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Memoriale di settembre

Di Anna Foti (da Strill.it) il . L'analisi

Un omaggio
a chi ha speso la vita per la giustizia e la verità, andando incontro
alla morte per mano della mafia. 

PINO PUGLISI,
prete, ucciso a Palermo il 15 settembre 1993

ROSARIO ANGELO
LIVATINO, giudice (“ragazzino”), ucciso ad Agrigento il 21 settembre
1990

MAURO ROSTAGNO,
giornalista, ucciso a Lenzo di Valderice (Trapani) il 26 settembre 1988

ALBERTO GIACOMELLI,
magistrato, ucciso a Trapani il 14 settembre 1988

GIANCARLO SIANI,
giornalista, ucciso a Napoli il 23 settembre 1985

MAURO DE MAURO,
giornalista, scomparso a Palermo il 16 settembre 1970

Tale breve
memoriale non ha alcuna pretesa di essere completo ed esaustivo…. 

MAURO ROSTAGNO

giornalista,
ucciso a Lenzo di Valderice (Trapani) il 26 settembre 1988

Le maglie di
una vicenda si infittiscono ed oltre alle trascorse indagini delle procure
calabresi, tra cui anche quella reggina, anche quelle del sostituto
procuratore di Palermo, Antonino Ingroia, titolare delle indagini sull’omicidio
di Mauro Rostagno. Si tratta dello smaltimento illegale di rifiuti pericolosi.
Il sociologo e giornalista trapanese di Radio Tele CIne rimane freddato
da quattro colpi di fucile calibro 12 e due di pistola calibro 38, il
26 settembre 1988, per le continua denunce di intrecci tra cosa nostra,
politica e massoneria. Lo stesso Ingroia ha, infatti, asserito che la
matrice mafiosa del delitto Rostagno non esclude che vi siano altre
convergenze e ha ricordato che diverse sono state le conferme circa
il filmato che Mauro avrebbe girato all’aeroporto militare dismesso
di Trapani. Qui puntualmente il posto di cibi e medicinali scaricati
da una pancia di aereo veniva occupato da un carico di armi destinate
alla Somalia. Giunto a destinazione nel porto di Bosaso, si eseguiva
l’accordo. Dietro una baraccopoli atterrava una aereo mentre una gru
sollevava dalla stiva del peschereccio Kaloa una rete colma di bidoni
poi caricati su un furgone. Su di essi un triangolo giallo con un teschio
e le ossa incrociate. Non c’è dubbio. Rifiuti tossici. Quel filmato
all’aeroporto Kinisia di Trapani era una prova inconfutabile di traffici
di scorie e armi, coperti da una campagna di aiuti umanitari. Una prova
di tradimento perchè lui conosceva le persone che muovevano le fila
di questo traffico dalla sua città alla Somalia. Una prova che doveva
scomparire, e così fu dopo il suo omicidio. Le videocassette furono
portate via dall’auto insanguinata e dalla sua scrivania in redazione.
Erano immagini incandescenti come quelle girate in Somalia, al porto
di Bosaso ed aventi a oggetto questa volta il peschereccio Kaloa. Siamo
nel 1994. L’equipaggio è cambiato, ma non il contenuto del carico e
a fare le riprese è Miran Hrovatin accompagnato da Ilaria Alpi. Neanche
il tempo di girare e giunge chiaro e inequivocabile l’ordine di consegnare
la cassetta. E’ il 20 marzo, il più crudele dei giorni per Ilaria e
Miran. Come quella notte a Trapani nel 1988 per Mauro. Come ogni istante
il cui la violenza e il sangue soffocano la verità.  

PINO PUGLISI

prete, ucciso
a Palermo il 15 settembre 1993

 “La
mafia è forte ma Dio è onnipotente”. Rimane questo a Brancaccio,
quartiere di Palermo che ha dato e tolto la vita a Padre Pino Puglisi,
divenuto il simbolo di una Chiesa apertamente impegnata a favore della
legalità e della giustizia illuminate dalla fede e coraggiosamente
schierata contro l’ignoranza che favorisce la prevaricazione mafiosa.
Era il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, quando la
missione di educatore delle coscienze, la vita dedicata al recupero
dei giovani già intrappolati nelle maglie della criminalità mafiosa
di don Puglisi veniva barbaramente stroncata. Là in quella stessa borgata
palermitana che, in quello stesso giorno del 1937, gli aveva dato i
natali, oggi non resta che un ricordo. È la triste e amara considerazione
che si evince dalle parole di Suor Carolina Iavazzo, che accanto a Padre
Pino Puglisi combattè Cosa Nostra attraverso l’esperienza di ascolto
e accoglienza dei giovani del quartiere palermitano. “Era un padre
devoto ma deciso. Osservato dagli uomini d’onore della zona, non temette
mai per la sua vita”, ricordava suor Carolina. Nelle sue parole, un
ritratto sobrio ma esemplare di un padre che guardò senza veli il proprio
tempo, abbracciando con dedizione la croce di essere una profeta di
pace in una terra di sangue. “Invitava i giovani alla responsabilità,
– ha proseguito suor Carolina – alla scelta della strada bianca della
rettitudine e dell’onestà e alla rinuncia tenace e convinta a quella
nera del crimine e del sopruso e a quella grigia dell’indifferenza
e della viltà”. Un destino spezzato, quello di don Puglisi, che ha
lasciato il segno in quanti lo hanno conosciuto. Un esempio di santità
posta al servizio di una piaga sociale che non risparmia i giovani,
colpendoli e privandoli di prospettive sane. Umili origini per un uomo
che ha scritto pagine coraggiose nella storia della Chiesa e della Sicilia.
Nato da un calzolaio e una sarta, ha inaugurato il centro Padre Nostro
a Brancaccio, offrendo ai giovani e alle famiglie del quartiere un solido
punto di riferimento. Un gesto concreto di profondo radicamento nel
territorio e di accoglimento di bisogni e problemi. Era il 29 gennaio
1993, solo pochi mesi prima che fosse ucciso dalle forze tutt’altro
che oscure che egli non temette mai di guardare a viso aperto. “Più
che uccidermi non possono fare”. Così Padre Pino Puglisi, rispondeva
a coloro che lo invitavano alla prudenza quando sfidava i mafiosi. Dunque
non aveva paura della morte perché era troppo più importante onorare
la vita da liberi e da persone capaci di scelte decise e trasparenti
e non incerte ed apparenti. Tutti perdiamo il nostro corpo e ciò che
ci distingue è come spendiamo la nostra vita. Dunque scegliere da che
parte stare e starci. Don Puglisi lo fece fino in fondo.     

ROSARIO ANGELO

giudice (“ragazzino”),
ucciso ad Agrigento il 21 settembre 1990

Corretto e
incorruttibile. Lucido e coraggioso. Un uomo delle Istituzioni di cui
essere fieri, orgogliosi. Per questo è stato freddato, alla sola età
di trentotto anni, lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta, al chilometro
10, dove oggi è riposta una stele commemorativa. Senza scorta, è stato
trucidato dalla Stidda agrigentina sul viadotto Gasena, mentre si recava
in Tribunale per giudicare i boss di Palma di Montechiaro. Proprio nei
giorni scorsi, il tribunale di Palermo, su richiesta della DDA, ha proceduto
all’arresto di Nicolò Ribisi, secondo gli inquirenti, il nuovo capo
della famiglia Montechiaro. Quello di allora era un processo che Livatino
aveva istruito quando era sostituto procuratore. Dopo l’attentato,
il supertestimone Pietro Ivano Nava ha denunciato ciò che aveva visto,
consentendo l’individuazione del commando esecutore –  Paolo
Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro – e dei
mandanti – Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe
Montanti –  tutti condannati all’ergastolo, eccetto quelli hanno
collaborato. Prima di Livatino, Canicattì, in provincia di Agrigento,
ha pianto anche il presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise
d’Appello di Palermo Antonino Saetta,
trucidato unitamente al figlio Stefano
il
25 settembre 1988, in un agguato mafioso
sempre sulla SS 640 AG-CL, sul viadotto Giulfo.

Entrato giovanissimo
in magistratura Rosario Angelo Livatino, conosceva i segreti dei clan;
si occupò di quella che si sarebbe rivelata come la Tangentopoli
Siciliana
e utilizzò, nella sua attività di contrasto alla criminalità
organizzata, anche l’aggressione ai patrimoni mafiosi attraverso la
confisca solo da alcuni anni introdotta nel sistema legislativo italiano.
La figura di Rosario Livatino è cara non solo alle istituzioni per
lo spessore umano e professionale e per il tributo pagato nella lotta
alla mafia, ma è caro anche alla Chiesa. Pare infatti che possedesse
particolari capacità. Fu definito da Papa
Giovanni Paolo II
«martire
della giustizia ed indirettamente della fede». Lui che in diverse occasioni
ha parlato di Fede e Diritto non in termini di antinomia ma in termini
di armonia, come in questo suo scritto: “Contrapporre i concetti,
le realtà, le entità della fede e del diritto può dare di primo acchito
l’ìmpressione, l’idea di una antinomia, di una contrapposizione teorica
assolutamente inconciliabile; l’una, espressione della corda più intima
dell’animo umano, dello slancio emotivo più genuino e profondo, dell’adesione
più totale ed incondizionata all’invisibile e, in fondo, all’irrazionale;
l’altra invece frutto, il più squisito, della razionalità, della riflessione,
della gelida ed impersonale elaborazione tecnica- l’idea quindi dì
due aspetti della vita umana del tutto autonomi e distinti fra loro
e, come tali, destinati a manifestarsi e ad evolversi senza alcun contatto
o reciproca interferenza: estranei l’uno all’altro. Un’idea che pare
trovare, sempre ad un primissimo e superficialissimo esame, eco nel
tenore letterale del l’ articolo del nuovo Concordato: «La Repubblica
Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa Cattolica
sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.» Così invece
non è quella che abbiamo definito come prima impressione è una errata
impressione perché, alla prova dei fatti, queste due realtà sono continuamente
interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto,
quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte
lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”. 

MAURO DE MAURO

giornalista,
scomparso a Palermo il 16 settembre

Cronista dell'”Ora”
di Palermo, rapito sulla via del ritorno a casa la sera del 16 settembre
del 1970. Da allora il buio attorno al sequestro del giornalista, forse
ad un passo dal rivelare il piano insurrezionale di alcuni suoi ex colleghi
della Decima Mas e di esponenti di Cosa Nostra e Ndrangheta, il cosiddetto
Golpe Borghese. Forse vicino a scrivere alcuni articoli sulla famiglia
Bontade. Forse a conoscenza dei luoghi prediletti per i traffici di
cocaina su cui indagava il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa,
anch’egli una vittima di settembre
(Palermo, 3 settembre
1982)
. Forse, ma è una tesi minoritaria,
per quanto scoperto circa il fondatore dell’Eni, Enrico Mattei morto
in quel frangente. Quella sera, comunque, è la fine della vita di Mauro
De Mauro il cui corpo, non ancora trovato, potrebbe essere stato seppellito,
come dichiarato dal pentito Gaetano Grado (Tanino occhi celesti), presso
il fiume Oreto nel palermitano, poi disseppellito per essere sciolto
nell’acido nel 1978, come dichiarato dal pentito Francesco Marino Mannoia.
Intanto nel 2005 arriva il rinvio a giudizio, chiesto e ottenuto dai
pm Antonio Ingroia e Gioacchino Natoli, di Totò Riina, come mandante
del rapimento e dell’omicidio che potrebbe essere stato eseguito da
Bernardo Provenzano. Occorre precisare che sono trascorsi già i tempi
del Triumvirato e, morti Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade, Totò
Riina, sostituito Luciano Liggio forse latitante a Catania, è al vertice
di Cosa Nostra.  

Un falso squarcio
di luce si fa strada lo scorso anno quando si suppone che Mauro di Mauro,
rapito in Sicilia, fosse stato sepolto in Calabria. E’ il pm antimafia
di Catanzaro, Gerardo Dominijanni, a disporre, 38 anni dopo il sequestro
De Mauro, la riesumazione di un cadavere. Si trattava dell’ipotesi,
poi smentita, secondo la quale i resti del cadavere riposto nel cimitero
di Conflenti, nel lametino, fossero del giornalista siciliano piuttosto
che del boss Salvatore Belvedere, arrestato nel 1969 per contrabbando
di sigarette e fintosi morto dal 1970 dopo essere evaso dal carcere
di Nicastro insieme a Michele Montalto, Carmelo Filleti e Pino Scriva
(primo pentito della Ndrangheta). Invece il boss non è mai morto ed
è latitante all’estero e nella sua tomba sono stati rivenuti sei scheletri
e ossa sparse su molte delle quali non è stato  neanche possibile
effettuare delle analisi. Uno scambio tra Ndrangheta e Cosa Nostra.
A dirlo sono stati il cognato del boss lametino, Tonino De Sensi, e
i pentiti calabresi Pino Scriva e Massimo De Stefano. A sostenerlo fu
il capo della Mobile catanzarese, poi questore di Cosenza e di Crotone,
Raffaele Gallucci, autore di un’informativa che già nel 1978 poneva
qualche dubbio sull’attribuzione a Salvatore Belvedere del cadavere
trovato carbonizzato e ritrovato nell’aprile del 1971 sulle colline
di Lamezia e poi sepolto a Confluenti. Di questo e di altro scrisse
il giornalista della Gazzetta del Sud, Arcangelo Badolati nel suo volume
“Ndrangheta eversiva” in cui si scava anche in un altro mistero
degli anni Settanta, di cui ha raccontato anche Fabio Cuzzola nel sui
libro-inchiesta “Cinque anarchici del Sud”. Si tratta dei
ragazzi della “baracca”, i cinque anarchici calabresi –
Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi
Lo Celso e Annelise Borth –  morti il 27 settembre del 197
0

sull’autosole alle porte di Roma. Avrebbero dovuto consegnare un delicato
rapporto sulla strage ferroviaria della Freccia del Sud e del suo deragaliamento
a Gioia Tauro. Una strage archiviata dagli inquirenti che invece avrebbe
potuto essere frutto dell’esplosione di una bomba nell’ambito dello
stragismo nero. Forse le rivelazioni contenute in quel dossier, che
avevano con loro in macchina prima dell’incidente sull’A1 e che
non fu mai trovato, potevano contenere le stesse informazioni dirompenti
che Mauro De Mauro avrebbe dovuto svelare nel suo reportage giornalistico.
Informazioni affogate nel sangue che un silenzio ha ingoiato ormai da
quasi quarant’anni. 

GIANCARLO SIANI

giornalista,
ucciso a Napoli il 23 settembre 1985

E’ invece la
Camorra  a stroncare la vita di Giancarlo Siani, originario dei
quartieri del Vomero, attento osservatore delle fasce sociali più 
emarginate dove si annidava la principale manovalanza della criminalità 
organizzata. Collaboratore dell’Osservatorio sulla Camorra, corrispondente
da Torre Annunziata per il Mattino di Napoli, fu qui che intraprese
le sue inchieste più impegnative in particolare su Valentino Gionta
e sul contrabbando di sigarette.  Ma quell’articolo del giugno
1985, in cui accusò il clan Nuvoletta, alleato dei Corleonesi di Riina,
e il clan Bardellino di aver voluto estromettere Valentino Gionta, arrestato
proprio dopo aver lasciato la tenuta nel napoletano di Lorenzo Nuvoletta,
fu fatale. La sentenza di condanna per i responsabili del suo omicidio
arriverà dopo 12 anni con la comminazione dell’ergastolo a carico di
Angelo Nuvoletta, Valentino Gionta e Luigi Baccanti, mandanti, e di
Ciro Cappuccio e Armando Del Core, gli esecutori.   

ALBERTO GIACOMELLI

magistrato,
ucciso a Trapani il 14 settembre 1988

Non solo le
redazioni, ma anche le aule del tribunale, profanate dalla mano della
mafia. Alberto Giacomelli permessosi di  applicare la legge e di
confiscare le proprietà di un Riina, è stato ucciso in via
Falconara di Locogrande. Un delitto di mafia che per lungo tempo fu
considerato commesso da malviventi che a duecento metri di distanza
dalla panda avevano lasciato una vespa, un casco e, a cinque metri da
un cassonetto dei rifiuti, la calibro 38 che aveva esploso due colpi
alla testa e all’addome di Alberto Giacomelli. Una sentenza del 28 gennaio
1985 con cui disponeva la sorveglianza speciale per Gaetano Riina, fratello
di Totò, e la confisca dei suoi beni immobili siti a Mazara del Vallo
di cui lo stesso “fratello du zu Totò” tentò di restare
in possesso ma senza successo. Questa la colpa del giudice Giacomelli.
Un attacco al patrimonio che scatenò l’ira di Totò che nella mattanza
di quegli anni inserì anche il nome del giudice che aveva arrecato
danno alla sua famiglia. Intanto il rischio di oblio è sempre più
concreto come anche le innumerevoli criticità della legge sulla confisca
dei beni e la potenza della mafia imprenditoriale nel trapanese, controllata
da Mariano Agate attualmente in carcere.

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Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

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