Serafino Famà, 25 anni dopo la figlia lo ricorda
Venticinque anni fa ero una ragazzina, un’adolescente che si affacciava alla vita.
Amavo giocare a pallavolo, mi piaceva studiare e fare le passeggiate con le amiche. Non lontano da casa però, perché era pericoloso allontanarsi dal quartiere. Scippi, rapine, furti, omicidi, locali che prendevano fuoco. Il “fermo” era la quotidianità: essere fermati da uno o più ragazzi che con un’arma ti costringevano a dargli tutto ciò che avevi.
Era questa la mia Catania, la mia normalità. Venticinque anni fa avevo da poco iniziato la scuola, il primo liceo. Mi ricordo che mio padre, come aveva sempre fatto all’inizio di ogni anno scolastico, mi chiese l’elenco dei miei compagni di classe e dopo ogni nome mi diceva “si” o “no”, li puoi frequentare oppure no, “ma non devi avere paura di nessuno, semplicemente non sono persone con cui mi fa piacere che diventi amica, senza paura, solo a distanza”. Parole che non capivo fino in fondo ma che ascoltavo con attenzione.
Il 9 novembre 1995 era un giovedì, avevo avuto il compito di latino e dopo l’uscita di scuola mi recavo alla fermata dell’autobus, il 37, che mi avrebbe, prima o poi vista la frequenza delle corse, riportata a casa. Trovai mio padre ad aspettarmi. Pranzammo insieme, poi lui andò in studio e io agli allenamenti di pallavolo. C’era tanta folla sul piazzale di fronte casa, troppa.
Sei colpi di 765 avevano fermato la sua vita, la mia vita.
Il resto dei giorni resta confuso come in una bolla di sapone, poi quel giorno nell’aula bunker del carcere di massima sicurezza di Bicocca li ho guardati dietro le gabbie, tranquilli e sereni. Volevo vedessero che continuavo a non avere paura. Volevo vedessero una vita, una famiglia, una normalità spezzata per delle logiche criminali per le quali se ti opponi alle richieste di un boss devi pagare con la vita.
Mio padre era un avvocato penalista, un difensore che si batteva strenuamente per il rispetto delle regole e dei diritti dei suoi assistiti. Aveva un carattere generoso quanto intransigente. Da ogni sua trasferta tornava con un dono per noi, un modo per dimostrarci che eravamo il suo centro.
Dopo la condanna dei suoi assassini e del mandante ho deciso di lasciare la mia terra e di andare avanti, pensavo di poter lasciare oltre lo stretto quella morsa al cuore che mi accompagnava da quel 9 novembre. Quella stretta allo stomaco talmente forte che toglie il respiro, che ti provoca nausea e mancamenti.
Dieci anni dopo ho incontrato don Luigi Ciotti e gli altri familiari di vittime innocenti delle mafie e ho capito che l’unico modo per allentare quella morsa sul cuore è assumersi l’impegno della memoria, che il modo migliore per andare avanti è stare accanto a chi oggi combatte quelle stesse battaglie per la libertà e la democrazia, sulle orme dei nostri cari.
Molti avvocati continuano a essere minacciati e insultati per il loro lavoro, si continua a commettere l’errore di identificarli con il proprio assistito senza riconoscere la funzione sociale della professione.
Durante un’assemblea della Camera Penale di Catania del 13 giugno 1994 si discuteva dell’adesione allo sciopero dopo l’inchiesta aperta dalla Magistratura di Napoli sull’astensione dalle udienze di alcuni difensori nel maggio del 1992.
Voglio ricordare mio padre con le sue parole espresse in quel periodo.
“Voglio sottolineare qualche cosa. A me non sembra che il diritto del cittadino di conoscere o no se è indagato sia una cosa di poco conto. Secondo me fino a oggi si è fatta una disapplicazione costante, preordinata dell’articolo 335, nel quale secondo me vanno distinti il segreto interno e il segreto esterno. Quel segreto ha come destinatario la persona non interessata al processo.
Secondo me è impensabile che l’indagato non abbia diritto di conoscere questo stato di indagato. Se è vero che ci sono altre norme, come mi è captato di dire altre volte, per le quali l’indagato ha il diritto di presentarsi al proprio giudice per fornire indicazioni utili al suo procedimento, non vedo come ciò può fare se non conosce lo stato di indagato. La persona offesa può proporre incidente probatorio, sollecitandolo al pubblico ministero, non vedo come ciò possa fare se non ha diritto a conoscere la pendenza del procedimento.
La Procura ha cristallizzato questa prassi per la quale fino all’udienza preliminare l’inquisito non ha diritto di conoscere questo stato di inquisito. E’ una cosa che io non condivido e credo che dovremmo meditare tutti su questa norma fondamentale perché è veramente un punto di riferimento importantissimo per l’esercizio professionale.
Sono state dette molte cose sagge. Prendiamo spunto dai fatti di Napoli per meditare su quello che è stato oggetto di precedenti denunzie, cioè la sistematica disapplicazione di parecchie norme del codice di rito che hanno portato al sostanziale svuotamento del ruolo di difensore.
Tutti i fatti della vita hanno un substrato culturale. Nessun fatto si può verificare se non ci sono le condizioni perché questo fatto si verifichi. Io credo che nessun Cordova di questo mondo avrebbe preso l’iniziativa se non avesse registrato da troppo tempo una sistematica arrendevolezza degli avvocati di fronte ai loro diritti. L’avvocato è giusto che in aula porti la toga. L’avvocato è giusto che dica al pubblico ministero che deve occupare il posto che il codice prevede e non sieda accanto al giudice. L’avvocato è giusto che nell’ambito delle sue funzioni sistematicamente stia attento a che i suoi diritti non vengano disconosciuti. La legalità si conquista nel quotidiano. Ora se non stiamo attenti a queste cose, la caduta di immagine nella quale siamo precipitati, e di ruolo, sarà totale e irrecuperabile.
Io mi sono sistematicamente rifiutato di accettare la perquisizione a Bicocca perché la trovo indegna. Trovo indegno il fatto che il poliziotto acquisisca la mentalità e la cultura che l’avvocato è istituzionalmente soggetto meritevole di sospetto. E’ questo il fatto che mi indigna non la perdita di tempo di tre minuti. E’ ridicolo che ogni giorno il poliziotto registri nome, cognome, indirizzo, numero del tesserino e anche: “dove abita lei?”. Io dico, io sono senza fissa dimora, gli rispondo sempre. E’ una cosa offensiva che è fatta proprio per mortificare l’avvocato.
Ora io dico, riflettiamo su tutte queste cose e cerchiamo di non fare lo sciopero fine a se stesso ma di meditare veramente su questa violazione sistematica per stabilire quali devono essere da parte di ciascuno di noi gli strumenti di ristabilimento della legalità per quello che ci riguarda. Vi ringrazio.
Trackback dal tuo sito.