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Massimo Ciancimino: “Ho paura di essere ucciso”

Di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella* il . Sicilia

Un’alta attenzione mediatica. L’aspettativa da parte di tutti di
conoscere le verità sulle stragi del ’92. L’inaspettato intervento del
capo dei capi Totò Riina su una trattativa che si concluse con la sua
cattura. Il brulicare crescente di informazioni che i politici, non si
sa bene perché, iniziano a dare solo oggi, dopo l’annuncio di Massimo
Ciancimino (che parla invece ai magistrati da più di un anno) di
consegnare ai pm di Palermo: il sostituto Nino Di Matteo e l’aggiunto
Antonio Ingroia, i documenti del padre con il famoso “papello”.

Il foglio scritto da Riina, o per sua interposta persona, con le sue
richieste allo Stato in cambio della fine delle bombe del ‘92. Un
susseguirsi di notizie, dichiarazioni, colpi di scena che stanno
creando fermento intorno al coinvolgimento di apparati istituzionali
nella trattativa avviata nel 1992 tra lo Stato e Cosa Nostra e il ruolo
di questi nella strage di via Mariano d’Amelio. Un capitolo che vede al
centro Massimo Ciancimino il quale continua a mantenere fede alla sua
promessa di dire la verità.
Una verità che – ci ha subito confessato durante il nostro recente
incontro – lo sta esponendo a ritorsioni di ogni genere e tipo. Tanto
che è stato costretto a traslocare in un albergo dove vive barricato in
una stanza. Non molto tempo fa il comitato per l’ordine e la sicurezza
gli aveva affidato una tutela richiesta dalla Procura della Repubblica
di Bologna costituita da due uomini in borghese che lo accompagnano nei
suoi spostamenti. Una protezione comunque superficiale, certamente non
all’altezza della portata delle dichiarazioni del figlio dell’ex
sindaco di Palermo che, “riconoscendo lo sforzo” dei suoi “protettori”,
noleggerà una macchina blindata: “Devo proteggere mia moglie e mio
figlio quando viaggio con loro”.
E ancora, fortemente preoccupato, ci dice: “Temo di non arrivare al
processo Dell’Utri”. Un processo in cui in tutta probabilità (i giudici
si sono riservati di decidere) sarà chiamato a deporre il 17 settembre
prossimo.
Il timore di Massimo Ciancimino non è dovuto alla sua ansia, né al suo
protagonismo, nasce invece da altre forme di minacce ricevute da
soggetti neppure troppo anonimi. Ma di questo lui non vuole parlare. Ci
sono in gioco interessi troppo alti che non devono essere toccati. Di
recente rispondendo alle domande dei pm aveva detto “è un gioco più
grande di me”. Ci  sono equilibri che destabilizzerebbero l’attuale
potere politico, nato proprio in quegli anni di stragi e
contrattazioni, quando l’era di “Tangentopoli” aveva rastrellato i
vecchi partiti storici collusi e corrotti.
Fu lì che Cosa Nostra sferrò il suo attacco allo Stato per dare un
segnale a quella certa classe politica che non era riuscita a garantire
a dovere alcune promesse. Per questo venne ucciso Lima poi Falcone. Ma
lo Stato invece di mostrare il suo pugno di ferro intavolò quella che
per tutti è diventata la “Trattativa”. Quel dialogo tra mafia e
istituzioni che in realtà, secondo la testimonianza di Ciancimino
junior, ebbe tre fasi.
La prima. Quella che – a differenza di quanto sostiene oggi l’on.
Mancino –  venne avviata dal Ros, quando a fine giugno ’92 il capitano
De Donno contattò, durante un viaggio aereo Palermo – Roma, Massimo
Ciancimino per chiedergli di convincere suo padre a incontrare il gen.
Mario Mori e poter effettuare uno scambio con Riina. Lo svolgimento di
questa prima fase lo si conosce dalle varie ricostruzioni processuali.
Vito Ciancimino si rese disponibile sperando di poter ottenere qualche
beneficio per la sua detenzione e lo stesso Riina accettò di buon grado
quel primo passo. Da lì la sua frase “si sono fatti sotto” e la
realizzazione di un “papello” pieno di richieste che lo stesso Sindaco
di Palermo aveva ritenuto inaccettabili.
Ed è proprio in questo momento che qualcuno, in alto, molto
probabilmente all’interno dei servizi o per mandato dei cosiddetti
poteri forti, convinse Riina ad accelerare i tempi e mettere a punto la
strage di Via d’Amelio. Per sbloccare il dialogo e per eliminare un
ostacolo scomodo e pericoloso: Paolo Borsellino.
La seconda fase della trattativa è quella dell’autunno ’92 che vide
subentrare Provenzano, finora rimasto spettatore. Binnu, riprendendo in
segreto il dialogo con i carabinieri attraverso Vito Ciancimino,
condusse questa parte di trattativa facendo di Riina il suo oggetto di
scambio.
Chi in effetti avrebbe potuto rivelare a Vito Ciancimino il
nascondiglio del padrino che egli stesso  indica nelle mappe di Palermo
procurate dai Carabinieri?
Il capo dei corleonesi venne così catturato, in cambio di nuovi
accordi, nel gennaio del ’93 ma, nonostante il Ros avesse individuato
il covo (nel quale avrebbe potuto trovare documentazione
importantissima) i carabinieri guidati da Mori trascurarono la casa di
via Bernini, rimasta priva di sorveglianza per 18 giorni. Il tempo
sufficiente agli uomini di Cosa Nostra per ripulire la villa di ogni
carteggio compromettente e per trasferire la famiglia del capomafia a
Corleone.
Di qui sarebbe poi partita anche una terza trattativa: quella che ha
visto Provenzano scavalcare anche Vito Ciancimino nei rapporti con le
istituzioni.
Il Ragioniere di Cosa Nostra infatti era in cerca di referenti politici
in grado di garantirgli impunità e agevolazioni legislative per quella
che sarà la nuova mafia del dopo stragi. Interlocutori credibili che
secondo i collaboratori di giustizia più accreditati, come Nino Giuffé,
Provenzano trova nel nascente partito politico di Forza Italia cui
sarebbe giunto, tramite Marcello Dell’Utri, già vecchio amico di Cosa
Nostra sin dagli anni Settanta. (Infatti molti collaboratori di
giustizia hanno dichiarato che Dell’Utri è amico di Cosa Nostra sin dai
tempi di Stefano Bontade e Vittorio Mangano, il famoso stalliere di
Berlusconi. Ma è soprattutto Salvatore Cancemi, ex membro della Cupola
e ora collaboratore di giustizia, che ascolta, nel 1991 da Riina in
persona, le seguenti parole: “Berlusconi e Dell’Utri sono nelle mie
mani e questo è un bene per tutta Cosa Nostra).
Per la Cosa Nuova il vecchio sindaco risultava infatti già troppo compromesso.
Don Vito venne così arrestato a dicembre del ’92 ma non smetterà
comunque di essere il consigliere di Provenzano che incontrerà nella
sua casa di Roma fino al 2002, durante gli arresti domiciliari. Infatti
il nuovo capo di Cosa Nostra è a lui che si rivolgerà per un
suggerimento quando nel 1994  dovrà recapitare la lettera con le
minacce al neo eletto Silvio Berlusconi tramite Dell’Utri.
Intimidazioni preventive che Cosa Nostra invia al Presidente del
Consiglio per ricordargli “chi comanda” e che “ci sono dei doveri da
rispettare”. La lettera – così come ha raccontato Massimo Ciancimino ai
giudici – era stata consegnata nelle sue mani nella casa di Pino Lipari
a San Vito Lo Capo, in presenza dello stesso Lipari e Provenzano. Il
compito di Ciancimino jr era dunque quello di farla arrivare a suo
padre, all’epoca detenuto a Rebibbia affinché esprimesse il suo parere.
Una missiva che era rimasta ai Ciancimino mentre un’altra uguale faceva
il suo corso fino a giungere al destinatario finale.
Una ricostruzione questa che completa le tesi espresse da diversi
collaboratori di giustizia sentiti in tutti questi anni dalle varie
Procure e le ipotesi investigative sulle stragi del ’92-’93 le quali
più volte si sono fermate, per mancanza di riscontri o per scadenza dei
tempi di indagine, al filone delle responsabilità politiche e
istituzionali sulle stragi in un periodo che ha segnato il passaggio
tra la prima e la seconda repubblica italiana.
Restano da capire alcuni punti che il figlio più piccolo di don Vito ci
auguriamo potrà chiarire in dibattimento, con un confronto aperto, se i
giudici lo riterranno opportuno, con i signori Riina, Cinà o
Provenzano. Il capo dei capi intanto, a sorpresa, ha espresso la sua
opinione, a modo suo, negando la prima trattativa, quella portata
avanti da lui stesso e chiarendo di essere stato venduto da un accordo
segreto tra lo Stato e Vito Ciancimino. “Riina discolpandosi dalla
strage di via d’Amelio – ha affermato Ciancimino – implicitamente
sostiene per la prima volta il suo ruolo in Cosa Nostra e non citando
la strage di Capaci non nega di avervi partecipato”. Dunque Riina non
parla a caso, le sue accuse tuonano come messaggi: “io non c’entro con
la morte di Borsellino” ha detto, “l’hanno ammazzato loro”. La domanda
è: loro chi? A chi Riina sta mandando i suoi avvertimenti? E perché
alcuni personaggi protagonisti della politica solo oggi rispondono e,
molto parzialmente, a domande che avrebbero dovuto avere risposte
esaustive subito dopo le stragi?

*tratto da: www.antimafiaduemila.it

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