Mafia, cinema e verità. Intervista a Marco Risi
Costantemente in bilico sul confine indecidibile che separa arte e verità, immaginazione e impegno civile, il cinema si è trovato spesso a doversi confrontare con un obbligo di responsabilità rispetto alle storie che sceglie di raccontare. Quando poi queste hanno per oggetto il fenomeno mafioso, ecco che il medium cinematografico viene a trovarsi in una posizione quantomai delicata, stretto fra il rischio di estetizzazione sempre in agguato e quello opposto di banalizzazione, di appiattimento. Chi bene ha saputo destreggiarsi in simile ginepraio è Marco Risi, che con il suo ultimo lavoro,Fortapàsc – uscito nelle sale napoletane il 20 marzo, alla vigilia della marcia organizzata da Libera – è riuscito a raccontare una storia, quella del giovane cronista Giancarlo Siani, assassinato a Torre Annunziata nel 1985 per far tacere la sua penna assetata di verità, senza la retorica celebrativa di tanti film sui ‘martiri’ della lotta alla mafia.
Di recente Luigi Lo Cascio si è detto del parere che il cinema abbia abbassato l’attenzione sulla mafia. Lei condivide questa considerazione?
«Non il mio cinema, certamente. E neanche quello di Gomorra. Se un calo d’attenzione c’è, questo non è il mio caso. È vero che c’è stato un periodo, subito dopo La piovra, in cui si diceva fosse il caso di smettere di fare film sulla mafia perché si rischiava di far passare un’immagine sbagliata della società, ma ora non è così. In seguito all’uscita di Fortapàsc è stata condotta una grossa operazione in Campania che ha portato all’arresto di circa novanta camorristi, e il suo nome era proprio quello del mio film. Ora, non pretendo che si sia trattato di una citazione, ma mi piace pensare che forse, anche in minima parte, il film abbia contribuito, che qualcosa sia successo. A me sembra che stiamo attraversando un periodo molto intenso sul fronte dell’antimafia: la magistratura ha avviato numerose indagini, molte operazioni delle forze dell’ordine sono in corso. Dal canto suo, il cinema fa in parte la sua parte. Il tema della mafia era più presente nelle pellicole in passato? Io veramente non ricordo tutti questi titoli; Salvatore Giuliano, Il giorno della civetta, Pizza connection…lo stesso Mary per sempre in fondo non è un film sulla mafia, quanto piuttosto sulla mentalità mafiosa che costringe i ragazzi a crescere con una filosofia di vita ispirata a nient’altro se non all’affermazione personale mediante la violenza perché nessuno ha insegnato loro come autoaffermarsi con gli strumenti della dialettica e del confronto civile. Ma questo è più che comprensibile se si considera che il contesto culturale che li avvolge è quello in cui il 2 novembre viene celebrato con la tradizione dei morti che portano armi giocattolo in dono ai bambini.»
Il cinema, pur essendo un’arte, si trova costitutivamente a dover rispondere a un obbligo di verità. In questo senso, potrebbe offrire un contributo al contrasto del fenomeno mafioso?
«Io credo che più che fra realtà e finzione, occorra distinguere fra film riusciti e film non riusciti. Il cinema non è né deve essere verità: solo se le scene proiettate somigliano alla realtà senza riprodurla, ma anzi interpretandola artisticamente, si può dire che il cinema abbia assolto a un compito importante. Bisogna però prestare molta attenzione a non confondere l’immagine filmica e quella reale, perché in nessun caso esse possono – né devono, qualora il film sia riuscito – venire a coincidere. Per questo non ha senso secondo me parlare dell’influenza negativa che un film può avere sul pubblico: raramente mi è capitato di essere influenzato negativamente, se non nel caso di un film brutto e fatto male – e allora mi è anche successo di abbandonare la sala. La verità è che forse bisognerebbe arrivare più educati al cinema, cosa che non succede ormai quasi più. Di ciò è in gran parte responsabile la televisione, che con il suo bombardamento di notizie ha l’effetto di far sembrare tutto vero o tutto falso. Mi conforta tuttavia quanto dettomi da un ragazzo che ho incontrato qualche settimana fa durante un festival a Ischia: mi ha confessato come Fortapàsc sia stato per lui il film in assoluto più importante, un po’ quello che ha rappresentato per me Il posto di Ermanno Olmi. Ecco, quando arrivano riscontri di questo tipo, ti fanno pensare che il cinema abbia raggiunto un qualche scopo.»
Gillo Pontecorvo ha detto una volta di non aver fatto un film sul generale Dalla Chiesa per non correre il rischio di portare sullo schermo la sconfitta di un’Italia migliore. Lei questo rischio l’ha corso e ha vinto la scommessa.
«Io credo che Fortapàsc restituisca l’immagine di un’Italia migliore, forse più forte. L’idea, quello che con una parola abusata quanto inadeguata viene chiamato ‘messaggio’ del film può dirsi centrato anche solo se qualcuno dopo averlo visto avesse sentito il desiderio di assomigliare almeno un po’ al protagonista, o di incontrare qualcuno che possa assomigliargli. Per questo più che un film bello mi piace pensare a Fortapàsc come un film giusto, capace di lasciar intravedere che un’Italia diversa e migliore è ancora possibile.»
Lei ha parlato di Fortapàsc come di un film sulla resistenza. È ancora di quest’avviso?
«Davvero l’ho detto? No, non direi che è un film sulla resistenza, in primo luogo perché il suo protagonista era del tutto inconsapevole di agire in termini resistenziali. E poi perché la storia che racconto non è solo la vicenda personale di Giancarlo Siani, ma potenzialmente riguarda ciascuno di noi. Uno dei motivi centrali della pellicola è la distanza che separa i ‘giornalisti-giornalisti’ dai ‘giornalsti-impiegati’, una sorta di compromesso cui Siani non ha mai voluto piegarsi; ecco, se allarghiamo questo ragionamento a tutte le categorie professionali, ci rendiamo conto che se tutti facciamo bene il nostro dovere, questo Paese può diventare fantastico, ma solo se al di sopra di qualsiasi altra logica poniamo la massima del non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. È evidente come questa prospettiva metta completamente fuori gioco qualunque tentativo di cercare in Fortapàsc un elogio della resistenza, non foss’altro perché risultano privi di senso gli stessi concetti di ‘martire’ ed ‘eroe’ che una simile interpretazione implica. Così, se un’Italia migliore è prefigurata come possibile, ne è condizione irrinunciabile il fatto che lo Stato non giochi contemporaneamente sul terreno delle istituzioni e su quello della camorra.»
Dopo le alterne vicende che ne hanno seguito l’uscita, Fortapàsc sarà proiettato all’interno della rassegna ‘Libero cinema in libera terra’ sugli schermi allestiti in territori ‘caldi’ della criminalità organizzata. Un segnale importante?
«Questa è una cosa fantastica, ne sono assolutamente entusiasta. È bello che si porti il cinema direttamente nelle zone chiamate in causa sullo schermo. Lo stesso Fortapàsc – che è stato oggetto di una richiesta di sequestro, perlatro puntualmente respinta dalle autorità competenti – è stato proiettato a Salerno, a Minturno e a Nettuno; ma pensiamo anche a cosa possa significare portare certi film in un posto come Corleone. Sì, questa è senz’altro una delle iniziative attraverso cui il cinema può arrivare a incidere più in profondità.»
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