Il lungo fiume dell’antimafia. Ci voleva Rai Storia
Devo confessarlo. Mi sono commosso. Curando lo speciale di Rai Storia (andato in onda ieri, nessuna autopromozione) sulla storia del movimento antimafia in Italia, ho rivisto di colpo e tutta insieme una umanità che dovrebbe essere orgoglio del paese.
Sarà pure stata minoranza, però lo spirito di sacrificio di tanti e tanti magistrati, funzionari pubblici, esponenti delle forze dell’ordine, notissimi o sconosciuti, la loro sfida quotidiana a un potere sanguinario, ha qualcosa di grandioso. In nome di quale stipendio, per quale Stato, per quale popolo?
Stessa sensazione rivedendo le immagini e i servizi di un giornalismo che ha continuato imperterrito a indagare, a denunciare, storie italiane minori ma non tanto, come quelle de “l’Ora” di Palermo o dei “Siciliani”, o le inchieste di Joe Marrazzo.
Per non parlare di quella fiumana infinita di studenti che sbucano dappertutto, linfa di una nazione spesso impaurita, balbettante, complice. Eccoli a Ottaviano, primi anni ottanta, in centomila contro Cutolo, il capo supremo della camorra con cui poteri dello Stato avevano appena trattato per ottenere dalle Brigate rosse la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore che manovrava i fondi della ricostruzione dopo il terremoto irpino. Eccoli in piazza a Palermo dopo l’assassinio del prefetto dalla Chiesa. E poi a Milano a riempire il Palalido (“come a un concerto” dice incredulo il telegiornale) ai tempi del maxiprocesso. E a Palermo in infinite catene umane dopo le stragi. E alle manifestazioni oceaniche di Libera del primo giorno di primavera. E poi in festa sulla nave della legalità che dal 2007 sbarca ogni anno a Palermo da Civitavecchia il 23 maggio. E i loro insegnanti, le loro insegnanti soprattutto. Con quel chiodo che nessuno è mai riuscito a scacciare, il dovere di svolgere una missione civile “in partibus infidelium”, come diceva Falcone.
E poi le centinaia e centinaia di familiari che orgogliosamente chiedono giustizia con le loro foto appese al collo. Ognuno con le proprie rughe antiche o fresche, figli o anche nipoti accanto. Costretti a ripetere dignitosamente la vicenda – per gli altri anonima – dei propri cari. E i film, le canzoni, le parole d’ordine, le frasi sulle magliette, una moderna antropologia in cammino. I nomi delle cooperative nate sui beni confiscati, la sfida suprema di Libero Grassi che va in tivù ad annunciare al suo estorsore che non lo pagherà. Gli occhi sgomenti e fieri di Paolo Borsellino nel suo ultimo discorso nel cortile della biblioteca comunale di Palermo.
Che grande storia italiana, amici lettori. Tragica e nutrita di una speranza che non si spegne mai. Mi scoppiava e mi sfuggiva da tutte le parti. E posso assicurarvi che nonostante le dieci ore di programma non ci stava, proprio non ci stava tutta dentro nel modo giusto. Un fatto indimenticabile, un aneddoto da antologia risorgimentale, un personaggio da romanzo. Tutto fluiva nei filmati, negli articoli di giornale, nella memoria.
Ci si può chiedere a cosa questo sia servito se il paese è conciato com’è. Ma bisogna chiedersi come esso sarebbe se tutto questo non avesse alzato barricate morali davanti ai kalashnikov e al tritolo che pensavano di piegare a sé il destino di una nazione, non avesse reso sconvenienti i patti con gli assassini, non avesse contrastato l’idea di una legge prona come tappeto al potente più corrotto. Perché in fondo abbiamo pur costruito il paese che oggi insegna l’antimafia al mondo, dalle leggi alle indagini agli studi. Perciò qui vi dico che sento l’onore di avere fatto parte di questa storia e di scrivere su un giornale che se la porta dentro con rispetto e amore.
P.S. Volete sapere se ho perdonato a Maradona il suo rapporto con il clan dei Giuliano di Forcella? Risposta di getto: sì. Passi la vita a predicare la coerenza e poi basta un poeta andino a farne carta straccia…
* Il Fatto Quotidiano 30/11/2020
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