultimo dubbio riguarda, invece, una deriva prettamente “penale” riguardo l’incostituzionalità: la violazione di due articoli il 111 e il 112 che vertono sulla ragionevole durata del processo e l’obbligatorietà dell’azione penale.

La posizione del premier: il caso Mills

Allo stato attuale il più grande beneficiario del “Lodo” sarebbe il presidente del Consiglio. Fatto salvo il caso precedentemente citato del presidente della Camera Fini, è Silvio Berlusconi a usufruire del “pacchetto” Alfano per quanto riguarda il processo in cui è imputato di aver corrotto l’avvocato inglese David Mills. Questi è stato condannato a quattro anni e sei mesi nel febbraio scorso: la decima sezione penale del tribunale di Milano parlava di corruzione in atti giudiziari. Il presidente del consiglio, coimputato ha visto stralciata la sua posizione in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla legittimità costituzionale del ”Lodo”. A maggio i giudici hanno pubblicato le motivazioni della sentenza per la vicenda che riguarda il pagamento di 600mila dollari a Mills. Secondo l’accusa sono stati versati, attraverso il manager Fininvest Carlo Bernasconi, da parte di Silvio Berlusconi perchè il legale fosse testimone reticente nei processi per tener fuori il Cavaliere da varie indagini sulla Fininvest. Una falsa testimonianza mirata ad avantaggiare economicamente il premier e garantirne l’impunità: «Egli ha certamente agito da falso testimone, da un lato, per consentire a Silvio Berlusconi ed al Gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse o, almeno, il mantenimento degli ingenti profitti realizzati attraverso il compimento delle operazioni societarie e finanziarie illecite compiute sino a quella data; dall’altro, ha contemporaneamente perseguito il proprio ingente vantaggio economico». Una condotta sostanzialmente guidata dalla «necessità di distanziare la persona di Silvio Berlusconi dalle società off shore, al fine di eludere il fisco e la normativa anticoncentrazione, consentendo anche, in tal modo, il mantenimento della proprietà di ingenti profitti illecitamente conseguiti all’estero, la destinazione di una parte degli stessi a Marina e Piersilvio Berlusconi».
I giudici nelle considerazioni conclusive delle motivazioni puntualizzano che «il fulcro della reticenza di David Mills, in ciascuna delle sue deposizioni, sta nel fatto che egli aveva ricondotto solo genericamente a Fininvest, e non alla persona di Silvio Berlusconi, la proprietà delle società offshore, in tal modo favorendolo in quanto imputato in quei procedimenti».

La bocciatura del Lodo Schifani

In attesa della pronuncia, vale la pena concludere l’analisi con un piccolo riferimento a quel tentativo, parzialmente bocciato per incostituzionalità, di dare copertura penale totale alle massime cariche dello Stato. La legge è del 2003 e circola sotto il nome di “Lodo Schifani”. La richiesta di pronuncia della consulta aveva prodotto giudici severi minandone alcune parti fondamentali.Quando viene pubblicata in “Gazzetta Ufficiale”, legge 140/2003, il “Lodo Schifani” afferma che: “non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle medesime, il Presidente della
Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio dei Ministri, il Presidente della Corte Costituzionale”. Si prevedeva dunque una generale sospensione dei procedimenti, automatica e di durata non determita. Fu questo a bloccare l’articolo 1 nel 2004 quando la Corte Costituzionale dichiarò “l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato); dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 3, della predetta legge n. 140 del 2003”. Di fatto non apportando altre modifiche al testo ma insistendo sulla necessarietà dell’azione penale che veniva irrimediabilmente a mancare.

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