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L’attentato mafioso al commissario Rino Germanà

Di Rino Giacalone il . Sicilia

E’ una delle vicende che a pieno titolo fa parte dei percorsi investigativi che oggi i magistrati di Caltanissetta guidati dal procuratore Sergio Lari sono tornati a ripercorrere a proposito dei possibili mandanti esterni alle stragi di mafia del 1992. E’ il tentato omicidio dell’allora vice questore Rino Germanà, oggi questore a Forlì. Sfuggì il 14 settembre del 1992, mentre era commissario a Mazara, ad un commando del quale facevano parte i capi di Cosa Nostra che non avevano avuto remore a muoversi dalle loro latitanza per andarlo ad uccidere. Erano Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro. Lo attesero sul lungomare a pochi metri dalle spiagge. Lui guidava una Fiat Panda e proveniva dal commissariaato per arrivare alla casa di Tonnarella. I killer sbagliarono, sorpresi dalla reazione di Germanà che presto si accorse di loro, non riuscirono ad usare beni il fucile, un kalashnikov, Germanà sfuggì ai colpi d’arma da fuoco esplosi dall’arma impugnata dapprima da Giuseppe Graviano e poi da Leoluca Bagarella, mentre a guidare l’auto con loro a bordo era Matteo Messina Denaro.

 Il perché il tentato omicidio del vice questore Germanà potrebbe rientrare tra gli episodi che vedono Cosa Nostra posta agli ordini di “mandanti esterni” come per le stragi, lo si coglie nella stessa sentenza che ha condannato per il tentato omicidio Germanà, i componenti del commando ed i loro complici. Germanà all’epoca era commissario a Mazara del Vallo, una sorta di improvvisa e ingiustificata retrocessione di carriere, lui che aveva lasciato Trapani da dirigente della squadra Mobile, era stato fatto tornare per andare a coprire un gradino più basso. Come se qualcuno avesse fatto di modo e di maniera di portarlo a Mazara, al centro di un mirino. Lui commissario a Mazara c’era stato tra il 1984 e il 1987, dal 1987 al 1991 fu poi dirigente della Squadra Mobile di Trapani, a giugno del 1991 venne trasferito alla Criminalpol, infine per un paio di mesi nei primi del 1992 arrivò in Procura a Palermo per affiancare il procuratore aggiunto Paolo Borsellino che lo avrebbe voluto a guidare la Dia di Palermo, ma Germanà dal suo ministero venne mandato a dirigere il commissariato di Mazara. Retrocesso senza ragioni. Quando sfuggì ai killer che volevano ucciderlo, il 14 settembre 1992, lui a Mazara c’era da poco più di tre mesi.

Mandanti esterni anche per Germanà? E’ possibile intravederli rileggendo la storia di quei giorni, ricostruita nella sentenza, a sentire il racconto di quel periodo dalla voce del questore Germanà, che sfuggito ai klller per anni era come se morto lo fosse stato lo stesso, perché sparì dentro i meandri degli uffici del Viminale, finendo addirittura a fare il dirigente della polizia all’aeroporto di Bologna. L’arrivo a Mazara lo aveva portato a rimettere assieme alcune carte e riprendere antiche intuizioni. C’era una ditta a Mazara che Germanà guardava con attenzione, era la “Marciante 2”, aperta da un imprenditore trapanese venuto a Mazara. Altre indagini diedero contenuto ai suoi sospetti, quell’impresa era la cabina di regia della nuova mafia. Scattò per questo l’attentato? I nomi dei titolari dell’azienda, chi la frequentava, non erano altro che soggetti in grado di stare vicino a latifondisti e campieri, imprenditori e politici, tanti insospettabili. Giovanni Brusca parlando di quel tentato omicidio spiegò che “rientrava in una sorta di strategia che in quel periodo Cosa Nostra stava attuando: ossia ogni famiglia doveva provvedere a  eliminare i‘problemi che aveva nel proprio territorio”. I mafiosi la chiamavano  “la pulitina dei pezzi”, uno di questi “pezzi” era Rino.

Germanà, lui “costituiva un problema per i ‘mazaresi” cosa che Brusca dice di avere appreso dai mazaresi stessi, “perché era un grande investigatore del trapanese’: conosceva infatti tutti gli uomini d’onore di Mazara del Vallo “e non mancava di mandarli a chiamare a uno a uno, non solo per contestare loro i fatti delittuosi commessi ma anche per sollecitarli a redimersi; e tutto ciò dava fastidio agli uomini d’onore di Mazara del Vallo”. E forse non solo a loro. Lui sentito una volta in un processo ricostruì la sua carriera, incarichi e indagini, fece riferimento anche a quell’inchiesta su una importante Banca siciliana, la Banca Sicula appartenente alla famiglia D’Alì di Trapani, la stessa che come campieri aveva i Messina Denaro per i loro terreni di Castelvetrano. Germanà parlò di questa inchiesta in quel processo poi si prese un lungo momento di silenzio, un sospiro e disse che tornato a Trapani tentarono di ucciderlo. Il pm lo interruppe e gli chiese se metteva in relazione i due accadimenti, l’indagine sulla banca e il tentato omicidio, “no dottore no – rispose Germanà – prima feci quell’indagine poi cercarono di uccidermi” solo una consecuzione temporale, la cronaca dei fatti.

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